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capitolo xvi. 231

parea ribollissero tingendosi di un colore quasi sanguigno. Certo la faccia d’un uomo, mettendo insieme la deformità fisica, con quella che induce nei lineamenti l’espressione del delitto, non s’era mostrata mai sotto un aspetto più orrendo. Da un lato Ginevra pallida, immobile, col dolore scolpito in viso, con una mossa tutta abbandonata e languente, dall’altro il Valentino, quale l’abbiamo descritto, formavano un quadro troppo doloroso e compassionevole. Stettero ambedue in questa situazione immobili lungo tempo: potè dirsi felice Ginevra finchè i suoi sensi smarriti, le palpebre abbassate le tolsero la conoscenza del luogo ove si trovava, e la vista di quello che oramai era assoluto padrone di lei; ma durò poco questo fortuna, e da qualche moto leggiero s’avvide Cesare Borgia che la sua vittima stava per aprir gli occhi. In quel luogo ed a quest’ora era certissimo che nessuno poteva impedirlo: il gridare sotto quelle vôlte mentre la festa era nel maggior calore, non sarebbe stato udito. Trovandosi dunque sicurissimo, propose in cuor suo, poichè gli avanzava il tempo, di goder senza fretta d’una fortuna tanto feconda.

Finalmente un sospiro profondo uscì dal petto della giovane, e fece alzare i veli che lo coprivano. Aprì un momento li occhi, e tosto li richiuse. Li aprì la seconda, la terza volta, poi cominciò a fissarli nel volto che si vedeva star sopra immobile e sconosciuto, ma lo vedeva materialmente soltanto, senza che la mente ricevesse nessuna idea da quella vista: pure i suoi occhi non potendo reggere all’immagine di quel viso sfigurato, si volsero altrove lentamente con un moto così languido che avrebbero messo compassione in ogni altro. Nel tornarle a poco a poco il senso, la prima memoria che la percosse fu quella di Fieramosca sulla loggia ai piedi di D. Elvira.

— Oh Ettore! — disse articolando appena le sillabe.