Firenze sotterranea/Capitolo V
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V
Torniamo al grano.
Que’ miseri vivono di un’altra cosa.
Ci sono in una parte separata del quartiere molti egregi trippai. Costoro vendono loro per un soldo, a catinelle, la brodiglia in cui fanno sobbollire le trippe: in tal brodiglia gettano cavoli, o grosse schioppe di pane, e s’impippiano di quel pastume... Se non hanno il soldo, nè i due soldi, il trippaio, uomo di cuore, dà loro gratis il beverone, pur di cavarseli dattorno.
Vi sono bettole lotulente in cui si radunano. Gli osti fanno loro piccoli crediti, sicuri di ristorarsi abbondevolmente al primo furto che commettono. In tali bettole a ore insolite la Polizia fa le sue discese: piomba talvolta improvvisa come il fulmine: dieci, dodici agenti accerchiano da ogni banda un casolare.
Senza tali precauzioni, i ladruncoli, che vanno ajoni sull’imboccatura delle cupe straduzze e stanno alle vedette, ravvisata la Polizia, avvertono gli amici adunati con un fischio, e via per gli orti, dove hanno fatto buche ne’ muri e tengono, come sa il lettore, approntate le scale, e da lunga mano tutto è preparato per scappare.
Alle volte un ladro scavalla la vetta di un muro, che hanno a bella posta scapezzato, dimozzicato, e casca nelle braccia affettuose di una guardia robusta, che lo stringe in modo da farlo guaire.
Ma non li pigliano, se non circondano in dieci o quindici un buono spazio, se non son in forze e da tener fronte alle resistenze di molti.
Ma l’igiene?
Oh, eccovi un tratto davvero singolare!
I ladri, in generale, stanno benissimo: sono abbastanza sani (notizia per noi consolante): alcuni floridi (per nostra maggior allegrezza). E sapete perchè? Perchè sono stati, e stanno molto in prigione: cioè in una stanza pulita, ben arieggiata, con nutrimento regolare, sicuro e sano.
A casa sua il ladro sta peggio di una fiera, ma in prigione dev’esser bene alloggiato, nutrito meglio che a casa sua: dovere di ospitalità! Che ne accade? Quando vogliono un po’ di riposo, o rimettersi in salute, cercano la prigione per medicina!
Le donne, mogli, figliuole, sorelle, o amanze di ladri, sono tutte malate: hanno la scrofola, hanno tutte gli occhi rossi e scerpellati, o sono anemiche, o coperte di fastidii, che dànno loro orribili malattie della pelle.
È incredibile il modo in cui vivono. I loro uomini le lasciano spesso: chi le campa e di che campano nell’intervallo? È cosa che strappa le lacrime. Ho visitato una notte il pianterreno di una casipola, dove appunto abitano donne vedove dei loro cari. Bussiamo ad un uscietto: dopo un vivo scambio di parole, ci apre una vecchia megera. Il marito, il cognato sono in prigione. Facciamo altri passi per la putrida bolgia. Pingiamo un altro uscietto, che potrebbe essere aperto di fuori, perchè vi è il saliscendi: l’uscietto resiste; la gente si è barricata di dentro.
Perchè?
Vi spiego il mistero.
Entriamo in una vera spelonca, il pavimento è sterrato, le mura screpacchiate, nere, ammucidite, il solaio lordo, ineguale. Non una scranna, non un mobile, salvo una tavola... Biancherie sporche, panni quasi purulenti gettati per terra. In fondo un pagliericcio dove dormono una vecchia arrangolata e furibonda, una giovine di fattezze delicate e quasi gentili, un bambino gracile, di forme esili, e molto carino. Vedendo i nostri lumi sfavillare nella spelonca, il piccino si mette a ridere, a cuoprirsi gli occhi, a far altri giuochetti.
Povere creature, straziano il cuore! Da per tutto, negli orrendi raddotti, nelle tane, ne’ covili che ho visitato, è, accanto alla sozza e bieca immagine del delitto, questa sorridente immagine dell’innocenza. Dormono abbracciati al collo delle vili baldracche: alcuni di sei o sette anni, abbracciati a ignobili vecchi, che addirizzano i bimbi alla mendicità, a tutte le turpitudini. Poveri bimbi, che dormono, si svegliano fra otto, dieci ribaldi, e vedono, ascoltano gli atti e le parole più infami!... E noi, noi che facciamo per loro? Ma l’uomo è contento di sè, butta dalla bocca fumo e teorie umanitarie, e ciò gli basta a proclamarsi il re della creazione!
Esaminiamo dunque la famiglia, che è in questa spelonca. La vecchia ha un figliuolo assente: giorni sono fu condannato a due anni di prigione. La giovane è una figliuola di ladri e amante del ladro ora carcerato. E il bambino?... Stanno nello stesso giaciglio, madre, figliuolo, druda e il fanciullo. Ma la spelonca mette in un’altra. E sapete che cosa vi troviamo? stese sui soliti immondi pagliericci, sei donne: sei donne, precipitate nel fondo di ogni miseria, sole, senza difesa in quel quartiere di ladri: imparentate, o vincolate con molti di essi e i cui amici, i cui sostenitori sono ora nelle carceri.
E le donne delle due spelonche sono tutte, vecchie e giovani, malate degli occhi, o affette di scrofola.
Bella e provvida cosa tener ritto in Firenze un quartiere, in condizioni di pestilenza e di contagio: tale che diffonde le sue malattie a’ più vicini, e guasta tante povere e buone famiglie, che abitano le prossime strade.
Otto donne in due spelonche! ecco perchè il saliscendi non apriva e l’uscio non cedeva. Si erano barricate per paura che un ladro, o più scagnozzi, nella notte venissero in quel tugurio a.... disturbarle.
In Malborghetto ho trovato una famiglia, composta di sette persone, e tutt’e sette, uomini, donne, fanciulli, dormono in un letto solo: e il letto è posato sulla bodola di una sentina. Il puzzo fa spiritare.
Son tutti mezzi ciechi: hanno la pelle spungosa, scagliata come i rettili e le testuggini. In certi stabbiòli, con le mura smattonate, con scale, come sono generalmente tutte le scale di quegli abituri, non solo orride e nere per sozzure d’ogni maniera, ma tutte sbrecciate, sbezzicate, sono quattro o cinque donne, citrulle, inebetite, a forza di star lì nel tanfo e tra l’infezione; alcune con bambini pendenti al seno flaccido e asciutto, e che paiono aborti di batracei.
Vi sono famiglie che dormono sotto le fogne, in sotterranei, in cantine: se la notte scroscia l’acqua di repente, e essi nel giorno non hanno riparato, alzando le bodole nel cortile che sovrasta la camera, l’onda dilaga ne’ giacigli, si svegliano bagnati sin all’ossa, circondati dall’acqua.
È, per Dio, un obbrobrio; è ignominioso che debban vivere così tante creature umane!
Ecco ove dovrebbe esercitarsi la vera carità:
non già quella che si strombazza fin nelle quarte pagine dei giornali come la Revalenta.
Si piange a veder tale strazio, è impossibile rattenere le più amare riflessioni sugli egoismi beati di certe classi, sulla profonda e non cristiana disuguaglianza, che v’è tuttora fra gli uomini!
E pure il cuore umano palpita anche in quelle baracche, e vi brilla il lume divino dell’intelligenza... Vi si svolgono drammi appassionati.
Anche lì si combatte per l’esistenza: e che terribile guerra!
Ma eccomi a descrivere i tipi di quel popolazzo.
Ne’ dintorni di Firenze andò il grido, or è qualche anno, di un ragazzo miracoloso. Egli cominciò benché in assai tenera età, a predicare, a parlare di religione: i villani lo stavano a sentire per trasecolati. Tanto si alzò la fama, che l’Arcivescovo di Firenze si sarebbe quasi indotto ad andar a incoronare una certa immagine della Madonna, appesa nella camera del portentoso fanciullo.
C’era però chi buccinava esser egli tutt’altro che farina da far ostie: anzi non pochi lo aveano per un vero briccone, e non cincischiavano nel dirlo.
Un giorno fu sorpreso a rubare limoni, e arrestato. La santimonia sparì; cominciò la sua carriera di ladro. Mutò nome, paesi, venture.
Per una strada di Firenze una sera si ode il grido: al ladro! piglialo, al ladro! Un agente de’ più robusti si slancia, e poco dopo acciuffa un giovinastro: ma appena l’ha portato in Questura, è squadrato, riconosciuto da un altro agente.
— Lo conosci?
— Sicuro... È il Santo! —
Tuttochè ladro, stava sempre in sul santo. Andava pulito, azzimato, si dava aria di pietoso: composto negli sguardi, nelle maniere.
Era proprio lui! Adescando una serva, facendole lo spasimante, questa gli apriva la porta di casa, ed egli, accorto, avea spogliato la serva di ciò che possedeva di più prezioso (pare) e il padrone d’un certo numero di cucchiai d’argento.
A propiziarsi, egli credeva, la Polizia, si mise a ridire tutto quel che sapeva: vuotò il sacco pe’ pellicini. Per un pezzo avea sbarcato la vita tra i compari, di cui vi ho parlato, nelle straduzze dove stanno accovati. Raccontò di un sotterraneo dove andavano a nasconder la roba involata e dove si acquattavano i latitanti. Era una gran casaccia, che tuttora sta in piedi per miracolo... di statica.
La Polizia vi accorse insieme col mariuolo. Furon chieste le chiavi del sotterraneo, ma nessuno le avea. Tra quella gente, d’ordinario nessuno ha mai chiavi; nessuno ha mai veduto nulla, o sa nulla.
Fu allora chiamato un magnano: fu aperto l’usciale, che metteva nel sotterraneo. Gli agenti passarono sotto orride vòlte: mandavano il ladro avanti perchè facesse strada. Trovarono una stanzaccia, poi un’altra. — Lì, — diceva il ladro — era il nascondiglio della roba! — Vider la bodola di una sentina, l’aprirono, si avvicinarono col lume in mano... Furono storditi da un grande scoppio e il lume si spense... Vi lascio pensare il pànico, il terrore di que’ poliziotti, che credettero esser caduti in un tranello. Ma uno di essi, così al buio, avea afferrato il ladro e lo teneva stretto; costui, per paura che lo buttassero nella sentina, urlava con quanta ne avea nelle canne.
Intanto, udito lo scoppio, dal vicinato la gente in calca traeva al rumore. Lo scoppio era avvenuto, perchè il lume, accostato imprudentemente, infiammava il gas idrogeno fosforato, che emanava la sentina.
Presto tutto fu rimesso in ordine, fu portato un altro lume: si trovarono sotto la bodola arnesi, chiavi false, mucchi di paglia per certi cantucci del sotterraneo, oggetti furtivi: le tracce, le prove più sicure di un ricettacolo, di un rifugio di pecore. (Con tal nomignolo i ladri si qualificano tra di loro nel proprio gergo).
Eccovi altre curiosità del remoto, grottesco, ghiribizzoso, malfamato quartiere.
Vedete quella casipola senza affissi, senza intonaco, con i solai sterrati, trappola insalubre, in cui sono oggi accatastate diciotto famiglie? Fu abitata un tempo da un personaggio autorevole, celebratissimo tra la gente miseranda: il sottoboia di Firenze, morto non sono molti anni.
Il sottoboia, che la mitezza del Governo granducale risparmiò sempre dall’adempiere il suo lugubre ufficio, era un tal M.... Da giovane, per distrazione, avea commesso un omicidio e trascorso varii anni in galera. Poi non essendo uomo pessimo, ottenne il poco ambito impiego. Diventato cieco, si fece il consultore legale di tutta quella genìa dalla mano svelta: si stringevano spesso a consiglio con lui, ed egli esercitava quasi autorità di un capo di tribù. Spronava, ammoniva, rampognava: generoso, soccorrevole, largiva aiuti nei momenti difficili, e quella strana popolazione presso che noi venerava!
Un altr’uomo, ben diverso, ebbe supremazia, una specie di culto fra la razzumaglia delle viuzze, formanti un quartiere ben diverso dal così detto San Frediano, con costumi e pratiche sfortunatamente ben disformi da quelle che vigono nelle strade più vicine alla Porta, designate in generale col nome di Camaldoli, ove la popolazione è buona.
Quest’uomo era un frate del Carmine, di nome padre Ambrogino, grave d’anni, cadente, di mente labile. Lo avevano in rispetto per la vita santa, per atti pietosi, e forse più perchè dava loro i numeri del lotto in questo modo. Usciva dal convento: gli si accalcavano intorno, gli facevano ressa con mille domande. Egli rispondeva parole a vuoto e sconnesse; per esempio: Fede, Speranza, Salute! — Andavano frugando nel Libro de’ Sogni a tali motti: ne cavavano i numeri rispondenti: e fra tanti, alcuni avevano vinto. Figurarsi i delirii!
Nella casa detta del sottoboia alloggiano di notte pregiudicati, reduci dal domicilio coatto: e vi stanno pur da anni uomini, che sono vecchi tipi di scaltrezza e di originali bizzarrie.
Eccovi il T... Non lo nomino, neppur col suo efficace soprannome. La sua vita è avventurosa. Fece il modello, il servitore nei lupanari, il portalettere segreto: in certi periodi non si sa cosa abbia fatto. Ottenne, tempo addietro, una patente dal Comune per vender le arance, e mise il ritratto suo a insegna del barroccino. Le donnaccole baciavano quel ritratto, credendolo l’immagine di Sant’Antonio. Egli le confortava in tale credenza, le lasciava accostare, baciare e si divertiva!
Tra i venditori girovaghi ci sono molti di questi pregiudicati. Con trenta, quaranta centesimi, due, tre franchi, comprano tattere, masserizie da empire una scatoletta, o un baroccino.
Il venditore ambulante, la sonnambula vanno qua e là, alle fiere, ne’ paesetti e pe’ villaggi, riescono ottimi procaccini, nel trasmetter l’ambasciate ai ladri e manutengoli, da un punto all’altro.
Nello stesso tugurio è G... vecchio quasi ottuagenario. Egli, in tempi lontani, faceva il postino, a piedi, tra Firenze e Pontassieve, andando sempre di corsa ne’ giorni in cui portava le estrazioni del lotto. Una notte fu fermato da rompicolli, che lo invitarono a recarsi in una chiesa per spogliare in una tomba il cadavere di un signore, sepolto di recente. Costretto da minacce, entrò nella tomba, spogliò il cadavere, ma sentì che i malfattori si proponevano, avuti gli abiti e ornamenti del defunto, di seppellir lui nell’avello perchè non potesse tradirli. Egli, destro, fece atto di voler uscire. Sorse fra loro una mischia, soccombette e fu rigettato nella tomba, che restò chiusa.
Di lì a poco sentì gente: smuovevano la lapide: l’aprirono, un arfasatto si cala nella tomba, e domanda subito agli altri una presa di tabacco, a causa del fetore. Ma colui, che già stava in forse della propria vita, e non capiva nella pelle pel nuovo fatto, balzò di repente in piedi e chiese anch’egli una presa di tabacco a gran voce.
Còlti da spavento, da raccapriccio, i quattro ladri se la svignarono ed egli potè salvarsi.
Fra i tre o quattrocento ladri, manutengoli, pregiudicati, reduci dal domicilio coatto, è per quelle catapecchie, sebbene un po’ appartata, una gente incapace di far male, d’indole non trista, derelitta quanto si può essere. Costoro hanno schifo della turpe genìa che li circonda: molti tollerano, per sgomento, sì iniquo contatto.
Poveri, bravi popolani, vi parlano con ribrezzo, con sdegno della promiscuità cui sono condannati. Un vecchio spazzaturaio, povero e onestissimo uomo, mi diceva tremando di dispetto: — Io ho abitato laggiù alcuni anni, ma creda, mi ammazzerei piuttosto che tornarci. Creda,... ci sono tanti ladri, qualche centinaio di vagabondi, che tutti vivon di furto, di prepotenze: robaccia! robaccia! —
Lungo le mura di San Rocco (ben inteso entro la città) avete uno spettacolo de’ più singolari. Vi credereste a mille miglia da Firenze! — Laggiù si raccoglie la tribù degli spazzaturai girovaghi, non pochi dei quali hanno già esercitato mestieri ancor meno puliti, e sono in pratica alla Polizia. Le loro casipole poco differiscono da quelle de’ ladri, de’ pregiudicati: sono, se è possibile, anche più sudicie: ma vi è una certa suppellettile. Vedete qua e là boccette rotte, statuette mutilate, anforette screpolate, spezzate, trovate nelle spazzature, e serbate, messe in mostra come ornamenti. Ci sono bicchieri, ma incrinati, sbreccati: ci sono seggiole, ma senza una o due gambe, e con gl’impagliati sfondolati: ci è un po’ di tutto quello che è in casa vostra, gentil signore: ma ci è nella condizione in cui i più poveri non ne vorrebbero. Quando un oggetto è logoro, frusto, manomesso, quando è sì lordo, sì concio, sì guasto, che tutti lo gettano via, sia legno, vetro, porcellana, stoffa, è raccolto dagli spazzaturai, e esce dai corbelli per tornare a nuova gloria: ciò che per voi è immondezza diventa un mobile, anzi un ninnolo!... Il cappello, che il signore getta, che il servitore raccoglie, che egli getta di nuovo ad un più povero di lui, e che alla fine lo butta chi sa dove, crasso, unto, quasi purulento, è raccattato, è sempre buono per altre teste!
Così accade di tutto, e le casette degli spazzaturai dove è ammucchiato ogni ben di Dio, diciamo così, dove tutto arriva sgualcito, scolorito, inzavardato, sformato, vi appaiono come veri cimiteri, larghe fosse comuni dove scorgete, non ancora sepolti, tanti piccoli cadaveri.
Questo cencio fu il vestito di una bella, di una elegantissima; forse lo straccio che voi vedete è stato baciato con fervore, o ha avviluppato le forme più divine... questo pezzo di carta immonda è la pagina di un poeta, di un pensatore, è il biglietto di un innamorato, vi scorse una mano febbrile, vi si posarono occhi pieni d’angoscia. I fiori portati in un bel seno, offerti con ansia, ricevuti trepidando, sono qui una materia fetida; il vestito qui è un brandello: l’opera d’arte, d’industria è qui tritume e frammento. Sono morti, per i quali non suonerà mai l’ora della resurrezione: è ciò che resta di molte vanità: fango ed ombra: la vita, secondo il filosofo!
Qui, entro la città, si tengono in deposito le ossa, i cenci, le immondezze, raccolte nella giornata; vi si accumulano per settimane: la sera, come voi vi divertite a giuocare al picchetto, all’oca, o alla tombola, gli spazzaturai si mettono a fare, riposandosi dal lavoro, la così detta cerna: metton da una parte le ossa, dall’altra i cenci, i fogli, ecc. Quel raspare tra le immondezze solleva un orribile fetore, che ammorba viepiù i tugurii delle straduzze descritte. E notate, che gli spazzaturai dormono con le loro famiglie su i mondezzai, su monti di fimo.
Così la mortalità cresce in modo spaventoso in quel triste e insalubre quartiere di Firenze, e l’infezione auguriamo non si propaghi.
Ma chi crederebbe tali cose in una città civile?
Da dodici anni il Municipio divisava aprire un cantiere in luogo appartato, affinchè gli spazzaturai potessero portarvi le immondezze e farvi la cerna; però una cosa di tanto utile non fu mai compiuta.
Se ne censurassimo il Municipio, ci direbbe che siamo ingrati!... Ci risponderebbe che, sotto qualunque Municipio, e si eregga pure il cantiere, si vedranno sempre in Firenze delle porcherie. E forse è vero. Io credo al Municipio come voi potete credere alla Sapienza delle Nazioni!
Tra gli spazzaturai, che laggiù non hanno altro letto che il letame, è famoso un tal Bic... È l’ubriaco più coscienzioso che abbia Firenze: non si vuole ubriacare, se non dopo aver fatto tutto ciò che deve far un ubriaco che si rispetta: per guarirlo gli gettano secchi d’acqua sul corpo. Teoria delle compensazioni! L’acqua fresca, all’esterno, compensa l’acquavite che scotta dentro.
Tale, sebben doloroso a dirsi e può aver aspetto d’incredibile, è il più disgraziato quartiere di Firenze: tale è il modo in cui vi sono contemperati il delittuoso, l’immorale, l’immondo: tale è l’abbandono in cui vi sono lasciate le anime e i corpi. E nessuno si scuote!
Almeno si affermerà che nell’anno di Convenzioni e di Cholera 1884, un umile scrittore mise i suoi concittadini in sull’avviso.
E ora entriamo nel Ghetto... Per me si va tra la perduta gente!