Eugenio Anieghin/Capitolo Quinto
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CAPITOLO QUINTO.
Tolga il cielo, o mia Svetlana, che tu conosca
quelle orrende novità.
givcovschi.
In quell’anno l’autunno fu lungo. La natura sospirava l’arrivo dell’inverno. Finalmente nevicò nella notte del terzo giorno di gennaro. Taziana si destò di buon mattino e scorse per i vetri della finestra i muri, i tetti, l’atrio, coperto d’un mantello bianco. I cristalli si rabescano di filigrana, agli alberi pendon fiocchi d’argento; un tappeto scintillante e morbido copre le montagne; e le gazze saltellano e ciaramellano nel cortile.
Il villano trionfante sale sulla sua ampia slitta; il suo ronzino trotta veloce su quel terreno soffice e sicuro,1 la chibitca2 vola e lascia appena dietro a sè un’orma fuggitiva; il postiglione siede a cassetta con una casacca irsuta in dosso e una cintola rossa alla vita. Un garzoncello per diporto colloca un cane nero nel suo carretto, e vi s’attacca a modo di cavallo; ma mentre così scherza gli si gelano le dita; gli dolgono e ne ride: frattanto sua madre lo garrisce dalla finestra.
Ma forse simili ragguagli non hanno nessuna attrattiva per voi; tutte queste circostanze vi sembrano triviali e poco degne della musa. Un altro poeta, ricco dei tesori del Pindo, ci dipinse in stile superbo la caduta della prima neve e ci narrò i vari divertimenti delle rea stagione.3 Vi incanterà, ne son convinto, quella sua festosa descrizione d’una misteriosa passeggiata in slitta. Frattanto io non voglio entrare in lizza con lui nè con te, o encomiatore della giovine Finlandese.4
Taziana, da vera Russa, amava, non so come, l’inverno settentrionale, la brina lampeggiante al sole, le slitte, il roseo riverbero della neve sotto il crepuscolo vespertino e le nebbie opache dell’Epifania. I nostri avi celebravano questa festa nella propria casa. Le serve predicean l’avvenire alle giovani padrone e ogni anno promettevano loro un militare per sposo e un viaggio.
Taziana credeva alle antiche tradizioni popolari, ai sogni, alla cartomanzia e ai segni della luna. L’apparenza di questo astro le pronosticava non so che di particolare che le faceva gonfiare il petto. Se uno smorfioso gatto sdraiato sulla stufa borbottando si lisciava il muso colla zampa, Taziana ne augurava che dovevan venir visite. Se vedeva il disco bicorne di Diana volto a ponente, tremava e impallidiva. Quando una stella cadente fendeva l’aere notturno, Taziana impaurita s’affrettava di palesarle gl’intimi voti del suo cuore. Se a caso incontrava per via un frate nero o se una lepre snella attraversava il prato innanzi a lei, Taziana colta da un subito timore si fermava inorridita e non sapea che farsi. Ma in quello sbigottimento stesso trovava una secreta voluttà. Così ci fabbricò natura amante dei contrasti e degli estremi.
Ecco le ferie di Natale. Oh che gusto! Ognuno s’affanna a indovinare ciò che avverrà nell’anno novello. Fanno oroscopi i giovani spensierati che non si inquietano di niente, e davanti ai quali la vita si estende vasta, ridente come un ciel sereno. Leggono nel futuro cogli occhiali i vecchi che han perduto tutto senza scampo e che già toccano alla fossa. — Poco importa — la speranza tuttora li alletta colle stesse lusinghe di altre volte.
Taziana spia con occhio attento il cero che si attuffa nell’onda, e il cui aspetto tondo e liscio annunzia qualche caso strano.5 Diversi anelli escono in fila da un bacino pieno d’acqua e uno di essi salta fuori al suon di questo canto antico: «Si, tutti i contadini sono ricchi: scavano argento colla marra. Sia felice e illustre colui per chi cantiamo.»
Ma il suono, lugubre di questa frottola minaccia qualche danno. La fanciulla vorrebbe piuttosto sentire un altro ritornello. Taziana, per consiglio della balia, volle esorcizzare di notte.
L’aria è fredda; il cielo è chiaro. Il coro degli astri gravita nell’etere con tanto accordo e tanta quiete.... Taziana scende nel cortile in veste scoperta e presenta uno specchio ai raggi della luna.... Ma nessuna altra forma che quella s’imprime nel lucido miraglio.... Zitti!... la neve scricchiola.... passa uno.... la fanciulla gli corre dietro sulla punta dei piedi e plasmando la voce in suon più dolce di quella della zampogna, gli domanda il suo nome. Egli la guarda in faccia e risponde: “Agatone.”6
Un’altra volta ordinò che si mettessero due posate sulla tavola della sala da bagno. In un subito si sente presa d’un brivido; e io.... anch’io raccapriccio all’idea di Svetlana.... ma noi non farem sortilegi colla nostra fanciulla. Sfibbia la scarpa di seta, si spoglia, appiatta uno specchietto sotto il capezzale e salta in letto. Morfeo intanto svolazza silenzioso in torno a lei. Tutto tace, Taziana dorme.
Ma dormendo fa un sogno strano. Le pare di camminare sopra un campicello cosperso di neve e offuscato dalla nebbia. Un torrente non incatenato dall’inverno, balza davanti a lei, spuma, gorgoglia oscuro e grigio e s’arrovella fra mille massi di ghiaccio. Due pertiche appiccicate insieme dal gelo, formano, da una ripa all’altra, un ponticello tremolo e periglioso. Taziana giunta all’orlo del baratro mugghiante si ferma come priva di senno.
Si lagna del ruscello che le taglia il cammino, e guarda intorno; ma non vede nessuno che le porga la mano per aiutarla a tragittare. Tutto a un tratto, i massi di ghiaccio crollano; che mai n’esce? Un colossale orso. — Ahi! grida Taziana. — Ma l’orso si mette a grugnire e offre alla fanciulla la sua zampa irta d’acuti artigli. Essa vi si appoggia con tremore e varca il torrente a passi titubanti. Giunge all’altra sponda — ma che? L’orso la segue. Essa si affretta nè ardisce volger indietro gli occhi; ma non può sottrarsi alla assiduità di quel turpe lacchè. Arrivano a una selva. Gli abeti stanno immobili nella loro accigliata maestà; i loro rami curvansi sotto il peso della neve; il raggio delle lampade celesti penetra scintillante nella chioma dei pioppi, delle betulle e dei tigli nudi; cessa ogni indizio di strada la neve ingombra tutto e i cespugli e i burroni. Pur Taziana avanza sempre, sprofonda nella neve sino alle ginocchia. Un lungo ramoscello le si avvinghia al collo e le strappa gli orecchini d’oro. Essa perde ora una scarpa ora il fazzoletto e non osa raccoglierli, e si vergogna persino di sollevare il lembo della gonna. Piange; ode grugnir l’animale che la incalza; corre; egli corre pure. Ansante, priva di forze e di fiato, Taziana cade; l’orso destramente la rialza e se la pone indosso. Essa non resiste, non si muove, non respira. Egli la porta a traverso il bosco. Approdano a un miserabile tugurio mezzo seppellito fra la neve. Tutto tace intorno ma dentro la capanna rimbomba un suon di voci e di stromenti. — “Qui sta il mio compare,” grida l’orso; “entra e riscaldati un poco da lui.” E così dicendo s’inoltra nel vestibolo e depone Taziana sulla soglia.
La fanciulla torna in sè e ode un gran tintinnio di bicchieri come a un convito di funerali. Non comprendendo niente a ciò che succede, s’avvicina pian piano e per un fesso della parete, vede.... Vede tanti mostri seduti a mensa: uno ha muso canino e corna bovine; l’altro ha una testa di gallo; quà una strega con barba di becco, là uno scheletro attillato e altero; più in là un nano con una coda esile, e mezzo gru, mezzo gatto.
Ma quel che più la meraviglia è vedere un gambero a cavallo sopra una aragna; una oca con un teschio coperto d’una berretta rossa; un molino che sgambetta e dibatte l’ali e si fa vento. Dappertutto latrati, risate, canti, fischi, picchiar di mani, strida d’uomini, calpestio di cavalli.
Ma come stupì ancor più la nostra Taziana, allorchè in mezzo a quelle bestie orrende, scorse....... chi mai?... Colui che le è sì caro e sì tremendo; il protagonista di questa istoria, Anieghin! Sta seduto a quella tavola e di quando in quando getta una occhiata verso l’uscio. Fa un gesto: tutti si rannicchiano; beve: tutti tracannano e urlano; sogghigna: tutti si sganasciano dalle risa; aggrotta le ciglia: tutti tacciono; egli è il padron di casa, di ciò non v’ha più dubbio. Taziana comincia ad aver meno paura; e con curiosità, si prova a tirar chetamente la porta.... ma in quel punto il vento soffia; i lumi si smorzano, la masnada infernale si rizza in iscompiglio; Anieghin cogli occhi sfolgoranti s’alza precipitosamente; tutti fanno lo stesso, ed egli sta per escire. Taziana spaventata vuol fuggire, ma le mancan le gambe; impaziente vuol chiamare, ma le manca la voce. Eugenio spinge la porta. Alla vista della fanciulla tutti i demoni e tutti i mostri cacciano un evviva frenetico e atroce; tutti l’ammiccano, la sollecitano cogli occhi, colle unghie, colle proboscidi, colle code, colle zanne, coi mostacci, colle lingue sanguinolenti, colle corna, colle branche adunche: tutti ruggiscono: “È mia, è mia!”
“È mia!” esclama Eugenio minaccioso; e tosto tutta la frotta maledetta sparve. La cara verginella rimase nelle fredde tenebre, sola col suo amico. Questi la conduce lentamente in un cantuccio, la pone sopra uno sgabello zoppicante e adagia il capo sulla di lei spalla. Ma ecco sopravviene Olga; Lenschi le tien dietro. Splendono i lumi. Anieghin vibra il braccio; butta fuoco per gli occhi e insulta gli importuni visitatori. Taziana sviene. L’alterco si fa sempre più aspro. Eugenio impugna uno stiletto e atterra Lenschi; una oscurità fitta regna intorno; un urlo disperato vola al cielo; la capanna barcolla.... Taziana si risveglia tramortita.... guarda; fa chiaro nella sua stanza. I purpurei strali dell’alba si rifrangono nelle brine dell’invetriata; s’apre l’uscio. Olga entra più vermiglia dell’aurora nordica e più leggera di una rondinella. “Dimmi, sorella, che cosa hai veduto in sogno?”
Taziana tuttora in letto non bada alle parole d’Olga. Scorre l’una dopo l’altra le pagine d’un libro e non fa motto. Questo libro non racchiudeva nè graziose finzioni poetiche, nè savi consigli filosofici, nè imagini. — Non era un volume di Virgilio, o di Racine, o di Walter-Scott, o di Byron, o di Seneca; non era un fascicolo del Journal des modes sì caro alle signore. Era l’interprete dei sogni di Martino Zadeca, il primo dei maghi, il re degli indovini. Questa sublime opera, un mercante ambulante la portò nel villaggio e la vendè a Taziana per tre rubli e mezzo con di giunta una Malvina scompagnata, una raccolta di favole popolari, una grammatica, due Petreidi7 e un terzo volume di Marmontel. Martino Zadeca divenne in breve il libro prediletto di Taziana. Egli la consola in ogni sua afflizione, e dorme ogni notte con lei.
Quel sogno la sgomenta. Non ne capisce il senso e lo cerca nel gran repertorio delle visioni notturne. Ma nell’indice finale per ordine alfabetico non trova altri vocaboli che abete, bosco, burrasca, neve, orto, oscurità, ponte, turbine, eccetera. Martino Zadeca non solve l’astruso enimma. Certo però si è che quel sogno presagisce una moltitudine di disgrazie. Per più giorni Taziana se ne accora e ne paventa.
Ma la rosea mano dell’aurora riconduce il bel giorno anniversario della sua festa. Sin dal mattino la casa Larin è piena di gente. I vicinanti vi si trasportano con tutta la loro famiglia in chibitca, in britsca, in slitta. Nelle anticamere, un tumulto, un bisbiglio confuso; nei salotti nuovi visi. Chi grida, chi ride; i cagnolini guaiscono, le signorine s’abbracciano; tutti si salutano; le balie s’arrabbiano; i bambini vagiscono.
Venne l’obeso Pustiacoff colla sua corpulenta moglie; venne Gvosdin, esimio economista, dovizioso padrone di miserrimi servi; vennero gli Scotinin, consorti canuti, con tutti i loro rampolli dall’età di due fino a quella di trenta anni; venne Petuscoff, damerino campagnolo; venne mio cugino Buianoff cosperso di calugine, con un caschetto militare noto a tutti;8 venne Flianoff consigliere fuor d’impiego, famoso attaccabrighe, vecchia volpe, pappalecco, angariatore e gran buffone. Colla famiglia di Panfilo Carlicoff, venne Monsieur Triquet, furfantello pur or giunto da Tamboff cogli occhiali e la perrucca rossa. Da vero francese galante, Triquet cavò di tasca un madrigale sull’aria favorita dei bambini: Rèveillez vous, belle endormie. Quel madrigale trovavasi fralle canzonette rancide d’un antico almanacco; Triquet, sagace scopritore, lo trasse dall’oblio, lo richiamò alla luce; ma prima ebbe l’accortezza di porvi belle Tatiana invece di belle Nina.
Venne il comandante della guarnigione del borgo, idolo delle ragazze aggrinzite e decrepite, trastullatore di tutte le madri del paese. Entrò esclamando: “Ah, che notizia, che notizia! Avremo la musica del reggimento! Me la manda il colonnello. Che piacere! balleremo.”
Le fanciulle saltano già dalla contentezza. In questo mentre si serve il desinare. I commensali vanno a tavola due a due tenendosi per mano. Le signorine si mettono presso a Taziana. I signori dirimpetto. Fanno il segno di croce, cianciano un poco e si pongono a sedere.
Per qualche tempo non pensano che a mangiare. Le mascelle macinano; i piatti, i bicchieri s’empiono e si vuotano sovente. Poco a poco s’annaspa una conversazione fra due o tre persone; ma nessuno vi bada; tutti schiamazzano, ridono, leticano. Di repente la porta si spalanca. Lenschi e Anieghin compariscono: “Ah finalmente!” esclama la padrona.
I convitati si ristringono fra loro; ciascheduno rimuove la posata e la seggiola per far loco; i due amici si accomodano. La padrona li ha collocati in faccia di Taziana, la quale più bianca che la luna di mattina, e più tremante della capriola inseguita dai cacciatori, non ardisce levar gli occhi ottene brati. Un ardore insolito le serpe per le membra; si sente soffocare; non ode i complimenti che le fanno i due amici; quasi quasi le sgorgano le lacrime dagli occhi e sta per cadere in deliquio. Ma la volontà e la ragione trionfano di quella debolezza momentanea. Mormorò fra i denti due o tre parole di ringraziamento e rimase a tavola.
Eugenio non poteva più soffrire le scene tragico-isterico-buffe degli svenimenti femminili; ne aveva vedute tante! Già gl’incresceva assai d’essersi lasciato cogliere alla trappola d’un gran banchetto. Ma quando osservò l’agitazione e il languore della giovinetta, abbassò gli occhi dalla stizza, maledì Lenschi, giurò di fargli dei rimproveri e di vendicarsi in regola. Frattanto, per passare il tempo si diverte a schizzar mentalmente la caricatura di tutti i convitati.
Ma sia lode al vero: Eugenio non osservò soltanto la confusione di Taziana. Tosto attrasse la vista e l’attenzione sua un pasticcio di carne che per gran sventura era troppo salato. Poi venne fra l’arrosto e il blanc manger una bottiglia di vino di Zimlianschi9 sigillata. Portano per beverlo un assetto di bicchieri lunghi, sottili e svelti come la tua vita, o Zizi, vas d’elezione dei miei versi, bicchiere dell’anima mia, che m’hai tante volte inebriato d’amore!
Liberata dal tappo, la bottiglia sbalza; il vino ferve e fuma. Allora, con un aspetto grave, Triquet s’alza armato del suo madrigale. La compagnia ascolta in profondo silenzio; Taziana è più morta che viva. Triquet volgendosi ad essa col foglio in mano si mette a cantare stuonando. Applausi, urli d’entusiasmo ricompensano il poeta. È forza che Taziana gli faccia un inchino. Il gran poeta, umile nel suo trionfo, porta un brindisi alla bella e le consegna il prezioso manoscritto. Seguirono i complimenti e gli auguri; Taziana ringraziò tutti. Quando toccò ad Eugenio di congratularla, quell’aria smorta e stanca, quel turbamento interno, commossero il crudele. La salutò senza aprir bocca, ma il suo sguardo parlò abbastanza. Provava egli veramente un certo affetto, oppure voleva egli prendersi spasso della poveretta? Fosse per caso o fosse di proposito, quello sguardo esprimeva la simpatia e rese il respiro a Taziana.
Si respingono le seggiole con gran rimbombo. La folla si precipita dalla sala da pranzo nel salotto. Tale un ronzante sciame di pecchie esce dall’alveare e vola al prato. Ben pasciuti e ben dissetati, gli ospiti sfilano l’uno dopo l’altro. Le mamme s’assidono intorno al caminetto. Le signorine cinguettano in un angolo. I tappeti verdi10 e il boston invitano i giocatori fanatici, le ombre allettano i vecchi; il whist, tuttora in voga, raccoglie sotto alle sue bandiere chiunque per interesse sa superar la noia. Già questi ultimi han fatto otto partite, già otto volte han mutato posto: ma ecco il tè. Io segno diligentemente le ore del desinare, della merenda e della cena. In campagna, queste ore si conoscono senza grande sforzo, lo stomaco ci fa da orologio esattissimo. E qui pregherò il lettore di notare che in questo mio poema io ragiono spesso di banchetti, di pietanze e di tappi come fai tu, o divino Omero, idolo nostro da tre mila anni in qua!
Le fanciulle vanno in gran cerimonia a prender ciascheduna una tazza di tè, quando si sente dietro la porta della sala grande un concerto di flauto e di fagotto. Elettrizzati da quell’armonia, i giovanotti metton da banda il tè e il rhum. Pietuscoff, il Paride dei villaggi circonvicini, s’accosta ad Olga; Lenschi a Taziana; Triquet alla Carlicoff, ragazza di matura età, e il mio cugino Buianoff s’impossessa della signora Pustiacoff. Il ballo incomincia.
Nella prima parte di questo romanzo (vedi il primo capitolo) volevo dipingere i balli di San Pietroburgo, alla maniera dell’Albano. Ma diviato da vane riflessioni, da dolci rimembranze, io mi cacciai dietro alle vostre orme delicate, o piedini! o piedini e mi smarrii, e perdei il filo del mio racconto. Ma col dileguarsi dei miei belli anni io diverrò più savio, riformerò i miei costumi e il mio stile, e purgherò questo quinto canto da ogni digressione superflua.
Il walzer imperversa come un turbine e passa monotono e pazzo come la gioventù. Una coppia succede all’altra. Mentre l’ora della vendetta s’appressa, Anieghin, esultando di soppiatto, danza con Olga, poi quando è stanca la fa sedere e discorre seco di vari oggetti. Due minuti dopo, eccolo che vola di nuovo con essa. Tutti stupiscono. Lenschi stesso non può credere ai propri occhi.
I musicanti suonano la masurca. Anticamente quando echeggiava quell’aria, tutto oscillava nelle vaste sale; le invetriate si sconnettevano; il tavolato si spaccava sotto i tacchi dei danzatori. Adesso non è più così; noi calchiamo con tanta leggerezza quanto le signore l’impiantito spalmato di lacca. Ma nelle piccole città e nei villaggi la masurca conserva tuttora la sua bellezza, i suoi antichi onori: cioè li slanci, le capriole, i tacchi lunghi, i baffi e il resto. La imperiosa moda non ci ha cambiato nulla; la moda! malattia epidemica dei nuovi Russi.
Buianoff mio cugino riconduce presso Eugenio, Taziana ed Olga. Anieghin danza con Olga, le parla all’orecchio, le stringe la mano. Le di lei guance arrossano di vanità. Lenschi ha veduto tutto; monta in sulle furie, è fuor di sè e aspetta, con un fremito di gelosia, la fine della masurca. Allora invita Olga al cotillon.... Ma essa ricusa.... Ricusa! E perchè? È già impegnata con Eugenio. Come! Essa sarebbe capace!... No, non è possibile. Appena escita dalle fasce sarebbe una coquette! Già conoscerebbe i raggiri della civetteria e saprebbe mentire e spergiurare! Lenschi non può sopportare un colpo si improvviso. Maledicendo la scaltrezza delle donne, domanda un cavallo e parte. Due pistole, due palle scioglieranno il problema.
Note
- ↑ Bisogna sapere che non essendovi in Russia buone strade maestre, le communicazioni sono mercè della neve più facili d’inverno che di primavera e d’estate.
- ↑ Sorta di carrozza.
- ↑ La Prima neve, poema del Principe Viasemschi celebre poeta tuttora vivente.
- ↑ In un’ode di Baratinschi.
- ↑ Pratiche superstiziose usate dal popol russo per conoscere il futuro.
- ↑ Questo è il modo che adoperano le ragazze superstiziose per sapere il cuore del loro futuro sposo.
- ↑ Poema russo nel genere classico, cioè noioso.
- ↑ Allusione ad una satira scritta da uno zio di Puschin e intitolata Il vicinante pericoloso. Il nome di questo personaggio ridicolo è appunto Buianoff e il poeta lo rappresenta come qui lo vediamo.
- ↑ Vino di Crimea.
- ↑ Cioè le tavole da gioco.