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capitolo xvi. 233

perciò senza rispondere guardando il duca tutta tremante come avrebbe guardato un tigre che la tenesse fra gli artigli, e che non le sarebbe neppur venuto in capo di voler intenerire colle parole.

— Ora che sai chi io mi sia, seguì a dire il duca, pensa se dovresti aspettar da me compassione; pure potrei piegarmi a non far su di te la vendetta che dovrei e potrei. Ma ad un patto, Ginevra, che facci senno; e ti so dire che n’hai mestieri.

Queste meno aspre parole non potettero non ridestare nel petto della donna una favilla di speranza, e colle mani giunte, procurando di non mostrare nel guardarlo il ribrezzo che ne sentiva, si pose a pregarlo come si prega la Croce, che non volesse opprimere una femminella già troppo misera ed infelice.

— Io vi prego, signore, per le piaghe di Gesù, per quel giorno in cui ancora voi, benchè tanto potente in terra, vi troverete anima ignuda al cospetto del Giudice eterno... Se aveste mai donna che vi fosse cara, dite, se si trovasse in mano altrui, e domandasse invano misericordia, se vostra madre, se vostra sorella fosse posta al passo in che mi trovo io, e pregassero, e pregassero invano, gridereste vendetta al cielo, non è egli vero, contro chi avesse loro fatto oltraggio?

Queste parole, che univano l’idea della virtù e dell’onestà coi nomi della Vannozza e di Lucrezia Borgia, mossero alquanto a riso il Valentino, che ne sapea qualche cosa. Ma fu un riso sinistro che a Ginevra accrebbe la paura: pure seguitò la sua preghiera mutandosele a poco a poco pel pianto la voce mentre parlava, onde poi a stento fra la piena de’ singhiozzi furon udite l’ultime parole: — Io sono una meschina femminuccia: qual bene, qual gloria può trovare un potente signore qual siete voi a vendicarsi di me? Chi sa che non venga un momento in cui la