Fosca/Capitolo XXIX
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XXIX.
Sì, nel segreto del mio cuore io giustificava Fosca. Se volendolo l’avesse potuto, il suo amore sarebbe stato puro. Ella avrebbe voluto amarmi come una sorella; ella comprendeva la sublimità di questo affetto, e soffriva di non poterlo conservar tale. Ciò era tutto, in lei non vi era dunque alcuna colpa.
Queste pagine che mi scrisse durante la sua malattia ne erano la prova più evidente:
«Mio Giorgio — Ti scrivo subito oggi benchè il medico me l’abbia vietato. Non posso credere alla mia felicità, a me stessa. Poterti scrivere! Avere una persona cui poter dire ciò che si pensa, ciò che si sente, ciò che si soffre! E sapere che queste sensazioni, questi sentimenti, queste sofferenze sono condivise!… Non l’avrei mai sperato, non l’avrei mai sperato!
«Anche prima di essere certa del tuo amore ho voluto illudermi che tu accettassi e avessi care le mie confidenze, ho voluto provare un’ombra di questa gioia, ti ho scritto quasi tutti i giorni; ma mio Dio! sapeva bene che tu non avresti letto quelle pagine, che io mi illudeva, null’altro, che io mi illudeva. Se tu sapessi cosa vuol dire avere il cuore così pieno! E pure...
«Ti dirò una cosa che ti farà sorridere. L’anno scorso aveva una coppia di canarini, il maschio è morto quest’inverno — non so come avvenisse, incominciò ad arruffarsi, a tremare, a sonnecchiare, a non mangiar più, e un mattino lo trovai irrigidito sul fondo della gabbia. Ebbene, la femmina, venuta la primavera, ha fatto tuttavia il suo nido, e se avessi veduto con che cura! Non aveva uova e nondimeno covava sempre, covava tutto il giorno, e pigolava in quel metro affettuoso che hanno tutti gli uccelli quando allevano i piccini. Anche oggi che siamo in estate, non si è ancora ricreduta di questa illusione. Quante volte questo povero uccello mi ha fatto pensare a me stessa, e mi ha fatto piangere!
«Però tu non vedrai queste pagine, perchè allora non mi amavi, perchè esse appartengono ancora ad un’epoca del mio passato che ho bisogno di dimenticare per sempre. Se potessi dimenticarlo!
«Tu mi devi perdonare le angosce che ti ho cagionato ieri; devi perdonare le mie dubbiezze, le mie esigenze, le mie contraddizioni. Adesso ti scrivo col cuore calmo, e conosco ciò che vi era di reprensibile nel mio contegno, allora non lo poteva. Ho sofferto molto a vederti partire, ma oggi mi sento quieta e felice. Tu non puoi comprendere la sorpresa, dirò quasi lo sbigottimento che provo in me stessa nello scrivere queste parole che non ho mai potuto nè dire, nè scrivere: «Mi sento felice!».
«Tant’è, bisognerà bene che tu mi conosca, ho promesso di raccontarti la mia vita e lo farò. Il medico mi ha detto che non potrò alzarmi prima di otto giorni, utilizzerò questo tempo nel farti il mio racconto. Oggi non lo potrei, ti scrivo con molta fatica.
«Se sapessi quanto mi è caro il tuo fazzoletto; lo tengo sempre sul cuore, dormo con lui; ho qui ancora i fiori che tu hai baciato; e alzando un poco la testa posso vedere la sedia su cui ti sei seduto: vi ho fatto metter sopra un mio abito perchè non vi si segga più nessun altro. Oh mio Giorgio, mio adorato! mio mio! È egli vero?
«Non posso scriverti di più, mi duole il braccio; e poi non so nemmeno se potrai decifrare i miei caratteri. Sono felice e ti adoro, ecco tutto, non potrei dirti altro. Ieri, mentre salivi la scala, ho sentito la tua voce. Dio, che spasimo! Amami, Giorgio, amami. Il tuo cuore non ha che a pensare all’immensità della mia miseria per trovare in sè la forza di amarmi.
«Voglio avere un altro oggetto toccato da te, ho bisogno che tu mi dia qualche altra particella della tua personalità. Ti acchiudo un mio piccolo nastro, bacialo e rimandamelo.»
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«Ho passato tutto il giorno a sognare, e perciò non ti scrivo che stasera. Ho avuto caro che oggi abbia piovuto. Una volta la pioggia mi metteva malinconia; adesso mi rallegra. Forse perchè ora sono felice, mi piace che la natura sia malinconica? Non lo so. Quando si è felici si amano i piccoli dolori e le piccole contrarietà — forse per ombreggiare meglio le nostre gioie e per darvi un risalto maggiore.
«Devo dunque parlarti di me? scriverti qualche cosa della mia vita? Non so come incominciare.
«Quando era piccina aveva un’abitudine comune a tutti i fanciulli, e di cui veniva rimbrottata assai spesso. Chiudeva gli occhi, e vellicandoli leggermente col rovescio della mano, vedeva dei ghirigori, delle scintille, degli oggetti d’ogni forma e d’ogni colore, delle figurine, ma tutte in modo confuso, intricato, variabile. Mi succede ora intellettualmente lo stesso fenomeno se tento di affacciarmi alle memorie del mio passato.
«E sì che il mio passato fu assai povero di tutte quelle gioie che formano ordinariamente per le donne una causa di dolci rimpianti — amori, adulazioni, vanità soddisfatte — io ho provato nulla, o quasi nulla di tutto ciò. La maggior parte degli uomini amano inconsciamente il passato per la sola ragione che è passato, io credo di averlo caro per lo stesso motivo.
«Io nacqui malata: uno dei sintomi più gravi e più profondi della mia infermità era il bisogno che sentiva di affezionarmi a tutto ciò che mi circondava, ma in modo violento, subito, estremo. Non mi ricordo di un’epoca della mia vita in cui non abbia amato qualche cosa. Mi asterrei dal raccontarti ora alcune particolarità di questa mia disposizione morbosa, se non fosse che ciò deve spiegarti le molte anomalie che dovrai riconoscere più tardi nel mio carattere. La mia potenza di affettività non aveva nè modi, nè limiti; era una febbre, una espansione, un’irradiazione continua; avrei potuto amare tutto l’universo senza esaurirmi.
«E parlo di affetti, non di amore, chè a quell’età non avrei potuto sentire altro che affetti; se quel bisogno di amore fosse perdurato sì violento fino alla gioventù, mi avrebbe trascinata a qualche eccesso colpevole.
«Tutti i fanciulli si affezionano ai primi oggetti che possiedono, sopratutto alle cose che vivono od hanno apparenza di vita; ma le loro predilezioni sono superficiali, mutabili; sono meglio che affetti, un’affettuosa curiosità di conoscere. L’intensità era invece la maggiore dote della mia; amavo le cose che amano i fanciulli, ma come le amerebbero gli uomini.
«Mi ricordo spesso — e te lo racconto per farti sorridere — di una piccola sciagura che m’accadde a sette anni, e che mi fu causa di una malattia quasi mortale. Avevo un micio ed un canarino; erano tutta la mia affezione, non avrei saputo dire quale amava di più. — Il micio mangiò il canarino — immagina tu il mio dolore! Uno l’aveva perduto, l’altro non lo poteva più amare, doveva abborrirlo. Me ne corrucciai tanto, che ne fui malata due mesi.
«Non ho mai amato le bambole, aveva avversione a tutto ciò che non era vivo; amava le piante ed i fiori perchè mi parevano cose viventi. Non so dirti ciò che provava alla vista di un cespo di viole, di un bulbo di giacinto, di una pianticella di primule. Le sradicava, e le tramutava spesso di vaso per averle tra le mani, per vederne le radici, per guardarle bene; se morivano, ne conservava gli steli disseccati. Di tutte le sensazioni incerte e confuse di quella età, questa è stata sempre per me la più inesplicabile — questo strano amore che aveva per le piante. Mi avviene ancora oggi di pensarvi alcune volte, senza poterne punto comprenderne la natura.
«L’attaccamento che sentiva per le mie compagne, per i fanciulli, per le persone di casa, mi era spesso motivo di grandi tormenti. Esigeva dal loro affetto più di quello che era possibile concedermi; quindi quelle contrarietà me le facevano credere indifferenti, apate, ingrate; ne soffrivo come soffrirei ora d’un vero abbandono e d’una vera ingratitudine. Una mia nutrice che io amava assai dovette allogarsi in mia casa, e rimanervi fino a che io non ebbi toccato i dodici anni, giacchè mi era ammalata ad ogni tentativo che si era fatto di separarmene.
«A quell’età fui posta in collegio, e mi vi innamorai di una mia compagna. Fu una passione vera, ostinata, tenace, quale non poteva sentirla che io. Quella fanciulla, che ora è donna maritata, non comprendeva nulla della profondità e dell’indole di quell’affetto; e quantunque mi riamasse, lo faceva sì freddamente che io ne era desolata. Era — benchè buona — una ragazza vacua e leggiera come le altre, era bellissima, e fu forse la sua beltà che mi trasse inconsciamente ad amarla. Mi ricordo che mi alzava di notte per andarla a vedere mentre dormiva, e passava molte ore vicino al suo letto, coi piedi nudi, colla sola camicia, tutta tremante di freddo. Le rubava i suoi nastri e le sue pezzuole pel solo motivo che erano sue, la scongiurava colle lacrime a dirmi che mi voleva bene, a lasciarsi baciare. Ma ella era spesso senza pietà. Non solo quella delusione non mi guarì della mia malattia, ma mi fu anzi fatale, perchè mi fece comprendere che avrei trovato difficilmente in altri cuori quell’affetto ardente e senza limiti che sentivo nel mio.
«Fui levata di collegio dopo pochi mesi, e non aveva ancora quattordici anni che fui presa d’amore per un uomo di quaranta, un giudice di mandamento, un amico di mio padre che veniva in nostra casa tutte le sere. Allora, strana cosa! non aveva simpatia che per uomini molto attempati. Benchè giunta all’epoca della pubertà, non era più sviluppata di quanto lo sia una fanciulla robusta di dieci anni: egli mi trattava come una bambina, e mi faceva spesso ballare sulle sue ginocchia; le sue carezze e i suoi baci, ogni suo atto di famigliarità, mi cagionava un turbamento dolce e incomprensibile.
«L’amava alla follia, benchè non comprendessi nulla della natura di questo sentimento, e avessi quasi paura di lui. Era un uomo alto, serio, con una gran barba nera: ora che ci penso non so come a quell’età avessi potuto innamorarmi di un tal uomo, pure fu una passione quasi decisiva per la mia vita. Ebbi il coraggio di scrivergli una lunga lettera che egli mostrò a’ miei parenti. Mio padre rise, ma mia madre ci vide dentro il germe di una passione seria, e lo pregò a non venir più in nostra casa. Nell’uscire, egli m’incontrò sull’uscio, mi prese pel mento e mi disse: «Mia cara piccina, vorreste incominciare troppo male e troppo per tempo; non avete avuto paura de’ miei quarant’anni? Se mia moglie avesse veduto la vostra lettera, vi avrebbe mandato a regalare un bel pulcinella». Mi strinse una guancia tra le dita, ed uscì sorridendo.
«Mi ammalai di dolore e di vergogna: vissi per due anni malaticcia, pensierosa, raccolta, appassionata della solitudine e dei libri. In quel periodo di raccoglimento mi formai l’intelletto ed il cuore; vi era entrata fanciulla, e ne uscii donna.
«Ma sono già assai stanca, mio caro Giorgio, proseguirò domani. Addio, addio.»
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«Ove sono rimasta? Eccomi a riprendere.
«Mio padre e mia madre mi adoravano, e si adoravano. Erano due creature stranamente ingenue, stranamente buone. Si erano fatti all’amore diciassette anni prima di sposarsi; erano vecchi tutti e due, e non avevano avuto altri figli. Questo nome di Fosca che a te sarà parso assai singolare, è comunissimo in quella provincia delle Romagne dove son nata, e me l’avevano dato perchè era stato quello d’una bisavola che non ho conosciuto.
«L’affetto che mia madre aveva per me la rendeva sì cieca a’ miei difetti, che l’educazione che ella mi diede fu affatto impotente a correggermene. La sua illusione più costante, quella che non si smentì mai, nemmeno dopo che le malattie m’ebbero deformata come tu vedi, era che io fossi bellissima. Parlava di me alle sue amiche come di un prodigio di avvenenza, e si spaventava dei pericoli che circondavano la mia bellezza. La verità era che le attrattive della gioventù supplivano in parte al difetto di quelle della natura; non ero nè brutta, nè spiacevole, ma non ero bella; e fu la convinzione che ella aveva infuso a me fino da piccina, che mi rese doppiamente terribile il dovermi ricredere di un errore così dolce.
«Tu non sai cosa voglia dire per una donna non essere bella. Per noi la bellezza è tutto. Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che alla condizione di essere avvenenti, l’esistenza di una donna brutta diventa la più terribile, la più angosciosa di tutte le torture. Nella vita dell’uomo non vi è miseria paragonabile a questa. L’uomo, ancorchè deforme, ancorchè non amato, ha mille divagazioni, ha mille compensi; la società gli è indulgente; non potendo mirare all’amore, egli mira all’ambizione; ha uno scopo; ma la donna non può mai uscire dalla via che le hanno tracciato il suo cuore e la sua vanità, non può tendere ad altro fine che a quello di piacere e di essere amata. Non vi è che la maternità che possa compensarla qualche volta della privazione dell’amore, ma questa ne è il frutto, ed è spesso negata alla bruttezza.
«Mio caro Giorgio, tu comprenderai ciò che io ti voglio dire: io ho provato questo tormento in tutta la sua estensione; io più che molte altre infelici, giacchè la mia sensibilità era disgraziatamente ancora più mostruosa della mia laidezza. Sì, della mia laidezza; avrò il coraggio di giudicarmi senza pietà, e di chiamare le cose col loro nome. Se tu sapessi... io ho odiato molto me medesima, ho odiato molto la mia disavvenenza, ma non mai tanto quanto ho detestato e detesto ancora il mio cuore. Sono le sue esigenze che mi hanno reso doppiamente terribile il peso della mia deformità.
«Allora io non era però così brutta, e se quella strana illusione che mia madre aveva fatto nascere in me coi suoi elogi non avesse dapprima lusingata, poi ferita improvvisamente la mia vanità abbandonandomi, avrei potuto rassegnarmi alla mia fortuna che non era delle più tristi, e forse anche appagarmene. Il disilludermi mi costò invece molti dolori. Giunta ad un’età in cui la bellezza doveva esser tutto, riconosceva di non essere bella; quell’illusione non aveva durato che per tutto quel tempo in cui non sarebbe stato necessario di averla.
«Ti ricordi di aver avuto sedici anni? Hai provato anche tu quella febbre, quelle smanie, quelle inquietudini incomprensibili che accompagnano quell’età? Hai sentito anche tu il bisogno di straziarti il cuore con mille sventure immaginarie, di crederti vittima di persecuzioni che non soffrivi, di fantasticare una felicità impossibile per godere crudelmente di disilluderti? Hai provato tu pure quel bisogno che ti spingeva a cercare una chiesa per pregarvi e per piangervi? La mia vita fu così povera anche di amicizia che non ho ancora potuto penetrare nel cuore di un’altra creatura: non so cosa abbiano provato le altre donne a quell’età, ma ciò che ho provato io è fuori di ogni espressione. Il bisogno di essere amata era il segreto di tutte le mie sofferenze, io lo comprendeva. La natura non mi aveva dotata soltanto di un cuore sensibile, ma di una costituzione inferma, nervosa, irritabile; io non poteva avere nè quella forza passiva che dà l’apatia, nè quella castità naturale che dà la robustezza: l’amore doveva essere il mezzo e lo scopo di tutta la mia esistenza.
«Non tardai a convincermi che non poteva inspirare dell’affetto. Tutte le donne scelgono, io doveva lasciarmi scegliere. E questa piccola rinuncia che era necessario fare al mio amor proprio, non sarebbe pur stata assai crudele se qualcuno mi avesse almeno preferita ed amata. Vissi invece fino a vent’anni, senza aver inspirata la benchè menoma affezione; senza aver ottenuto, nemmeno per gioco o per pietà, il conforto di una parola amorevole.
«La condizione delle donne del volgo ha ciò di preferibile alla nostra, che l’amore tra esse non obbedisce a leggi di etichetta; possono non essere amate veracemente, e tuttavia godere delle apparenze dell’amore, e spesso anche de’ suoi vantaggi. L’educazione non ha reso il loro cuore così esigente come il nostro; esse non sentono il bisogno di sacrificargli le dolcezze di un affetto colpevole. Non vi è confronto tra l’infelicità che la bruttezza può cagionare ad una donna ricca, e quella che può cagionare ad una donna povera; gli occhi del mondo non si rivolgono mai su quest’ultima — il codice dell’onore non colpisce che la donna ricca.
«Mio caro Giorgio, dirti ciò che ho sofferto in quegli anni sarebbe impossibile. Coll’amore mi mancava tutto; quando non si è amate, la vanità non ha più motivo di essere l’ambizione non ha più scopo, tutte le nostre piccole passioni svaniscono ad una ad una, come quelle che attingevano tutta la loro vitalità dall’amore, e non potevano sussistere senza di esso.
«Mi abbandonai con furore alla passione del meditare e del leggere — passione che non mi ha lasciata più da quel tempo — e vi trovai qualche conforto, non foss’altro quello di dimenticarmi a tratto a tratto, e di sollevarmi sulla triste realtà che mi circondava. Ma la lettura è fatale in ciò, che quella dimenticanza apparente ci ripiomba ancora più disarmati nelle memorie che tentavamo dimenticare; che l’idea fissa dalla quale sembra distoglierci trova invece mille conferme, mille argomenti di essere, nelle pagine medesime che leggiamo. Portare le passioni nella solitudine è lo stesso che volerne essere dominati. E poi, non è la lettura, non è la solitudine che possono guarirci dell’amore a vent’anni; le donne non ne guariscono mai, le nature superiori ne muoiono.
«Non poteva sperare nulla dagli uomini, mi rivolsi a Dio; è ciò che noi tutte finiamo di fare; se non che io l’aveva fatto troppo presto. Divenni religiosa; entrai in quel periodo di ascetismo sincero, esaltato, profondo, che tutte le donne di cuore, ancorchè felici, hanno o tosto o tardi provato e superato. Mi pareva di poter dare così uno scopo alla mia vita. Nelle nature buone e generose l’amore non è egoista, egli non è tanto un desiderio di rendere felici sè stessi, quanto un bisogno di rendere felici gli altri; non è spesso che una smania di sacrificarsi all’altrui felicità: ora mi pareva che il sagrifizio che avrei fatto a Dio della mia gioventù avrebbe dovuto soddisfare in qualche modo quella sete di amore che mi struggeva da tanto tempo senza rimedio. Molte donne furono condotte a Dio da questa illusione. Hanno esse trovato pace? È ciò che io non ho potuto esperimentare.
«Un giorno mi recai sola a visitare un convento che era poco lungi dalla città, isolato, sopra un colle, come un nido di colombe, quieto, solitario, sereno. Mi sedetti sui gradini della porta. Gli alberi del cortile sorpassavano colle loro cime l’alta muraglia di cinta, e sembravano affacciarsi per mormorarmi un invito ad entrare: da quell’altura si vedeva la campagna tutto all’intorno, e la città simile ad un immenso alveare: sulla porta erano scritte le meste parole della Bibbia, «Sacro all’amore e al dolore;» tutto era pace e silenzio.
«Rimasi colà assai tempo. Nel ritornare l’eco di un salmeggiare improvviso che veniva dalla chiesa parve volermi richiamare.
«Era di sera; il sole tramontava, gli uccelli si raccoglievano sugli alberi... colsi una pratellina, e ne strappai i petali ad uno ad uno: «Sì e no, sì e no», l’ultimo era «Sì». Decisi. All’indomani manifestai il mio progetto a mia madre. Ne fu spaventata. Si pose a piangere e mi disse: «Mia cara figliuola, tu ci vuoi far morire; pensare a lasciarci!… noi che non viviamo che per te! Entrare in un convento, alla tua età! una bella fanciulla come sei tu, colla tua dote!
«Che poteva io fare? Non mi amava forse mia madre? Non aveva io il debito di riamarla? Mia madre!»
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«Ieri sera non ho potuto nè proseguire, nè mandarti ciò che aveva scritto. Oggi sono tentata a non continuare. Mi pareva di aver tante cose a raccontarti, e vedo che finisco col raccontarti nulla. Forse che io non ho sofferto? No, egli è che le cause delle mie sofferenze sono tutte intime, sono tutte morali, e tu puoi meglio immaginarle che io dirtele. E poi, come si può dire un dolore? come una gioia?
«Ho domandato spesso a me medesima se l’apatia e l’egoismo, e talora quella melata crudeltà che li maschera, non sieno altro che una conseguenza di quelle leggi che regolano l’individualità, di quell’impossibilità assoluta di comunanza tra un essere e l’altro che ci tiene divisi e isolati, e forma di ciascun individuo un centro irremovibile nel gran mondo delle sensazioni. Dolori, speranze, affetti, tripudii, tutto è essenzialmente individuale. Sembra che da tutte le leggi della natura si sollevi una voce che ci grida: «Nessuno può addossarsi la soma dei tuoi dolori, o versarti le dolcezze delle sue gioie; nessuno può togliere od aggiungere un atomo al tuo essere: non riporre le tue cure che in te stesso».
«Credetti finalmente di essere amata.
«Un mattino trovai sul mio balcone un mazzo di fiori che vi era stato gettato dalla via. Sopra una cartolina che v’era nascosta dentro erano scritte queste parole: «Vi amo. Lodovico». Chi era questo incognito? Era giovine, bello, veramente innamorato di me? Non lo sapevo, nondimeno era felice, era pazza; v’era un uomo che mi aveva detto: «Vi amo;» ciò era già per me un avvenimento sì grande, che l’ordine delle mie idee ne era interamente sconvolto.
«Risolsi di tentare ogni mezzo per scoprire chi fosse lo sconosciuto che mi aveva indirizzato quel biglietto. Aveva già osservato da parecchi giorni che un giovine forestiero passava assai spesso sulla via, e sollevava gli occhi alle mie finestre con aria d’imbarazzo; ma egli era sì bello, sì elegante, e pareva esser anche sì ricco, che io non avrei mai osato illudermi che egli vi passasse per me. Io l’aveva d’altronde guardato sì poco e con tanta timidezza, che non era possibile che egli avesse tanto letto nell’anima mia da risolversi a scrivermi quelle parole. Mi pareva follìa l’abbandonarmi a quella speranza.
«Nondimeno mi convinsi a poco a poco che — fosse egli stato o no l’autore di quel biglietto — quell’incognito mi amava. Era così facile l’indovinarlo. Egli non passava che per vedermi — ciò era evidente. In quanto a me, non aveva già più altro pensiero che il suo. Essere amata da quel giovine mi pareva felicità così grande, che ne era quasi atterrita. La sua bellezza sembravami ancora superiore all’ideale che mi era formata di un amante.
«Un giorno ripassò sotto le mie finestre cavalcando, mi guardò e mi mostrò con aria d’intelligenza un mazzetto di viole che aveva in mano. La mattina trovai quei fiori sul mio balcone. Dentro vi era un altro biglietto su cui era scritto: «Mi amate? Lodovico». Non v’era dubbio. Era lui, e mi amava. Immagina tu, o Giorgio, l’anima mia!
«In quel tempo, mio cugino, che era maggiore, e aveva ottenuto un anno di disponibilità, conviveva colla mia famiglia. Egli era orfano da giovinetto, e mio padre, che era poco più attempato di lui, lo aveva caro come un fratello. Alcuni amici suoi e di mio padre si radunavano alla sera nella mia casa; erano persone serie, gravi, mature, appassionate di discussioni politiche; e nè io nè mia madre solevamo far loro maggior compagnia di quel tanto che ce lo imponevano le convenienze. Mio cugino mi disse un giorno: «Come avviene che non ti si vede mai? sembra che tu ci sfugga: hai forse paura dei nostri anni e della nostra serietà? vuoi vederti intorno dei giovani? Lasciane il pensiero a me; porterò qui una calamita più attraente.» E alla sera fui per svenire allorchè lo vidi entrare nella sala collo sconosciuto che mi aveva gettato quei due biglietti.
«Egli lo presentò a mio padre come il conte Lodovico di B..., veneto ed emigrato. Disse averlo conosciuto già da parecchi giorni al gabinetto di lettura; parlò con entusiasmo del suo ingegno, accennò alle persecuzioni politiche che lo avevano costretto ad emigrare, e aggiunse che si sarebbe forse trattenuto più mesi nella nostra città, e ci avrebbe onorato alcuna volta delle sue visite. Come seppi più tardi, egli era stato ragguagliato da mio cugino intorno al mio carattere, alla mia posizione e alla mia fortuna, cosa che per altro non aveva fatto nascere in me alcun sospetto sulla lealtà della sua condotta. Egli era sì spiritoso e sì amabile, che i miei parenti ne furono presto entusiasti; mio cugino ed i suoi amici non potevano più far a meno di lui, e lo sollecitavano a venire in nostra casa tutte le sere. In capo a pochi giorni noi avevamo preso a considerarlo come una persona della nostra famiglia.
«È assai difficile che io possa farti una pittura esatta del suo carattere; mi giovo di questa parola «carattere», perchè è quella che risponde meglio al mio concetto, non già che egli ne avesse uno. Non aveva alcun principio, non aveva alcuna opinione; si piegava subito ai principii e alle opinioni degli altri, qualunque esse fossero; e con tal calore e con tale accortezza, che nessuno lo avrebbe creduto non sincero: passava dall’uno all’altro estremo colla stessa facilità, e colla stessa apparenza di convinzioni. Era cattivo per indole, qualche volta arrendevole e buono per debolezza. Non aveva idea di dignità personale, non si curava che di simularla e di parerne estremamente geloso. Qualunque bassezza non gli sarebbe sembrata umiliante; qualunque ostacolo mortale non lo avrebbe distolto dal compiere un’azione proficua a’ suoi interessi. Era incapace di sentire uno scrupolo. Tutta la sua condotta non era subordinata che ad una cosa sola, al codice; egli aveva commesso di turpe tutto ciò che è possibile commettere senza venir colpiti dalla legge — mille volte nella sua vita aveva rasentato il carcere, e non vi era mai entrato. Dire che cosa era stata la sua vita non è possibile, forse egli stesso non lo avrebbe potuto. Aveva errato di paese in paese, vivendo splendidamente delle sue industrie di avventuriere, assumendo qui un nome, là un altro, atteggiandosi a martire politico, aprendosi mille vie col suo talento, col suo coraggio, colla sua avvedutezza — sempre fortunato, sempre felicemente ingannatore.
«La sua bellezza doveva aver contribuito non poco a questo successo. Egli era alto della persona, ben fatto, giovine, fiorente, biondissimo; aveva aspetto e maniere distinte, aveva aria di bontà e di dolcezza straordinaria, era sempre calmo, sempre sereno e pareva non conoscere che il sorriso. A queste qualità aggiungeva un talento mediocre che aveva l’arte di far apparire un talento superiore. Era intelligente di musica e scriveva versi. Le sue composizioni musicali e le sue poesie erano una specie di salvacondotto, una specie di commendatizia di cui si giovava per accreditarsi presso le famiglie che lo ospitavano, od iniziavano qualche rapporto con lui. Egli non indugiava mai a mettere in luce queste due qualità, e sopratutto in modo sì naturale e sì semplice, che nessuno ne avrebbe mosso rimprovero alla sua modestia.
«Mio caro amico. Oserò darti un consiglio che ti parrà strano, che forse ti farà sorridere, ma che nondimeno è assai giusto. Diffida di coloro che fanno mestiere di far versi, diffida in genere degli artisti e dei letterati mediocri. Durante il tempo che vissi con mio marito ho avuto agio di avvicinarne un gran numero, nè ho trovato in alcuna altra classe della società caratteri d’uomini più tristi e più abbietti. Un mezzo letterato, un mezzo poeta, un mezzo artista mi fanno orrore. Hanno tutte le passioni sfrenate e biasimevoli dei grandi caratteri, senza averne una sola virtù. Ne hanno la vanità, l’orgoglio, l’ambizione, l’egoismo, senza un solo dei loro pregi che li temperi, senza un raggio di quella bontà improvvisa e passeggiera che ha il genio. Molti confondono l’ingegno col cuore; nulla di più erroneo. È provato che gli uomini più eminenti nella vita pubblica furono quasi sempre i più tristi nella vita privata. Cristo lo ha detto: «Il cielo è pei semplici.» L’onestà non fu mai nè il retaggio, nè il privilegio della sapienza.
«Tale era in poche parole l’uomo che divenne mio marito.
«Io mentirei se ti dicessi che lo sposai non amandolo, mentirei pure se asserissi di averlo amato quanto ne era capace. Non lo conosceva quale era, ma aveva come un presentimento delle sue viltà, una specie d’intuizione misteriosa che impediva alla mia anima di abbandonarsi intieramente alla sua. Forse il mio amore mi aveva resa impotente a comprendere alcune delle sue bassezze che la mia coscienza aveva comprese senza che io lo sapessi, e di cui non lasciava trapelare al mio cuore che un’idea vaga e confusa. Io subiva d’altronde, come tutte le altre donne, quella malìa prepotente e incomprensibile che esercitano su di noi gli uomini di carattere violento, e spesso anche perverso. Lo avrai osservato, è cosa comune. Le donne, ancorchè non cessino di essere cortesi coi buoni e coi miti, cedono sempre di preferenza agli uomini audaci, prepotenti, pronti all’offesa, disprezzatori degli altri, vanagloriosi di sè; in una parola, ai peggiori degli uomini. Le più grandi passioni sentite da donne furono quasi sempre per uomini abbiettissimi. Mi è avvenuto più volte di chiedere a me stessa, vedendo qualche donna giovine, gentile, bella, elegante: «A chi apparterrà il suo cuore! chi godrà del suo affetto? Un uomo celebre, un uomo di genio? un bell’uomo? No, un piccolo mostro, uno sciocco, un cattivo». Oh, mio Giorgio, noi siamo pure le tristi e incoerenti creature!
«Non avendo voluto cedere alle istanze de’ miei genitori che lo avevano scongiurato rimanere con essi, mio marito mi condusse a Torino. Ci accasammo in quella città, dove, diceva egli, aveva avuto rapporti con uomini politici, i quali lo avrebbero aiutato a conseguire una posizione elevata ed una fortuna ragguardevole. Mi fu assai facile avvedermi fino da principio che egli non mi amava, tanto erano artificiose le prove che si affannava a darmi del suo affetto. E non solo non mi amava, ma pareva aver disgusto di me, e sforzarsi a violentare il suo cuore e la sua natura per non dimostrarmelo. Lungi dal comprendere lo scopo di questa dissimulazione, io, nell’immensità del mio dolore, gliene era grata. Sapeva di non essere bella, immaginava che l’intimità e la convivenza mi avessero fatta apparire a’ suoi occhi ancora più brutta di quanto lo era, e gli avessero destato nell’animo una subita avversione per me. In questo caso la sua finzione era mossa da un sentimento di delicatezza ch’io non avrei saputo apprezzare abbastanza; era un sacrificio di cui io gli doveva essere riconoscente. Ho serbato lungo tempo questa illusione, e mi sono sforzata a trattenerla, giacchè, quantunque non amata, mi era caro il pensare che lo era stata un tempo, che la mia bruttezza soltanto lo aveva diviso da me, e che io poteva ancora stimarlo. In quel bisogno che io sentiva di giustificare ad ogni costo la sua condotta, quante cose ho attribuito alla mia bruttezza!
«Soltanto un mese dopo il nostro matrimonio egli mi aveva annunziato che il governo austriaco aveva posto sequestro sulle sue rendite, per cui diventava necessario esigere da mio padre la riscossione di una parte della mia dote; e m’aveva parlato di questa sventura come di cosa di cui non avrebbe mai saputo darsi pace. Lieta che ciò l’accostasse di più a me, sollecitai da’ miei parenti il pagamento di una somma che costituiva una parte ragguardevole della loro fortuna. Però questo avvenimento non parve renderlo nè più cauto, nè più previdente, nè tanto meno più affettuoso. Le sue abitudini erano anzi peggiorate. Egli rimaneva assente una parte della notte, e non rientrava che al mattino; spesso passavano giorni intieri senza che ci vedessimo; intraprendeva alcuni brevi viaggi senza avvertirmi, e tornatone, mi diceva semplicemente: «Scusa, ho dovuto partire sul momento, un affare di premura...» In una parola era evidente che egli non si occupava punto di me, nè sentiva forse tampoco quella specie di attaccamento che nasce dalla convivenza e dall’abitudine.
«Aveva però slanci di tenerezza, radi ma vivi; e in quei momenti pareva si dolesse con sè stesso della propria freddezza, e si scusava meco de’ suoi torti. Appariva in ciò sì sincero, che io non solo tornava a perdonarlo e ad amarlo, ma mi struggeva di trovare in me qualche colpa onde giustificarlo delle sue.
«Una sera, in uno di questi momenti di abbandono, mi confessò d’aver fatto una grave perdita al giuoco, non osare chiedere altro denaro a mio padre, trovarsi, non pagando, poco meno che disonorato. Io fui felice di potergli dare tutti i miei gioielli, i miei abiti più ricchi, tutto ciò che possedevo di prezioso, onde sottrarlo alle conseguenze di quella perdita. Me ne pagò con una settimana di amore, di assiduità, di tenerezze, e ritornò poi subito alle abitudini di prima.
«Ma sarebbe racconto assai lungo il voler dire tutte le torture mie e tutta la ingratitudine sua, tutte le astuzie con cui giunse a poco a poco a spogliarmi interamente della mia fortuna.
Un giorno — mi s’era mostrato già da tempo agitatissimo — entrò improvvisamente nella mia camera col volto estremamente turbato; mi disse di non aver mai avuto il coraggio di confidarmelo, ora essere necessario, benchè troppo tardi; aver egli contratto da celibe alcuni debiti ascendenti a somme enormi, più di metà la fortuna della mia casa, aver sperato poterli pagare coi capitali che il sequestro impreveduto rendeva ora inalienabili, e aver perciò firmato cambiali la cui scadenza imminente gli apriva le porte del carcere: preferire uccidersi. E levata una pistola, fece atto di esplodersela al viso.
«Tu avrai già indovinato ciò che io ho fatto. Mio padre e mia madre vennero essi a trovarmi piangendo. Mi chiesero se egli mi amava, io dissi di sì; se ero felice, io dissi ancora di sì: essi acconsentirono a spogliarsi quasi interamente della loro fortuna, perchè io fossi felice e tranquilla con lui. Felice!
«Quel sacrificio che doveva legarlo maggiormente a me, sembrò invece allontanarmelo; e ciò era naturale, giacchè non v’era più possibilità di altre speculazioni a mio riguardo, nè occorreva fingere più oltre. Incominciai allora a comprendere qualche cosa del suo carattere e a tentare di resistere a quel bisogno di affetto ineluttabile che mi trascinava verso di lui; ma era indarno: io non poteva conciliarmi a quella fede, crederlo sì cattivo e sì infinto, non poteva cessare di amarlo. M’era fatta quasi una religione del mio amore, e mi ostinava ad abbassarmivi benchè lo sapessi incorrisposto. Ogni cosa che ci costa molto la si ama, benchè riluttanti; e nell’ostinazione di un dolore o di un sacrificio, vi è un’acre voluttà che è spesso altrettanto soave quanto la gioia.
«Poche settimane dopo questo ultimo avvenimento mi disse che attendeva da Venezia una sua cugina, che me l’avrebbe fatta conoscere, e l’avrebbe pregata di fermarsi a pranzo con noi; le facessi buon viso. All’indomani mi presentò diffatti una donna giovane e avvenentissima, cui volle che baciassi e trattassi con intimità pari alla sua. Non sospettai di nulla, e fui lieta della compagnia di quella sconosciuta che era venuta ad interrompere per un istante la tediosa monotonia della mia vita. Mi parve che quella donna mi ponesse affetto, e provasse un interesse singolare per me. Ricevetti nel giorno seguente un suo biglietto, in cui mi diceva:
«Devo parlarvi di cose che riguardano il vostro avvenire, vi aspetterò in mia casa (via Borgo Nuovo, N. 7). Che vostro marito nol sappia, o tutto sarebbe inutile. Se avete cara la vostra felicità, venite».
«Vi andai col cuore tremante. Appena entrata la mi buttò le braccia al collo, con atto di espansione rozzo ma sincero; e mi disse: «Povera creatura, voi siete rovinata, voi siete stata ingannata, tradita… Non sapete? Quell’uomo, vostro marito, non è nè il conte di B..., nè il marchese di C... — che so io? — Egli si è tosto fatto chiamare con tutti i titoli possibili. — Egli non è altro che un barattiere, un cavaliere d’industria, un cattivo soggetto. Io, che non sono mai stata sua cugina, so dirvi che egli è un fiore di briccone, che ha moglie in Dalmazia e due figli: io ve ne darà la vita e i miracoli. Ho conosciuto suo padre, dalmato anch’esso, impiegato nella polizia austriaca a Zara; ho conosciuta sua moglie, una povera ragazza che egli ha ingannato come voi, e abbandonato come abbandonerà voi pure. Se volete sapere tutte le sue furfanterie, le ho sulle dita. Non vi fidate, lasciatelo, tornate a casa vostra. So che vi ha già estorto delle somme considerevoli; me lo disse lui stesso, fra poco vi spoglierebbe di tutto il resto. Egli passa la sua vita in mezzo alle donne e alle carte; non ha un’oncia di cuore, non crediate di poterlo correggere. Ve lo confesserò, io sono stata una sua amante; l’aveva lasciato già da un pezzo, allorchè la settimana scorsa mi fece un sonetto pel mio giorno onomastico, e con ciò tornò a metter piede in mia casa. Fu lui stesso che mi parlò di voi; e in che modo! Se lo aveste sentito! mi fece nascere la curiosità di conoscervi, e ho tanto insistito, che mi ha accontentata. Povera creatura! mi avete fatto compassione: ho detto tra me stessa: «Le dirò tutto», e vi ho scritto di venire. Tornate a casa vostra, credete a me; quell’uomo vi farà morire; non siete voi quella che possa resistergli; colla vostra salute, col vostro carattere... Io ne ho riso, io non sono donna da lasciarmi malmenare così, ma voi! Ho voluto dirvi tutte queste cose. Ho fatto una buona azione e mi sono vendicata, sono contenta.
«Nel tornare a casa lo trovai che scendeva le scale.
« — D’onde venite? mi chiese egli con asprezza.
« — Da vostra cugina, risposi io; ella mi aveva mandato a chiamare per raccontarmi tutto ciò che sa di voi e per darmi alcuni consigli in proposito.
« — Va bene! diss’egli aggrottando le ciglia, lo aveva preveduto. Che sciocca!
« — Non avete a dir nulla a vostra giustificazione?
« — Nulla. Immagino che ella vi avrà detto la verità. Venite nella mia stanza, e ne parleremo.
« — Voi sapete dunque tutto; diss’egli; non me ne dispiace; quella donna, a pensarci bene, mi ha reso un servizio. Sarò sincero con voi. Mi doleva d’ingannarvi più oltre. Se un uomo che vende la sua bellezza, come la vendete voi tutte, è un cattivo soggetto, io ne sono uno pessimo... Ma ciò non ha a che fare; è questione di apprezzamento. Fra me e voi è corso un contratto. Voi mi avete dato il vostro danaro, io vi ho dato la mia avvenenza, la mia gioventù, il mio talento. (Non voglio mancarvi di rispetto in questo istante, ma voi sapete, Fosca, che non siete bella). Eravamo pari: ebbene, abbiamo vissuto insieme undici mesi, il nostro commercio andava bene. Ora questo contratto non ci conviene più? sciogliamolo. Mi sembra che non occorra disgustarci per questo. Voi tornerete a casa vostra, vostro padre e vostra madre sono due eccellenti creature, e vi riceveranno a braccia aperte. Io tornerò a vagabondare pel mondo e a distrarmi. Già… fu un errore. Non era nato per la vita di famiglia io. Badate che siamo in debito di un semestre di fitto di casa. Ve ne avverto per vostra norma. Io parto sul momento. A rivederci.
«Così mi separai da mio marito. Rimpatriata, trovai la mia famiglia quasi povera. Al rimorso di averne sacrificato il benessere al mio egoismo, si aggiungeva il dolore di scorgere che la salute de’ miei genitori s’era alterata di molto per quei dispiaceri. Erano invecchiati quasi ad un tratto, erano diventati pensierosi, tristi, diffidenti. Quelle due creature sì semplici, sì ingenue, sì affettuose, avevano subito una disillusione troppo grande e troppo inaspettata. Essi non avevano neppure mai immaginato che avesse potuto esistere al mondo un uomo come mio marito; ciò sarebbe stato superiore di gran lunga al concetto più triste che avevano potuto farsi degli uomini, ed era naturale che ne fossero colpiti sì al vivo. Una sola cosa consolava me ed essi di quella sventura. Io stava per diventar madre. Io avrei avuto uno scopo nella mia vita; essi, un affetto nuovo, una nuova divagazione; sentivamo tutti e tre che questo avvenimento ci avrebbe fatto dimenticare il passato di cui lo consideravamo quasi come un compenso.
«Erano trascorsi cinque mesi dal giorno della nostra separazione, allorchè una sera d’inverno, mentre stavamo seduti al caminetto conversando, ecco aprirsi l’uscio improvvisamente, e comparire mio marito. Egli era tutto alterato e in cattivo arnese.
«Io innalzai un grido di spavento. Mio padre gli si avvicinò tremante per emozione e per ira, e gli chiese:
«— Cosa volete?
«— Vengo a riprendere mia moglie, rispose egli, noi non siamo divisi formalmente, ne ho tutto il diritto.
«— Vostra moglie ha cessato di appartenervi da tempo.
«— V’ingannate, la legge mi dà facoltà di obbligarla a seguirmi.
«— Essa non si moverà di qui, uscite.
«— Mi costringete ad usare la violenza? Ciò mi dispiace.
«Mi si avvicinò, e afferratami pel braccio, fece atto di trascinarmi verso la porta. Io resistetti, scivolai, e caddi percuotendo del seno sopra una sedia. Egli mi lasciò libera e mi disse: «Vi siete fatta male? perdonate signora: non era mia intenzione.»
«Mio padre era vecchio ed impotente a difendermi. Eravamo soli in casa.
«— Volete del denaro? gli chiese egli.
«— Non accetto danaro da alcuno, ma ho tuttora alcuni crediti su vostra figlia che mi dovete soddisfare.
«— Passate nella mia camera.
«Nel ritornare si affacciò all’uscio e mi disse: «— Fosca, non vi ho mai voluto male, ve lo giuro, non avrei voluto rendervi infelice, ma era predestinato. Io sono un miserabile. Ora vivete tranquilla, non mi rivedrete mai più.»
«Ed uscì. Mio padre gli aveva dato quasi tutto il denaro che gli rimaneva. La nostra fortuna era pressochè rovinata.
«L’emozione e la caduta affrettarono l’istante che aveva tanto desiderato. Sentiva che stava finalmente per diventar madre. Nel mio stesso dolore io era felice. Questa nuova sciagura aveva affrettato il premio di tutte le mie sofferenze, il conforto e la gioia della mia vita. Ohimè! Io non aveva preveduta la più grande, la più crudele, la più orribile di tutte le sciagure.
«Mio figlio viveva, ma io non poteva diventar madre. La natura mi era stata anche in ciò sì matrigna, che aveva posto ai piaceri del mio amore il prezzo della mia vita. Non solo mi aveva privato della bellezza perchè non provassi mai le gioie di un affetto corrisposto, ma mi aveva reso anche deforme perchè non godessi nemmeno di quelle più pure della maternità, che sole avrebbero potuto salvarmi. Sì, o Giorgio, un figlio mi avrebbe salvata. La solitudine delle mie passioni mi ha invece rovinata, perduta!
«Ma a che prolungarti questo racconto? Io scampai miracolosamente ad una morte quasi sicura. Lasciai il letto dopo un anno di malattia, incadaverita, consunta come mi vedi. Mio padre morì di crepacuore; mia madre, che non era vissuta che per lui, lo seguì poco dopo. Di mio marito non seppi più nulla. Io mi riunii a mio cugino che, per avermi fatto conoscere lui l’autore di tutte le mie sventure, nella sua generosità se ne credeva quasi responsabile. Ed ecco la mia storia.
«Se io potessi dirti ora la vita che ho vissuto in questi quattro anni di isolamento, tu ne saresti atterrito. Fino allora io era stata una fanciulla, aveva conosciuto nulla del mondo; i miei dolori, benchè grandi, erano stati in certo modo compensati da quelle illusioni, che l’inesperienza e la gioventù avevano ancora il potere di crearmi; possedeva ancora il segreto della fatua felicità dei giovani — sapeva sperare; ora tutto era mutato, tutto l’edificio era caduto; io era rimasta sola colle mie passioni, colle mie infermità, colle mie debolezze; con tutte quelle miserie che la natura ha dato alla donna, senza il compenso di una sola delle sue gioie.
«Ti ho detto come l’amore fosse una condizione della mia vita, come questo bisogno fosse esigente e irrefrenabile fino dai primi anni della mia fanciullezza; immagina tu cosa doveva essere allora, cosa è adesso. Io non fui amata più mai, non sperava più di esserlo, poichè ove pure la mia disavvenenza non lo avesse reso impossibile, il mio cuore non era tale da darsi ad un uomo comune. Così tutto era contraddizione in me, tutto era urto ed antitesi: il cuore, la natura, l’isolamento, le infermità mi spingevano all’amore; la bruttezza, l’orgoglio, le esigenze dell’onore, il dovere me ne trattenevano. Mai lotta più lunga e più crudele fu combattuta in un’anima. Ho io finito adesso? ho io vinto? Tu solo puoi rispondermi, o Giorgio, tu solo!».