Ettore Fieramosca/Capitolo XVI
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo XV | Capitolo XVII | ► |
Capitolo XVI.
Per condurre di pari il racconto de’ molti accidenti che accaddero separatamente in quella sera ai varii attori di questa storia, ci è convenuto lasciar il lettore sospeso sul conto di ciascuno: e quantunque sia questo il costume di molti narratori, non crediamo che riesca gradito quando il libro che si ha fra le mani è da tanto d’inspirar il desiderio di conoscere il fine. Non ci scuseremo presso il lettore d’aver seguito un tal metodo, che del resto era indispensabile nel caso nostro; questa scusa sarebbe un atto di vanità che potrebbe far ridere alle nostre spalle; e la modestia, che in alcuni è una virtù, in molti è un tornaconto.
Comunque stia la cosa, dobbiamo abbandonar per poco anche Fieramosca, tornar alla rôcca, e trovar il Valenza che vi lasciammo nelle camerette basse guardanti la marina.
Il primo de’ due fini pei quali s’era condotto all’esercito spagnuolo, malgrado la sua astuzia, gli era andato fallito, nè avea potuto infondere a Consalvo bastante fiducia per indurlo a far lega con esso lui, od almeno a spalleggiarlo. Lo Spagnuolo, serbandogli fede quanto al tenerlo celato, aveva declinate le sue domande, accogliendolo poi del resto con quell’onore che se non si doveva alle sue qualità, si credeva dovuto al suo grado. Nei sette o otto giorni che scorsero fra l’attaccarsi e lo sciogliersi di questa pratica, stette così quasi sempre chiuso nelle sue camere per non dar indizio di sè; e se qualche rara volta uscì a prender aria, fu di notte e colla maschera al viso, come in quel secolo s’usava fra gli uomini d’alto stato, e spesso per ajutare col segreto le poco lodevoli operazioni. Ma come dicemmo, alle mire politiche s’univano macchinazioni contro quella che era stata ardita abbastanza per mostrargli sprezzo; e queste macchinazioni, mediante la destrezza di D. Michele e secondo le sue promesse, dovevano in quella sera avere il loro effetto. Parrà forse difficile ad alcuno il concepire come quest’insigne ribaldo, rotto ad ogni sfrenatezza, potesse tanto stimare il possesso di una femmina, e seguirne con tanto studio la traccia. Ed in fatto sarebbe errore l’ammettere che l’amore, anche nel senso più abbietto, guidasse i desiderii del Valentino. Ma Ginevra aveva resistito, e resistito mostrando sprezzo ed orrore per lui; viveva, a creder suo, felice con un altro; gli pareva rimanere al di sotto e schernito: e chi nell’universo doveva potersi vantare d’aver fatto stare Cesare Borgia?
Di quante donne aveva incontrate che avesser pregio di bellezza, tutte aveva lasciate o colpevoli od infelici; e ve n’era pur fra queste delle virtuose e dabbene, e di tali che strette per sangue ad uomini potenti dovevan tenersi sicure. Si poteva ora sopportare che una femminella poco nota e meno curata si facesse beffe a tal segno di lui che faceva tremare Italia da un capo all’altro?
A quest’ora però il Valentino si trovava presso a poter far le sue vendette e diceva fra sè: il disagio d’essere stato in questa segreta me l’avrai da pagar caro! e per verità il soggiornare in camerucce simili ad una prigione, avvezzo com’era al vivere splendido della Corte romana, doveva parergli duro, se a quell’uomo fosser mai parse dure cento privazioni per ottenere un suo fine. I modi tuttavia d’impiegare il tempo non gli erano mancati interamente. Oltre le ore che aveva dovuto passar con Consalvo, e quelle spese ad ordir con D. Michele la traccia di loro impresa, gli pervenivano pure di giorno in giorno dalla Romagna messi che spediti di colà da’ suoi più fidati gli portavan lettere, carte, avvisi sugli affari correnti; giugnevano e ripartivano la notte, verificando in ogni cosa l’asserzione di Niccolò Machiavelli che, scrivendo al Comune di Firenze poco prima di quest’epoca, diceva: Di quante Corti sono al mondo, quella ove più si serba il segreto è la Corte del duca. E benchè non aggiungesse chiaramente il perchè, lasciava intendere che alle lingue imprudenti veniva imposto il silenzio dell’avello.
Questa corrispondenza si manteneva per mezzo di legni leggieri che, navigando terra terra da Rom, s’appiattavano fra certi scogli a piè del Gargano; di là con una barchetta a notte chiara giungeva il messo alla rôcca, e dalle loro ciurme composte d’uomini scelti aveva D. Michele tolto i compagni che alla sua impresa gli bisognavano. In questa sera, mentre il castello era pieno di romori e di suoni, stava il Valentino seduto avanti ad una tavola al lume d’una lucerna ripassando per ingannar l’ore molte carte che i corrieri dei giorni innanzi gli avevan recate. Era vestito d’una cappa riunita davanti da una fila di piccoli bottoni col busto e le maniche di raso nero piuttosto strette, e sovr’esse molte strisce di velluto bianco volanti, e solo riunite al braccio in quattro luoghi da cerchii del medesimo panno: presso il collarino della cappa tre o quattro bottoni aperti lasciavan vedere un giaco di finissima maglia d’acciajo che portava sempre di sotto; abito che fu dal duca usato sovente; e chi ha visitato in Roma la galleria Borghese si ricorderà d’avervi veduto il ritratto suo per mano di Raffaello, vestito in tal guisa. Malgrado la forza della sua complessione, era travagliato di tempo in tempo da un umore acre della specie degli erpeti, che ora gli serpeggiava latente pel sangue, ora si scopriva alla cute e sulla faccia specialmente; ed allora la livida pallidezza del suo volto si cangiava in un rosso spugnoso pieno di bolle, dalle quali stillava umore, e la schifosa deformità del suo viso era tale da metter ribrezzo anche nelle persone che di continuo gli stavano vicine; nè un’anima simile alla sua poteva vestirsi d’una forma che più ne facesse il ritratto. Per la vita sedentaria menata in quei giorni tanto contra il suo solito, e per virtù della primavera s’erano sprigionati quegli umori infetti con grandissima forza deturpandogli più che mai i lineamenti, ed inducendo in tutto il suo essere una inesplicabile ed irrequieta rabbia, conseguenza ordinaria di tali malanni.
Verso le due ore, quando nelle sale al disopra stava cominciando il ballo, la porta della camera del duca fu spinta leggermente ed aperta da un uomo vestito di calzoni rosso-oscuro stretti alla carne, d’una cappa che gli giungeva a mezza coscia, con un cappuccio nero sugli occhi, spada, pugnale, ed un involto sotto braccio. Il Valentino alzò il viso, e colui entrando facendo riverenza deponeva sulla tavola l’involto senza che da nessuno dei due venisse profferita parola: messa il duca una mano sull’involto diceva al messo:
Stanotte mi leverò di qui: va nell’ultima di queste camere, chiudiviti, e per cosa che ascolti, non venir se non ti chiamo.
L’uomo uscì per la porta in faccia a quella dalla quale era entrato, e Cesare Borgia trattosi d’accanto un pugnaletto che radeva tagliò i cordoni di seta vermiglia che coi sigilli apostolici legavano una lettera in carta pecora che gli scriveva papa Alessandro. Nell’aprirla uscì dall’interno rotolando sulla tavola, un globetto d’oro; alla vista del quale il duca balzò in piedi con sospetto; e guardando più attentamente i sigilli e lo scritto, si veniva rassicurando e si riponeva a sedere.
Nè si voglia attribuire questo suo sbigottimento a timor panico: erano tanti i modi in quel secolo d’apprestar veleni, e persino di mandarli chiusi in lettere in forma che all’aprirle facessero immediatamente il loro effetto, che era perdonabile il duca se la vista d’un oggetto che non aspettava l’aveva colpito: e se v’era al mondo uomo che dovesse alla prima pensar al peggio, era esso sicuramente.
La lettera era scritta in una cifra della quale nessuno aveva la chiave fuorchè egli ed il papa; per la pratica fatta la lesse correntemente; e diceva così:
Alli giorni passati fummo a lungo coll’oratore del Cristianissimo, il quale ci volle stringere a fermare i patti della lega contro il re cattolico per ispogliarlo del reame, etiam, offrendoci maravigliosamente d’ajuti per far l’impresa di Siena e dello stato del Co. Gio. Giordano, alle quali cose noi non abbiamo voluto scendere se prima non sapevamo a’ quali termini steste col Magn. Consalvo. Noi non istimiamo che Francia, etiamsi nel momento presente paja assai gagliarda sull’armi, possa a lungo far testa all’esercito di Ferdinando, guidato da un tanto condottiere, e che può per mare agevolmente ingrossare e ristorarsi dei danni. Oltre che la gente franzese mal comporta una guerra gretta e prolungata, sarà dunque util consiglio mantenere attaccato il filo con ambedue, ed intanto s’accozzeranno queste genti e sortiranno qualche effetto, pel quale si potrà determinare un partito.
Jeri ci venne a trovare la madre del cardinale Orsino portandoci i duemila scudi, e richiedendoci di potergli mandare la vivanda in castello, come per lo passato, la qual cosa liberamente le abbiamo potuto concedere, havendo già provveduto al fatto del figlio e datogli la polvere per un mese di vita e non più.
A due ore di notte poi capitò la sig. Settimia, amica del cardinale, portandoci la perla già del sig. Virginio Orsino che haveva havuto in dono dal cardinale sopraddetto, venne vestita da uomo nella camera del pappagallo.
Essendo nostra mente di dar opera totis viribus, alla distruttione di casa Orsina, a maggior gloria ed essaltattione di S. Chiesa, v’imponiamo stiate sull’avviso per poter alla morte del cardinale aver le genti in pronto per condurle in campagna di Roma, e metter in campo a Bracciano, dove questi pessimi nemici della Chiesa e di Dio hanno fatto testa grossa, et magis, se l’esercito franzese toccasse qualche rotta e s’havesse perciò haver minori rispetti al Cristianissimo.
Avvegnachè per tante spese la camera Apostolica si trova in falta di denaro, pensiamo di dare il cappello a Gio. Castellar arciv. di Tran. A Francesco Remolino oratore del re di Raona, a Francesco Soderini di Volterra, a mgr. di Cornereto secretario dei Brevi, e ad alcuni altri grandissimi ricchi; e venendo voi in Roma ordineremo quanto verrà bene di stabilire sul fatto loro.
Maestro Amet, venuto oratore pel soldano, ragionando con noi di molte mirabili cerimonie dell’arte, ci mostrò che per la forza di Saturno che si trova con Giove e Venere nella camera del Sole in ascendenza possiamo incontrare grave pericolo in quest’anno, contro il quale ci ha consigliato portassimo continuamente una palla d’oro, come questa che vi mandiamo, al medesimo effetto con entrovi l’ostia consacrata da noi.
- Dat. Romae in aedib. Vatic. Die XV Mens. Martii IDIII
Quantunque i fatti accennati in questa lettera orribile sieno pur troppo veri, e che il tradimento ordito contra il cardinale di Corneto specialmente, tornando in capo al papa, come ognun sa, sia stato cagione della sua morte, siamo stati in dubbio se dovessimo metter tanto vituperio sotto gli occhi de’ nostri lettori. Ma se Iddio, per fini impenetrabili, ha permesso che alcuno dei primi custodi delle cose più sante ne abusasse sì bruttamente, forse nocerebbe voler nascondere le sue iniquità, e ne riporteremmo taccia di parziali, e di cercar il trionfo della parte e non della verità, cui per reggersi non fa mestieri l’ajuto della doppiezza. I delitti di papa Borgia, e di altri ministri della Chiesa saranno pesati sulle bilance incorruttibili dell’ira di Dio, e non è dato all’uomo antivederne i giudizi: ma dalle ceneri di quei pontefici, non meno che dalle tombe de’ martiri, sorge una verità che ci mostra, non sull’oro, non sulle spade, non sulle arti cortigianesche, ma sulle virtù evangeliche alzarsi e star gloriosa la croce di Cristo.
Al duca di Romagna, come si può immaginare nel leggere la lettera di suo padre, vennero in mente riflessioni molto diverse da queste. Volgendo alternativamente lo sguardo allo scritto ed alla palla d’oro che si faceva girar fra le dita, componeva il volto ad un sorriso nel quale appariva disprezzo per un verso, poichè non credeva nè in Dio nè in Santi, per l’altro una credulità timida e sospettosa, poichè avea fede nell’astrologia: tanto è vero che l’intelletto ha bisogno di veder un principio al di là del mondo corporeo. Se anche non avesse disposto di partir la stessa notte per Romagna, le cose contenute in quella lettera ve l’avrebbero indotto. Una trama che doveva saziar la sua ambizione e tanto impinguare i suoi forzieri era ben altra cosa che un vano impegno di femmine. Pensò che non poteva molto tardare a tornar D. Michele co’ suoi; messosi perciò in seno la palla d’oro coll’atto non curante di chi dice, sarà quel che sarà, si diede a metter insieme le carte ed altre cose che dovea portar seco.
In pochi minuti tutto fu all’ordine. Ritornò a sedere come prima, e, per non saper che fare, si cavò di seno quella palla, cominciò a guardarla e riguardarla e farsela cadere da una mano nell’altra pensando al sacramento che conteneva, e a chi gliel’avea mandata; e poi via via da un’idea in un’altra alla religione di cui questi era capo, agli articoli di fede ch’esso pure avea creduti un tempo, al suo splendido stato, frutto della soggezione dei popoli all’autorità pontificia, e dopo avere schernita in cuore la credulità di tanti, e pensato «Io a buon conto me la godo alla barba di tutti», udiva una voce che uscendo cheta cheta di sotto quest’edificio di superbia, di violenza e d’irreligione, diceva «E se fosse vero?».
Il duca non volendo prestarle fede, nè potendo farla tacere, s’alzò con istizza, passeggiò per la camera, e fece alla meglio che potè per distrarsi. Tutto inutile. Quel — se fosse vero? — gl’incalzava, infestandolo, e togliendogli, se ardissi dirlo, il sapore degli onori, del potere, di tutti i beni che possedeva. Si buttò sul letto, cacciando il volto con rabbia fra i guanciali, e, dandosi del pazzo, riuscì a poco a poco a calmarsi. Gli si fecer gravi le palpebre, le chiuse, s’addormentò.
Ma nel sonno il corso delle sue idee rimanendo nella medesima direzione, gli parve esser in Roma sulla strada che da castello va a S. Pietro. Il cielo, la terra erano sconvolti: tutto diverso, tutto pieno di tenebre e d’urli. Egli si spingeva per correr in San Pietro, e non poteva, ed ansava affannato: gli parve d’esser tenuto, guardò intorno: erano tutti coloro che aveva traditi, assassinati, avvelenati, e l’avean pe’ capelli e per le carni, con un gridar lungo e disperato.
Dopo, senza saper come, era in San Pietro, in un caos inenarrabile, bujo, pieno di pianti, fra lo scuotersi delle mura, l’aprirsi delle tombe, il vagar delle larve; ed egli, sempre straziato dalle sue vittime che gridavan «Giustizia di Dio!» pensava, questo è dunque il Giudizio che non volevo credere!
E tirava alla disperata per andar innanzi, e cercar rifugio presso al papa che vedeva in fondo sul suo trono fra una luce pallida e fioca. Ma l’impedivano di qua il fratello, duca di Candia, colle ferite aperte, che invece di sangue gemevano una linfa corrotta, e colla forma turpe e gonfia d’un cadavere imputridito sott’acqua, di là il duca di Biselli, e Astorre Manfredi, e donne, e fanciulli, che tutti piangendo stendevano le braccia al papa gridando giustizia e vendetta! Il papa era chiuso in un gran piviale nero col regno in capo. Il viso grasso, vizzo, cascante d’Alessandro VI era giallo come quello d’un cadavere; la sua figura si venne alzando lenta lenta, come rizzandosi in piedi, le grida e i pianti furono coperti da uno scroscio di risa infernali uscito dalla bocca del pontefice: «Cristo, la Fede, i Papi.... tutte impoture» e questa ultima parola suonò sotto la vôlta della chiesa come un lungo ululato.
Il duca n’avea ancor pieni gli orecchi, e già era cogli occhi aperti, seduto sul letto, e svegliato del tutto.
Rimase un momento sbigottito, ma questo sogno rese però in lui più ferma la scellerata opinione, che poteva commetter qualunque delitto senza timor del castigo in un’altra vita.
Mentre si rinfrancava con questo pensiero (eran sonate le tre ore da pochi minuti), il ronzìo del parlare di tante persone, i suoni, le grida d’allegrezza che scendevano dal piano superiore della rôcca giugnevano deboli per la grossezza delle vôlte in quel piano terreno, allorchè quello stesso grido, che avea interrotto il colloquio di D. Elvira e Fanfulla, fu udito dal duca molto più vicino e quasi venisse di dietro all’uscio suo, il quale metteva s’un poco di rena secca che si trovava tra il mare e i fondamenti del castello. Uscì a vedere chi l’aveva mandato, e non vide che un battello vuoto la cui prora solcando la sabbia s’era fermata a riva; guardò su alla loggia ed alle finestre, e non vide alcuno: stava per rientrare nella sua camera, pure fece alcuni passi avvicinandosi al battello, ed allungando il collo sopra gli orli vi trovò nel fondo distesa una donna che col capo all’ingiù fra le due mani tratto tratto si lamentava. Dopo un primo movimento di sorpresa subito si rivolse, ed entrato nel battello, postole un braccio sotto le ascelle, e coll’altro alzandola alle ginocchia, la levò di peso, e tramortita come era, la portò dentro e la depose sul letto. Ma qual fu la sua maraviglia quando, accostatole il lume per vederla in viso, conobbe Ginevra! Gli era troppo rimasto impresso quel volto per poter negar fede ai suoi occhi, ma come indovinare per quale strano accidente gli venisse ora in mano così sola, ed a quel che pareva avendo ingannate le insidie di D. Michele?
Di qui innanzi, diceva fra se stesso, voglio credere almeno vi sia il diavolo. Altri che un diavolo amico non potea servirmi tanto a piacer mio. E posato il lume s’una piccola tavola accanto al capezzale, seduto sulla sponda del letto, studiava i moti del viso di Ginevra, per cogliere il momento in cui si fosse risentita; il piacere di potersi goder finalmente una vendetta lunga, dolorosa, gli accendeva gli occhi di una fiamma scorrente a guisa di scintilla elettrica fra ciglio e ciglio, e le macchie che le deturpavan il volto parea ribollissero tingendosi di un colore quasi sanguigno. Certo la faccia d’un uomo, mettendo insieme la deformità fisica, con quella che induce nei lineamenti l’espressione del delitto, non s’era mostrata mai sotto un aspetto più orrendo. Da un lato Ginevra pallida, immobile, col dolore scolpito in viso, con una mossa tutta abbandonata e languente, dall’altro il Valentino, quale l’abbiamo descritto, formavano un quadro troppo doloroso e compassionevole. Stettero ambedue in questa situazione immobili lungo tempo: potè dirsi felice Ginevra finchè i suoi sensi smarriti, le palpebre abbassate le tolsero la conoscenza del luogo ove si trovava, e la vista di quello che oramai era assoluto padrone di lei; ma durò poco questo fortuna, e da qualche moto leggiero s’avvide Cesare Borgia che la sua vittima stava per aprir gli occhi. In quel luogo ed a quest’ora era certissimo che nessuno poteva impedirlo: il gridare sotto quelle vôlte mentre la festa era nel maggior calore, non sarebbe stato udito. Trovandosi dunque sicurissimo, propose in cuor suo, poichè gli avanzava il tempo, di goder senza fretta d’una fortuna tanto feconda.
Finalmente un sospiro profondo uscì dal petto della giovane, e fece alzare i veli che lo coprivano. Aprì un momento li occhi, e tosto li richiuse. Li aprì la seconda, la terza volta, poi cominciò a fissarli nel volto che si vedeva star sopra immobile e sconosciuto, ma lo vedeva materialmente soltanto, senza che la mente ricevesse nessuna idea da quella vista: pure i suoi occhi non potendo reggere all’immagine di quel viso sfigurato, si volsero altrove lentamente con un moto così languido che avrebbero messo compassione in ogni altro. Nel tornarle a poco a poco il senso, la prima memoria che la percosse fu quella di Fieramosca sulla loggia ai piedi di D. Elvira.
— Oh Ettore! — disse articolando appena le sillabe. Dunque era vero, e son tradita da te!... e portando sugli occhi e sulla fronte le palme delle mani stette così alcuni minuti: al Valentino, udito quel nome, si contrassero leggermente le labbra con un sorriso rabbioso.
Ginevra si ricordò allora soltanto che doveva esser nel suo battello, ed alzandosi sul gomito per tentar di rizzarsi, sentì il morbido del letto, aprì gli occhi spaventata, vide il duca, e gettò un grido che la mano di lui le troncò nelle fauci afferrandola alla gola e respingendola a giacere.
— Non gridare, Ginevra, le disse il Valentino, sprecheresti il fiato; ho caro assai che mi sia venuta a trovare, e ti ristorerò del disagio di un viaggio a quest’ora.... Tu però non cercavi di me. Non è egli vero? Che vuoi? tutte le palle non riescon tonde.
La povera Ginevra ascoltava queste parole con un tremito che le toglieva la forza; da molto tempo non avendo veduto il duca, non lo riconosceva, e soltanto provava orrore alla sua vista trovando pure in sè una confusa reminiscenza di quella fisonomia. Conoscendo di non poter far difesa, disse soltanto: Signore!... chi siete? abbiate pietà di me... che cosa volete?... lasciatemi... Ed il duca:
— Ti ricordi, Ginevra, in Roma, in qual modo ti governasti, son già molt’anni, con un tale che t’amava allora quanto gli occhi suoi e t’avrebbe fatto tali doni e tali carezze da farti maravigliare? Ti ricordi che usasti seco modi che sarebbero stati sconci ad un ragazzo di stalla? Ti ricordi che ti ridesti del suo amore, che tenesti a vile le sue proferte, che ti vestisti seco d’una superbia che sarebbe stata troppa ad una regina? Ebbene, sai chi era quel tale? Quel tale son io. E sai chi son io? Cesare Borgia.
Questo nome cadde come una massa di piombo sul cuore di Ginevra a soffocarvi ogni speranza: stava perciò senza rispondere guardando il duca tutta tremante come avrebbe guardato un tigre che la tenesse fra gli artigli, e che non le sarebbe neppur venuto in capo di voler intenerire colle parole.
— Ora che sai chi io mi sia, seguì a dire il duca, pensa se dovresti aspettar da me compassione; pure potrei piegarmi a non far su di te la vendetta che dovrei e potrei. Ma ad un patto, Ginevra, che facci senno; e ti so dire che n’hai mestieri.
Queste meno aspre parole non potettero non ridestare nel petto della donna una favilla di speranza, e colle mani giunte, procurando di non mostrare nel guardarlo il ribrezzo che ne sentiva, si pose a pregarlo come si prega la Croce, che non volesse opprimere una femminella già troppo misera ed infelice.
— Io vi prego, signore, per le piaghe di Gesù, per quel giorno in cui ancora voi, benchè tanto potente in terra, vi troverete anima ignuda al cospetto del Giudice eterno... Se aveste mai donna che vi fosse cara, dite, se si trovasse in mano altrui, e domandasse invano misericordia, se vostra madre, se vostra sorella fosse posta al passo in che mi trovo io, e pregassero, e pregassero invano, gridereste vendetta al cielo, non è egli vero, contro chi avesse loro fatto oltraggio?
Queste parole, che univano l’idea della virtù e dell’onestà coi nomi della Vannozza e di Lucrezia Borgia, mossero alquanto a riso il Valentino, che ne sapea qualche cosa. Ma fu un riso sinistro che a Ginevra accrebbe la paura: pure seguitò la sua preghiera mutandosele a poco a poco pel pianto la voce mentre parlava, onde poi a stento fra la piena de’ singhiozzi furon udite l’ultime parole: — Io sono una meschina femminuccia: qual bene, qual gloria può trovare un potente signore qual siete voi a vendicarsi di me? Chi sa che non venga un momento in cui la memoria d’avermi usata mercede non vi sia balsamo al cuore? — Voler dir l’ansia, l’angoscia, la disperazione dell’infelicissima Ginevra nel vedersi a questo terribil passo, voler descrivere le sue lagrime, le preghiere, ed in ultimo le furibonde grida, e le dementi imprecazioni, sarebbe impossibile, ed offriremmo ai nostri lettori un quadro troppo straziante. Diremo soltanto che la sua sorte era fissata ed irrevocabile.
D. Michele intanto che tornava co’ suoi compagni malcontento e colle mani vuote, tremando dello sdegno del suo signore, giunse a piè del castello, e vedendo fermi alla porta del duca i due battelli di Ginevra e del messo, si mise in sospetto: sceso a terra s’accostò all’uscio e, sentendo rumore di dentro, dubitò di qualche sinistro accidente, spinse la porta, la trovò chiusa, e non si sarebbe rassicurato, se la voce di Cesare Borgia, che gli gridò aspetta, non gli avesse mostrato ch’ei non correva alcun pericolo. Mise l’orecchio al fesso dell’uscio non potendo immaginare qual fosse la cagione per la quale non gli veniva aperto.
Dopo alcuni minuti durante i quali regnò il più alto silenzio, e si sentiva soltanto su in alto rimbombar l’aria di suoni e di grida lontane, e il gorgoglìo dell’onda alla riva che faceva leggermente percuotere i battelli l’un contra l’altro, D. Michele, che origliava tutto attento, udì ad un tratto la voce del duca che disse con uno scroscio di risa:
— Or va, prega Dio e i Santi.... e il rumore de’ suoi passi che s’accostava alla porta, onde egli se ne ritrasse al punto che il duca, voltata la chiave, uscì fuori.
D. Michele volle cominciare a scusarsi, ma venne interrotto. — Mi dirai ciò un’altra volta; di questo fatto per ora ne so più di te assai. — Queste parole avrebbero potuto far credere a D. Michele che il suo padrone fosse sdegnato seco, se non avesse conosciuto nel suono della voce e nel viso, che v’era un nodo nel quale egli non aveva che fare.
Il Valentino volto agli uomini venuti con D. Michele disse: «Presto voi tutti in barca, ed aspettatemi sotto S. Orsola:» ed a questi «e tu vien con me.» Coloro dieder de’ remi e furon presto fuor di vista. D. Michele e ’l duca entrarono nelle sue stanze, e tosto uscirono portando Ginevra che riposero nel battello ov’era stata trovata. D. Michele scôrse sulle sue vesti dal lato sinistro alcune tracce di sangue.
Ciò fatto, venne chiamato dalla camera in fondo il messo, entraron nella sua barca tutti tre senza profferir parola, e, raggiunta che ebbero quella avviatasi innanzi, vi si trasferirono.
Sedè il duca a poppa, e D. Michele in piedi avanti a lui: quantunque ora sapesse perchè il suo signore non si curava che il colpo non avesse avuto il suo effetto, volle però narrargli per quali cagioni fosser tornati colle mani vuote, e gli venne raccontando tutto a filo il modo che avevan tenuto, e come assaliti da molti uomini s’eran difesi a stento ed era loro stata ritolta la donna.
— Ad uno però di costoro è andata male; soggiungeva accennando dietro di sè verso Pietraccio, il quale, come vedemmo, colto sul capo con un remo, e caduto stordito nella barca v’era rimasto prigione. A quell’ora risentitosi stava seduto a due braccia dal duca; e gli uomini suoi credendolo più morto che vivo, nell’impossibilità del resto di fuggir loro dalle mani, lo lasciavano stare.
— Questo mascalzone, seguitava D. Michele, c’è saltato in barca come una furia, ma qui il Rosso gli ha appoggiata una nespola sull’orecchio, che l’ha messo a giacere: lo credevo morto, ma vedo che va riprendendo spirito.
Nel racconto di D. Michele eran corse parole dalle quali Pietraccio s’era accorto d’esser innanzi a chi egli invano quella sera era andato cercando. Il Valentino s'avvide che il ferito lo guardava in cagnesco, e con un viso stralunato che gli faceva dubitare stesse macchinando qualche cosa a suo danno, ed era per ordinare fosse buttato a’ pesci. D. Michele poi che, se si ricorda il lettore, aveva ascoltate nella prigione di S. Orsola le ultime parole della madre dell’assassino, e le raccomandazioni perchè cercasse di vendicarsi di Cesare Borgia, conobbe anch’esso osservandolo sott’occhio che stava per tentare qualche atto disperato. Il sicario del duca quantunque lo servisse perchè col suo appoggio faceva gran guadagno, non ostante avrebbe goduto se, senza scoprirsi e senza che sembrasse averne egli la colpa, gli fosse riuscito di fargli scontare un’antica ingiuria. Sarà facile al lettore l’immaginare qual fosse l’animo suo verso il suo signore allorchè sappia che la donna morta nei fondamenti della torre sotto gli occhi di D. Michele era sua moglie.
Quando, in conseguenza dell’incontro di Fieramosca coi compagni s’era trovato aver Pietraccio in poter suo, aveva messo insieme in fretta alcune idee, e come abbozzato un progetto di farlo servire a vendicarsi del suo signore, ma in così poco tempo non gli era venuto fatto di stabilire il modo, e senza aver nulla di fermo, pensava soltanto a coglier l’occasione se si presentasse, ed a questo punto vedeva avviarsi la cosa a seconda de’ suoi disegni. Di fatti alle ultime parole di D. Michele succedette un momento di silenzio, che bastò al giovane per eseguire un disperato proposito. S’alzò dal luogo ove stava e, passando accanto a D. Michele, il quale fece le viste d’averlo voluto trattenere e che gli fosse sfuggito di mano, si scagliò addosso al Valentino come una bestia arrabbiata, pensando valersi dell’ugne e dei denti per isbranarlo; ma il duca che era in sospetto si trovò pronto a riceverlo, e D. Michele aveva appena avuto tempo d’afferrar Pietraccio per le spalle, che già gli cadeva morto di mano, trafitto dal pugnaletto che portava il duca alla cintura, e che aveva saputo in quel momento usare con incredibil prestezza.
La cosa era succeduta in modo tanto istantaneo che i remiganti si volsero al rumore quando già tutto era finito, e, rimasti così sospesi, videro il Valentino che, rimettendo la daghetta nel fodero e spingendo col piede il cadavere ancor palpitante, ordinava che fosse buttato in mare.
— Pazzo, ribaldo!, esclamava D. Michele mostrandosi affannato pel pericolo corso dal duca: eppure nessuno mi leverà dal capo non fosse costui altr’uomo da quel che mostrava.... Lo trovai son pochi giorni nel fondo della torre qui del monastero, rinchiusovi con sua madre, ed eran stati presi ambedue dalla corte con una masnada d’assassini; la madre rimase morta per certe ferite che aveva toccate nel difendersi e, prima di render lo spirito, diede al figlio una collana dicendogli non so che novella.... ora sì mi ricordo.... dicendogli che l’avea avuta da un suo innamorato a Pisa.... Eppure.... aspetta, Rosso, prima di buttarlo a mare voglio vedere se ancora l’ha al collo. L’oro, se non altro, è meglio non vada in bocca ai pesci.
In così dire sfibbiato il giubbone davanti al giovane trovò la catena, e recatasela in mano la faceva vedere al duca che si mostrava tutto attento alle sue parole.
Non potè il Valentino esser tanto uguale a sè stesso da dissimulare l’improvviso turbamento che gli cagionò quella vista. Rimase un momento sopra di sè; e le mani, che unite reggevano la gemma pendente dalla collana, gli caddero sulle cosce come avessero perduta ogni forza. Si rimise seduto nel luogo ov’era prima, ordinando la seconda volta con voce tronca si gettasse a mare il cadavere. E volta la testa dall’altra parte conobbe che era stato tosto ubbidito, dal tonfo che udì nell’acqua, e dagli spruzzi che vennero nel battello: ristretta in pugno la catena, scagliolla lontano, e serratosi nel mantello, appoggiato il capo su una mano, ammutolì.
D. Michele, fingendo rispetto pei pensieri che occupavano il duca, si scostò sedendo fra gli uomini che conducevan la barca, e tutti in silenzio vogarono, nè s’udì più per tutto il viaggio che il leggero strepito dell’acqua che stillava da’ remi, quando eran alzati sul mare. Lo sgherro del Valentino ebbe una vendetta che nessuno al mondo aveva ottenuto forse mai da quell’uomo; riuscì a ridestargli nel cuore memorie che gli fecero provare certo che di simile al rimorso; a quel rimorso che spogliato d’ogni conforto somiglia alla disperazione dell’inferno. Fu gran vanto per D. Michele, che ne seppe conoscere ed assaporare il pregio. Dopo questi accidenti seguitando il loro viaggio giunsero al legno che li aspettava, e che fece tosto vela per ritornare in Romagna. Ma non terrem dietro altrimenti a questi ribaldi.