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134 | eugenio anieghin |
tarli; dimenticava in seno alla indolenza la città e gli amici e la noia delle gale e delle feste.
Nel nostro emisfero boreale, l’estate, caricatura dell’inverno d’Italia, appena è comparsa, che già è sparita. Ognuno lo sa, e lo sappiamo noi stessi sebben non lo vogliamo confessare. Già il vento d’autunno mugghia sul nostro capo; già il sole si mostra men sovente; già i giorni divengon più corti; la corona frondosa dei boschi si sfoglia con un lugubre gemito; le atre nebbie s’accumulano sulla terra; una stridula caravana di cicogne s’invola verso l’austro. S’approssima la stagion molesta; novembre è alle nostre spalle.
L’aurora sorge in mezzo a densi e gelidi vapori; il suono dei lavori agresti cessò nelle campagne; il lupo corre per le strade colla lupa affamata; il destriero lo annusa da lontano e nitrisce; il viaggiatore scaltro volge frettolosamente il corso verso i monti. Il mandriano non mena più le vacche sin dall’alba alla pastura, e non le chiama più a raccolta col corno verso l’ora del meriggio; la contadinella fila e canta, e una lucernina1 sua sola compagna nelle lunghe notti illumina la sua povera cameretta.
La brina ingemma i prati e screpola sotto i passi del camminante. Più liscio d’un impiantito alla francese, il ruscello luccica incrostato di ghiaccio. Uno stormo di monelli striscia con gran chiasso su quel cristallo unito. Una grossa oca che si strascina appena sulle zampe rosse, volendo mettersi
- ↑ In russo luccinca che è propriamente un pezzetto di legno che serve ai contadini di candela.