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«L’attaccamento che sentiva per le mie compagne, per i fanciulli, per le persone di casa, mi era spesso motivo di grandi tormenti. Esigeva dal loro affetto più di quello che era possibile concedermi; quindi quelle contrarietà me le facevano credere indifferenti, apate, ingrate; ne soffrivo come soffrirei ora d’un vero abbandono e d’una vera ingratitudine. Una mia nutrice che io amava assai dovette allogarsi in mia casa, e rimanervi fino a che io non ebbi toccato i dodici anni, giacché mi era ammalata ad ogni tentativo che si era fatto di separarmene.

«A quell’età fui posta in collegio, e mi vi innamorai di una mia compagna. Fu una passione vera, ostinata, tenace, quale non poteva sentirla che io. Quella fanciulla, che ora è donna maritata, non comprendeva nulla della profondità e dell’indole di quell’affetto; e quantunque mi riamasse, lo faceva sì freddamente che io ne era desolata. Era — benché buona — una ragazza vacua e leggera come le altre; era bellissima, e fu forse la sua beltà che mi trasse inconsciamente ad amarla. Mi ricordo, che mi alzava di notte per andarla a vedere mentre dormiva, e passava molte ore vicino al suo letto, coi piedi nudi, colla sola camicia, tutta tremante di freddo. Le rubava i suoi nastri e le sue pezzuole pel solo motivo che erano sue, la scongiurava colle lacrime a dirmi che mi voleva bene, a lasciarsi baciare. Ma ella era spesso senza pietà. Non solo quella delusione non mi guarì della mia malattia, ma mi fu anzi fatale, perché mi fece comprendere che avrei trovato difficilmente in altri cuori quell’affetto ardente e senza limiti che sentivo nel mio.

«Fui levata di collegio dopo pochi mesi, e non aveva ancora quattordici anni che fui presa d’amore per un uomo di quaranta, un giudice di mandamento, un amico di mio padre che veniva in nostra casa tutte le sere.