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132 | eugenio anieghin |
Lenschi non tornisce madrigali per l’album della sua diletta. Il suo stile non sfavilla di sottili concetti, ma solo spira amore. Nota quanto di bello ode e mira in Olga, e l’elegia scaturisce limpida, serena, improntata di verità. Così, o Sascoff, canti le smanie del tuo cuore, e le attrattive di una incognita diva, e un giorno, il ciclo dei tuoi carmi ti offrirà un diario compiuto degli eventi di tua vita.
Ma zitto! Che è stato? Un aristarco arcigno ci ordina di buttare nella fogna la ghirlanduccia dell’elegia, e grida a’ nostri fratelli in Apollo: — Cessate omai l’eterno piagnisteo. Cessate di gracchiar sul tempo che passò. Addatevi a qualche altro esercizio! — Bravo! E ci additi una tromba, una maschera, un pugnale, e ci esorti a risuscitare le idee morte da due mila anni. Non è questo che brami? — Oibò! — Che dunque? — Sciorinate odi, odi pindari che come quelle dei nostri antichi. — Capisco; odi solenni trionfali! Rimembra ciò che dice il satirista: lirico esimio, preferiresti forse una dottrina straniera a quella dei nostri scoraggiti rimatori? — L’elegia non ha nulla di buono. Il suo scopo è miserabile. L’ode al contrario ha uno scopo nobile e sublime. ― Qui potremmo attaccar lite, ma io me ne sto zitto: non voglio armar due secoli l’un contro l’altro.
Forse l’estro poetico di Vladimiro, secondato dall’entusiasmo, avrebbe partorito una ode. Ma Olga non l’avrebbe letta. È mai accaduto a un poeta elegiaco di declamare i suoi versi alla sua Fillide? Dicesi che l’uomo non possa provar gioia maggiore di quella. Beato, infatto, colui che confida i suoi canti alla