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228 | ettore fieramosca |
messosi perciò in seno la palla d’oro coll’atto non curante di chi dice, sarà quel che sarà, si diede a metter insieme le carte ed altre cose che dovea portar seco.
In pochi minuti tutto fu all’ordine. Ritornò a sedere come prima, e, per non saper che fare, si cavò di seno quella palla, cominciò a guardarla e riguardarla e farsela cadere da una mano nell’altra pensando al sacramento che conteneva, e a chi gliel’avea mandata; e poi via via da un’idea in un’altra alla religione di cui questi era capo, agli articoli di fede ch’esso pure avea creduti un tempo, al suo splendido stato, frutto della soggezione dei popoli all’autorità pontificia, e dopo avere schernita in cuore la credulità di tanti, e pensato «Io a buon conto me la godo alla barba di tutti», udiva una voce che uscendo cheta cheta di sotto quest’edificio di superbia, di violenza e d’irreligione, diceva «E se fosse vero?».
Il duca non volendo prestarle fede, nè potendo farla tacere, s’alzò con istizza, passeggiò per la camera, e fece alla meglio che potè per distrarsi. Tutto inutile. Quel — se fosse vero? — gl’incalzava, infestandolo, e togliendogli, se ardissi dirlo, il sapore degli onori, del potere, di tutti i beni che possedeva. Si buttò sul letto, cacciando il volto con rabbia fra i guanciali, e, dandosi del pazzo, riuscì a poco a poco a calmarsi. Gli si fecer gravi le palpebre, le chiuse, s’addormentò.
Ma nel sonno il corso delle sue idee rimanendo nella medesima direzione, gli parve esser in Roma sulla strada che da castello va a S. Pietro. Il cielo, la terra erano sconvolti: tutto diverso, tutto pieno di tenebre e d’urli. Egli si spingeva per correr in San Pietro, e non poteva, ed ansava affannato: gli parve d’esser tenuto, guardò intorno: erano tutti coloro che aveva traditi, assassinati, avvelenati, e l’a-