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capitolo xvi. 229

vean pe’ capelli e per le carni, con un gridar lungo e disperato.

Dopo, senza saper come, era in San Pietro, in un caos inenarrabile, bujo, pieno di pianti, fra lo scuotersi delle mura, l’aprirsi delle tombe, il vagar delle larve; ed egli, sempre straziato dalle sue vittime che gridavan «Giustizia di Dio!» pensava, questo è dunque il Giudizio che non volevo credere!

E tirava alla disperata per andar innanzi, e cercar rifugio presso al papa che vedeva in fondo sul suo trono fra una luce pallida e fioca. Ma l’impedivano di qua il fratello, duca di Candia, colle ferite aperte, che invece di sangue gemevano una linfa corrotta, e colla forma turpe e gonfia d’un cadavere imputridito sott’acqua, di là il duca di Biselli, e Astorre Manfredi, e donne, e fanciulli, che tutti piangendo stendevano le braccia al papa gridando giustizia e vendetta! Il papa era chiuso in un gran piviale nero col regno in capo. Il viso grasso, vizzo, cascante d’Alessandro VI era giallo come quello d’un cadavere; la sua figura si venne alzando lenta lenta, come rizzandosi in piedi, le grida e i pianti furono coperti da uno scroscio di risa infernali uscito dalla bocca del pontefice: «Cristo, la Fede, i Papi.... tutte impoture» e questa ultima parola suonò sotto la vôlta della chiesa come un lungo ululato.

Il duca n’avea ancor pieni gli orecchi, e già era cogli occhi aperti, seduto sul letto, e svegliato del tutto.

Rimase un momento sbigottito, ma questo sogno rese però in lui più ferma la scellerata opinione, che poteva commetter qualunque delitto senza timor del castigo in un’altra vita.

Mentre si rinfrancava con questo pensiero (eran sonate le tre ore da pochi minuti), il ronzìo del parlare di tante persone, i suoni, le grida d’allegrezza