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cute e sulla faccia specialmente; ed allora la livida pallidezza del suo volto si cangiava in un rosso spugnoso pieno di bolle, dalle quali stillava umore, e la schifosa deformità del suo viso era tale da metter ribrezzo anche nelle persone che di continuo gli stavano vicine; nè un’anima simile alla sua poteva vestirsi d’una forma che più ne facesse il ritratto. Per la vita sedentaria menata in quei giorni tanto contra il suo solito, e per virtù della primavera s’erano sprigionati quegli umori infetti con grandissima forza deturpandogli più che mai i lineamenti, ed inducendo in tutto il suo essere una inesplicabile ed irrequieta rabbia, conseguenza ordinaria di tali malanni.

Verso le due ore, quando nelle sale al disopra stava cominciando il ballo, la porta della camera del duca fu spinta leggermente ed aperta da un uomo vestito di calzoni rosso-oscuro stretti alla carne, d’una cappa che gli giungeva a mezza coscia, con un cappuccio nero sugli occhi, spada, pugnale, ed un involto sotto braccio. Il Valentino alzò il viso, e colui entrando facendo riverenza deponeva sulla tavola l’involto senza che da nessuno dei due venisse profferita parola: messa il duca una mano sull’involto diceva al messo:

Stanotte mi leverò di qui: va nell’ultima di queste camere, chiudiviti, e per cosa che ascolti, non venir se non ti chiamo.

L’uomo uscì per la porta in faccia a quella dalla quale era entrato, e Cesare Borgia trattosi d’accanto un pugnaletto che radeva tagliò i cordoni di seta vermiglia che coi sigilli apostolici legavano una lettera in carta pecora che gli scriveva papa Alessandro. Nell’aprirla uscì dall’interno rotolando sulla tavola, un globetto d’oro; alla vista del quale il duca balzò in piedi con sospetto; e guardando più attentamente i sigilli e lo scritto, si veniva rassicurando e si riponeva a sedere.