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esse trovato pace? È ciò che io non ho potuto esperimentare.

«Un giorno mi recai sola a visitare un convento che era poco lungi dalla città, isolato, sopra un colle, come un nido di colombe, quieto, solitario, sereno. Mi sedetti sui gradini della porta. Gli alberi del cortile sorpassavano colle loro cime l’alta muraglia di cinta, e sembravano affacciarsi per mormorarmi un invito ad entrare: da quell’altura si vedeva la campagna tutto all’intorno, e la città simile ad un immenso alveare: sulla porta erano scritte le meste parole della Bibbia, «Sacro all’amore e al dolore»; tutto era pace e silenzio.

«Rimasi colà assai tempo. Nel ritornare l’eco di un salmeggiare improvviso che veniva dalla chiesa parve volermi richiamare.

«Era di sera; il sole tramontava, gli uccelli si raccoglievano sugli alberi… colsi una pratellina, e ne strappai i petali ad uno ad uno: «Sì e no, sì e no», l’ultimo era «sì». Decisi. All’indomani manifestai il mio progetto a mia madre. Ne fu spaventata. Si pose a piangere e mi disse: — Mia cara figliuola, tu ci vuoi far morire; pensare a lasciarci!… noi che non viviamo che per te! Entrare in un convento, alla tua età! una bella fanciulla come sei tu, colla tua dote!

«Che poteva io fare? Non mi amava forse mia madre? Non aveva io il debito di riamarla? Mia madre!

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«Ieri sera non ho potuto né proseguire, né mandarti ciò che aveva scritto. Oggi sono tentata a non continuare. Mi pareva di aver tante cose a raccontarti, e vedo che finisco col raccontarti nulla. Forse che io non ho sofferto? No, egli è che le cause delle mie sofferenze sono tutte intime, sono tutte morali, e tu puoi meglio immaginarle che io dirtele. E poi, come si può dire un dolore? come una gioia?