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230 | ettore fieramosca |
che scendevano dal piano superiore della rôcca giugnevano deboli per la grossezza delle vôlte in quel piano terreno, allorchè quello stesso grido, che avea interrotto il colloquio di D. Elvira e Fanfulla, fu udito dal duca molto più vicino e quasi venisse di dietro all’uscio suo, il quale metteva s’un poco di rena secca che si trovava tra il mare e i fondamenti del castello. Uscì a vedere chi l’aveva mandato, e non vide che un battello vuoto la cui prora solcando la sabbia s’era fermata a riva; guardò su alla loggia ed alle finestre, e non vide alcuno: stava per rientrare nella sua camera, pure fece alcuni passi avvicinandosi al battello, ed allungando il collo sopra gli orli vi trovò nel fondo distesa una donna che col capo all’ingiù fra le due mani tratto tratto si lamentava. Dopo un primo movimento di sorpresa subito si rivolse, ed entrato nel battello, postole un braccio sotto le ascelle, e coll’altro alzandola alle ginocchia, la levò di peso, e tramortita come era, la portò dentro e la depose sul letto. Ma qual fu la sua maraviglia quando, accostatole il lume per vederla in viso, conobbe Ginevra! Gli era troppo rimasto impresso quel volto per poter negar fede ai suoi occhi, ma come indovinare per quale strano accidente gli venisse ora in mano così sola, ed a quel che pareva avendo ingannate le insidie di D. Michele?
Di qui innanzi, diceva fra se stesso, voglio credere almeno vi sia il diavolo. Altri che un diavolo amico non potea servirmi tanto a piacer mio. E posato il lume s’una piccola tavola accanto al capezzale, seduto sulla sponda del letto, studiava i moti del viso di Ginevra, per cogliere il momento in cui si fosse risentita; il piacere di potersi goder finalmente una vendetta lunga, dolorosa, gli accendeva gli occhi di una fiamma scorrente a guisa di scintilla elettrica fra ciglio e ciglio, e le macchie che le deturpavan il volto