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mia dote; e m’aveva parlato di questa sventura come di cosa di cui non avrebbe mai saputo darsi pace. Lieta che ciò l’accostasse di più a me, sollecitai da’ miei parenti il pagamento di una somma che costituiva una parte ragguardevole della loro fortuna. Però questo avvenimento non parve renderlo né più cauto, né più previdente, né tanto meno più affettuoso. Le sue abitudini erano anzi peggiorate. Egli rimaneva assente una parte della notte, e non rientrava che al mattino; spesso passavano giorni intieri senza che ci vedessimo; intraprendeva alcuni brevi viaggi senza avvertirmi, e tornatone, mi diceva semplicemente: «Scusa, ho dovuto partire sul momento, un affare di premura…». In una parola era evidente che egli non si occupava punto di me, né sentiva forse tampoco quella specie di attaccamento che nasce dalla convivenza e dall’abitudine.

«Aveva però slanci di tenerezza, radi ma vivi; e in quei momenti pareva si dolesse con se stesso della propria freddezza, e si scusava meco de’ suoi torti. Appariva in ciò sì sincero, che io non solo tornava a perdonarlo e ad amarlo, ma mi struggeva di trovare in me qualche colpa onde giustificarlo delle sue.

«Una sera, in uno di questi momenti di abbandono, mi confessò d’aver fatto una grave perdita al giuoco, non osare chiedere altro denaro a mio padre, trovarsi, non pagando, poco meno che disonorato. Io fui felice di potergli dare tutti i miei gioielli, i miei abiti più ricchi, tutto ciò che possedevo di prezioso, onde sottrarlo alle conseguenze di quella perdita. Me ne pagò con una settimana di amore, di assiduità, di tenerezze, e ritornò poi subito alle abitudini di prima.

«Ma sarebbe racconto assai lungo il voler dire tutte le torture mie e tutta la ingratitudine di lui, tutte le astuzie con cui giunse a poco a poco a spogliarmi interamente della mia fortuna.