Elena (Euripide - Romagnoli)/Primo episodio
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coro
Doglie, lo so, t’ambasciano; ma pure,
con rassegnato cuor devi gli eventi
della vita soffrire.
elena
A qual destino
aggiogata non fui? Forse mia madre
mi partorí, perché fossi prodigio
fra gli uomini? E qual donna Ellèna o barbara
un bianco nido di pulcini simile
a quello partoriva, in cui, raccontano,
Leda mi generò, poi che da Giove
m’ebbe concetta? La mia vita e tutti
gli eventi miei sono prodigio, alcuni
per cagion d’Era, e d’altri, ne fu causa
la mia bellezza. Oh, se potessi perdere,
come un quadro, le tinte, e una parvenza
piú brutta invece della bella assumere,
e le tristi venture in cui m’avvolgo
dimenticasser gli uomini, e le buone,
come or le tristi, invece ricordassero!
Ché se qualcuno è dagli Dei colpito
in un sol punto di sua sorte, è grave,
ma sopportabil male. Invece, a molti
mali soggetta io sono: il primo è ch’io
non ho fallito, e trista è la mia fama;
e questo è mal del vero mal piú grave,
chi senza meritarlo un mal sopporta.
Poi, dalla patria a barbari costumi
qui mi trassero i Numi; e senza amici
schiava mi trovo, eppur nacqui da liberi:
ché tranne un sol, son tutti schiavi i barbari.
E l’àncora che sola il mio destino
reggeva ancora, la speranza che
ritornasse il mio sposo, e mi strappasse
da questi mali, ora è perduta: è morto
lo sposo mio, lo sposo non è piú:
morta è la madre: ed io fui l’assassina:
si dice a torto, eppur si dice; e quella
ch’era ornamento della casa e mio,
la mia figliuola, incanutisce, priva
di nozze, ancora; e son morti i Dïoscuri,
ch’ebber nome da Giove: ogni sciagura
su me s’abbatte, e i casi, e non già l’opere
mie, m’han ridotta a morte. E questa è l’ultima:
ch’or, se in patria giungessi, io dalla casa
sarei scacciata, perché credon ch’Elena
con Menelao sia morta in Ilio. Se
fosse vivo lo sposo, riconoscermi
facil sarebbe, grazie ai contrassegni
che soli noi conoscevamo. Adesso
egli è perduto, e ciò non è possibile.
A che piú vivo? A qual sorte mi serbo?
Le nozze eleggerò che ai mali un termine
pongano, e sederò vicino a un barbaro
marito a ricca mensa? Oh, se sgradito
è lo sposo alla sposa, amaro sembra
anche securo stato. Il meglio è morte.
Ma quale morte bella esser potrebbe?
Sconcio è restar sospesa in aria, turpe
sin tra i servi si stima. Invece, nobile
e bello par trafiggersi, e in un attimo
scinder le membra dalla vita, quando
in tanto abisso rovinai di mali.
Ché l’altre donne per la lor bellezza
sono felici, ed io ne muoio, invece.
coro
Elena, non pensar che quel foresto,
quale ch’ei sia, tutto abbia detto il vero.
elena
Disse pur chiaro che lo sposo è morto.
coro
False molte parole esser potrebbero.
elena
E vere quelle che il contrario affermano.
coro
Il male piú che il ben t’induci a credere.
elena
Terror mi cinge, ed a temer mi guida.
coro
Quando a quei della casa accetta sei?
elena
Tranne chi mi vuol sposa, tutti m’amano.
coro
Sai tu che devi far? Lascia quel tumulo.
elena
A qual detto t’appresti? A qual consiglio?
coro
Rientra in casa, e a Teonòe, la vergine
che tutto sa, della Nerèide figlia,
chiedi se vive ancora, o se la luce
abbandonò lo sposo tuo. Saputolo,
come al caso convien, piangi od allégrati.
Ma qual vantaggio avrai tu mai, finché
nulla di certo ancor sai, dal crucciarti?
Credimi, lascia quella tomba, e incóntrati
con la fanciulla: tutto ti dirà.
E quando in questa casa il vero apprendere
puoi, che piú cerchi? E teco entrare anch’io
voglio, e i responsi udire della vergine.
Poi che deve una donna aiutar l’altra.
elena
O amiche, persuasa
fui dal vostro consiglio.
Entrate or nella casa,
entrate, affin ch’edotte
siate delle mie lotte.
coro
M’inviti a ciò ch’io voglio.
elena
Ahimè, giorno di scorno,
qual dovrò udire, o misera,
parola di cordoglio!
coro
A che, diletta, i lai
anticipare pei temuti guai?
elena
Che avvenne, ahimè, del misero
sposo? Vede egli il raggio,
scorge del sole il cocchio,
è delle stelle i tramiti,
o tra i morti ha di tenebre
sotterraneo retaggio?
coro
Fa’ sempre buoni auguri
per gli eventi futuri.
elena
Io te scongiuro, te invoco, molle
Eurota, dove cresce la canna
verde, se questa fama che volle
spento lo sposo mio non m’inganna.....
coro
Questa oscura parola, che dice?
elena
Un laccio alla cervice
stretto, un sanguíneo balzo spiccherò,
od un urto di spada
nelle mie membra spingerò — contesa
dal mio ferro a me stessa, onde il mio sangue
giú dalla strozza cada,
offerta alle tre Dive
ed al figliuol di Priamo
che la sampogna un giorno
suonar faceva ai suoi presepî attorno.
coro
Fugga altrove la trista
sorte; e te la Fortuna ognora assista.
elena
Ahimè, misera Troia,
che per fasti nefasti
doglie patisti ed in rovina andasti!
E il dono che di me ti fece Cípride,
generò molto sangue e molte lagrime,
cruccio su cruccio, lagrime su lagrime,
doglie su doglie,
e madri i figli persero,
e vergini deposero
le chiome presso i vortici
dello Scamandro Frigio
per gli estinti parenti, e tutta l’Èllade
un grido un grido, fe’ suonare, un ululo,
e cacciò nei capelli
le mani, e di sanguinei
colpi con l’unghie rigò la guancia.
O nell’Arcadia un tempo beata fanciulla, o Callisto,
tu che con quattro piedi salisti il giaciglio di Giove,
avventurata quanto sei stata piú tu di mia madre,
che sotto forma di fiera villosa
da te scotesti le fitte del duolo!
Quella beata che Artemide un giorno
dalle sue danze scacciò, perché troppo era bella,
dandole forma di cerva dalle auree corna, la figlia
titana di Mèrope. — Invece
la mia bellezza distrusse
le torri di Dardano, gli Achei sventurati.
Entra nella reggia.
Il coro abbandona l’orchestra.
Entra Menelao, in sordide e lacere vesti. Procede spaurito e guardingo.
menelao
O tu che a Pisa un dí contro Enomao
con le quadrighe gareggiasti, o Pèlope,
deh, se quel dí che t’inducesti a offrire
ai Numi un pasto, abbandonata avessi
la vita, pria di generare Atrèo,
il padre mio, che dal giaciglio d’Èrope
Agamènnone e me, Menelao, s’ebbe,
fulgida coppia: ché gran gesta io reputo,
e non è vanto il mio, tutto un esercito
sopra le navi a Troia aver condotto,
non qual sovrano a forza conducendolo,
ma comandando a giovani dell’Ellade
di lor grado venuti. E puoi far novero,
di que’ che piú non son, di quei che al pelago
lieti sfuggiti, recano alle case
dei cadaveri i nomi. Ed io, sul glauco
estuare del mar vo’ errando, misero,
dal giorno che le torri abbattei d’Ilio,
e alla patria tornar bramo, ed i Numi
di questa grazia degno non mi stimano.
E gli approdi deserti inospitali
di Libia, tutti ho navigati, e quando
vicina era la patria, ecco di nuovo
mi respingeva il vento, e mai propizia
fu sí la vela, ch’io tornassi in patria.
Ed ora fui, senza compagni, naufrago,
misero me, gittato a questa spiaggia.
Ché la mia nave si sfasciò, cozzando
contro le rupi in mille pezzi: sola
restò, fra tante sue varie compagini,
la chiglia, e sopra a quella, a stento, e contro
ogni speranza, mi salvai con Elena,
che da Troia strappai, che con me reco.
Come si chiami questa terra e il popolo,
non so: ché fra la gente ebbi pudore
di mescolarmi ed informarmi, e ascosi
la sorte delle mie povere vesti,
per la vergogna. Un uom d’alto lignaggio,
se la miseria sopra lui s’aggrava,
in disagio si trova anche maggiore
di chi fra stenti lungo tempo visse.
Pure, il bisogno mi costringe: ch’io
cibo non ho, né vesti che mi coprano,
e argomentare ben si può da questi
cenci di vele ch’io cingo: ché i pepli
d’un tempo, e i manti belli e gli ornamenti,
me li ha rapiti il mar. Lasciai la donna
che causa fu d’ogni sciagura mia
negli anfratti dell’antro, e quanti vivono
dei miei compagni, ancora, a sua custodia,
e solo venni a questa parte; e cerco
se modo c’è che pei compagni miei
che ho lasciati laggiú, trovi il viatico.
E come vidi questa casa tutta
coronata di fregi, e le opulente
porte d’un ricco, m’appressai: ché nutrono
d’ottenere alcunché speme i nocchieri
dalle case dei ricchi. Aver da quelli
che non han nulla... pur se lo volessero,
aiuto darti non potriano.
Picchia all’uscio.
Ehi là,
dalle porte verrà qualche custode,
che a quei di casa i miei malanni annunci?
Esce una vecchia ancella.
vecchia
Chi picchia all’uscio? Allontanar ti vuoi
da questa casa, e non restare innanzi
alla porta di strada, a infastidire
i padroni? Sei greco, e non t’è lecito
ronzar qui attorno; o risichi la vita.
menelao
Le stesse cose dir potresti, o vecchia
con garbo. Ubbidirò; ma prima ascoltami.
vecchia
Vattene presto: ho l’ordine che a questa
casa nessun degli Èlleni s’appressi.
Prende per un braccio Menelao, e cerca di allontanarlo.
menelao
Ehi, giú le mani; e non cacciarmi a forza.
vecchia
Tu l’hai voluto! Ché non m’obbedisci?
menelao
Reca dentro l’annunzio ai tuoi padroni.
vecchia
Per te sarebbe amaro annunzio, credo.
menelao
Naufrago, ospite sono, invïolabile.
vecchia
Ad altra casa e non a questa, volgiti.
menelao
Anzi, qui voglio entrare; e tu consentilo.
vecchia
Sai che mi secchi? Ora ti scaccio a forza.
menelao
Ahi! Dove sono i miei preclari eserciti?
vecchia
Lí forse eri possente; ma qui no.
menelao
Come a torto spregiato io sono, o Dèmone!
vecchia
Bagni il ciglio? Perché? Perché t’attristi?
menelao
Pel mio stato che un giorno era felice.
vecchia
Sfratta, e agli amici reca le tue lagrime.
menelao
Qual terra è questa? E di chi questa reggia?
vecchia
Abita Pròteo qui: l’Egitto è questo.
menelao
L’Egitto? Ahi, dove, misero, approdai!
vecchia
Perché del Nilo le fluenti biasimi?
menelao
Non le biasimo: piango la mia sorte.
vecchia
Molti sono infelici, e non tu solo.
menelao
Quegli che tu signore chiami, è in casa?
vecchia
Il suo sepolcro è questo: il figlio or regna.
menelao
E dov’è? Fuor di casa, oppure in casa?
vecchia
Non in casa; agli Ellèni è nimicissimo.
menelao
Qual n’è la causa, ond’io debbo patire?
vecchia
Elena abita qui, di Giove figlia.
menelao
Che dici? Qual parola mai? Ripetila.
vecchia
Quella che a Sparta visse, la Tindàride.
menelao
Che discorso è mai questo? E donde giunse?
vecchia
Venne qui dalla terra lacedèmone.
menelao
Quando? Rapita me l’avran dall’antro?
vecchia
Prima che a Troia andassero gli Achivi.
Ma tu fuggi, foresto: una vicenda
in questa casa volge, ond’è turbata
tutta le reggia: in tristo punto arrivi;
e se il padrone qui ti coglie, il tuo
dono ospital sarà la morte. Ch’io
son benevola ai Greci, anche se amari,
per timor del sovrano, i detti furono.
menelao
Che dico? Che dirò? Tristi sciagure
queste ch’ora, oltre le trascorse, ascolto,
se giungo qui, conducendo la sposa
presa a Troia, e nell’antro or custodita,
e un’altra donna, ch’ha lo stesso nome
della mia sposa, in questa casa alberga.
Disse che figlia ella è di Giove. O forse
sulle rive nel Nilo un uomo c’è
ch’abbia il nome di Giove? In Cielo c’è
un solo Giove. E dove un’altra Sparta
c’è sulla terra, se non dove corrono
d’Eurota i rivi fra i canneti belli?
È di Tíndaro il nome unico anch’esso;
ed altra terra v’è, che Lacedèmone
si chiami o Sparta? Io che mi dir non so.
Nell’ampia terra, a quanto pare, han molte
donne e molte città lo stesso nome.
Stupir di nulla non bisogna; e in fuga
mettermi non potrà lo spauracchio
d’una fantesca. Uomo non v’è sí barbaro,
che, all’udire il mio nome, un po’ di cibo
rifiuti a me: di Troia il fuoco è celebre,
ed io quel Menelao son che l’accese,
noto per tutto il mondo. Attenderò
della casa il signore. Un mezzo duplice
ho di schermirmi: ov’egli un crudo sia,
celato mi terrò, ritornerò
ai resti della mia nave: se poi
segno darà d’intenerirsi, quello
che giovare mi possa in tali eventi
gli chiederò. Per me tapin, l’estremo
questo è dei mali, che a tiranni debba,
io, che pure son re, chiedere un pane.
Ma pure è necessario: ed è sentenza
dei sapïenti e non già mia, che della
necessità forza maggior non c’è.
Elena ed il Coro tornano in scena. Menelao si fa in disparte.
coro
Dalla fatidica fanciulla ho udito
che profetando giunse alla reggia,
che Menelao non scese
ancor nell’Èrebo negro, e la terra
non ancor lo nasconde;
ma del mar sopra l’onde
vessato, della patria
non giunse ai porti, ed erra
misero, e senza amici.
Il suo remo viaggia,
da quando ei lasciò Troia,
e approda ad ogni spiaggia.
elena
si dirige verso la tomba di Pròteo.
Al seggio io vengo ancor di questo avello,
ché grate nuove udite ho da Teònoe,
che tutto il certo sa. Dice che vive
lo sposo mio, che vede ancor la luce,
ma navigando va di qua, di là,
per mille e mille vie di mare, e quando
toccato avrà delle sue pene il termine,
tornerà, dopo avere a lungo errato.
Solo una cosa non m’ha detto: se,
giunto che sia, potrà salvarci. Ed io
dal chiaramente chiederlo m’astenni,
pel gaudio ch’ebbi di sentirlo salvo.
E disse ch’era a questa terra presso
con pochi amici ivi piombato naufrago.
Ahimè, verrai? Desiderato quanto
qui giungeresti!
Menelao esce dal luogo dove era nascosto, e si dirige rapidamente verso di lei, cercando di afferrarla.
Ahimè! Costui chi è?
Forse un’insidia tesa a me, dell’empio
figliuol di Pròteo pel volere è questa?
Il piede mio non lancerò, di rapida
giumenta al pari, o di Baccante invasa,
sopra il sepolcro? Di selvaggio aspetto
è ben costui, che d’afferrarmi cerca.
menelao
Tu che t’affretti del sepolcro al plinto,
con tanta furia, e alle focacce sacre,
resta: che fuggi? Oh, come in me, mostrandoti,
stupore infondi, e mutolo mi rendi!
elena
Forza, amiche, mi fan! Via dall’avello
quest’uom mi strappa, e consegnarmi vuole
al signore di cui fuggo le nozze.
menelao
Non ladro, e non di tristi io son ministro.
elena
Eppur, la veste che tu indossi è sconcia.
menelao
Il piè rapido arresta, e non temere.
elena
M’arresto, poi che già tocco il sepolcro.
menelao
Chi sei? Qual viso è il tuo che veggo, o donna?
elena
E tu chi sei? Ciò che tu chiedi io chiedo.
menelao
Tanta rassomiglianza io mai non vidi!
elena
O Dei! Ch’è veder Dio veder gli amici.
menelao
Ellèna sei tu, donna, o sei di qui?
elena
Ellèna. E tu? Voglio saperlo anch’io.
menelao
Simile in tutto ad Elena a me sembri.
elena
E a Menelao tu a me. Non so che dire!
menelao
Sí, tu vedi quell’uomo infelicissimo.
elena
Oh dopo tanto alla tua sposa giunto!
menelao
A quale sposa? Non toccarmi il peplo!
elena
Quella che a te diede mio padre Tíndaro.
menelao
Benigni a me fantasmi, Ècate, invia!
elena
Notturna ancella non sono io d’Enòdia.
menelao
Di due donne marito esser non posso.
elena
D’un altra donna sei signor? Di quale?
menelao
D’una dai Frigi addotta. Ora è nell’antro.
elena
Non esiste, me tranne, altra tua sposa.
menelao
Distolto il senno ho forse? O gli occhi falsi?
elena
Veder tua moglie non ti par, guardandomi?
menelao
L'aspetto, sí. Ma chiaro è che non sei.
elena
Guardami! Hai duopo di piú chiara prova?
menelao
Sembri lei: ciò negar non è possibile.
elena
Meglio degli occhi tuoi chi può convincerti?
menelao
Ho un’altra sposa. Questo è il punto debole.
elena
Quella è un fantasma: a Troia io non andai.
menelao
E chi foggiar può mai vive parvenze?
elena
L’ètra, onde i Numi a te la sposa estrussero.
menelao
I Numi? Cose tu dici incredibili!
elena
Era: e invece di me la diede a Paride.
menelao
E come a Troia eri ad un tempo, e qui?
elena
Il corpo non potrebbe: il nome sí.
menelao
Lasciami: i mali che qui addussi bastano.
elena
Tu mi lasci, e di moglie un’ombra adduci.
menelao
E salve, poiché tu somigli ad Elena.
elena
Perduta son! Ti trovo, e insiem ti perdo.
menelao
Non tu: ciò che patii là mi convince.
elena
Ahimè, qual donna c’è di me piú misera?
Chi piú m’è caro, m’abbandona: gli Èlleni
mai piú non rivedrò, né la mia patria.
Menelao sta per uscire, quando arriva un Nunzio.
nunzio
A gran fatica, poi ch’errai per tutta
questa barbara terra, o Menelao,
ti trovo: i miei compagni m’inviarono.
menelao
Che c’è? Su voi piombâr predoni barbari?
nunzio
Un prodigio: e tal nome è men che il fatto.
menelao
Parla: novi il tuo zelo eventi adduce.
nunzio
Vani fûr dico, i tuoi travagli innumeri.
menelao
Piangi cordogli antichi. Or via, che annunci?
nunzio
La tua sposa partí, fatta invisibile:
a vol pei seni si levò dell’ètere,
nascosta è in ciel. L’oscuro antro dov’era
da noi guardata, abbandonò, dicendo:
«Oh Frigi tutti e Achivi infelicissimi,
per me periste, per le trame d’Era,
sullo Scamandro; e Paride credeste
ch’Elena avesse, e non l’aveva; ed io,
poi che il fato compiei, rimasta il tempo
che bisognava, al Cielo padre torno.
Ebbe cosí la misera Tindàride
sinistra fama, e in nulla fu colpevole.
Si accorge di Elena, e rivolge la parola a lei.
Figlia di Leda, tu? Salve. Qui dunque
eri? E fra i seni delle stelle io te
annunzîavo ascesa! e non sapevo
che alato fosse il corpo tuo! Ma ora,
non consento che tu ci crucci ancora,
quando già troppo sotto Ilio infliggesti
pene al tuo sposo e ai suoi compagni d’armi.
menelao
Stringe Elena tra le braccia.
Dunque è cosí: collimano i discorsi.
Il vero essa m’ha detto. Oh dolce giorno,
che mi concede fra le braccia stringerti!
elena
O Menelao, piú d’ogni altro uom diletto,
lunga l’attesa fu, recente il gaudio.
Canta.
Lo sposo, amiche, lo sposo è qui:
lieta lo abbraccio, ché grande e fulgido
or brilla, dopo l’assenza, un dí.
menelao
Ed io te. Tante cose avrei da dirti,
né so da quale cominciare io debba.
elena
Canta.
M’allegro, eppure le chiome s’ergono
sul capo, e lagrime verso, e ti getto
le braccia al collo, ne attingo gaudio,
sposo diletto.
menelao
Deh cara vista! Non io recrimino,
poi che di Giove, di Leda, al cuore
stringo la figlia, che pria cantarono
felice, delle faci al bagliore,
i due frateili dai corsier’ candidi.
Dalla mia casa gli Dei ti rapirono;
ma a sorte di quella
migliore ti spinge la forza celeste.
elena
Prima il mal, poscia il bene, mio consorte, ci annoda:
dell’esito prospero,
sia pur cosí tardo, ch’io goda.
menelao
Godi: e poiché due siamo, anch’io dirò:
non sia l’uno felice e l’altro no.
elena
Amiche, amiche, le antiche lagrime
bastano, bastano gli antichi affanni:
lo sposo abbraccio mio, che da Troia
attesi attesi tanti e tanti anni.
menelao
Tu mi abbracci io t’abbraccio. Oh, dopo quanto,
compresi, a stento, della Dea l’inganno!
Or le mie lagrime sono di gioia,
non piú d’affanno.
elena
Che dir? Chi mai potuto avrebbe crederlo?
Non t’attendevo, e stretto — pur ti tengo al mio petto.
menelao
Ed io te, che credea venuta ai tristi
spalti di Troia e alla città dell’Ida!
Ma dalla casa mia come partisti?
elena
Ahi, ahi che amari principî riandi,
ahi ahi, che amara ventura dimandi!
menelao
Di’: ciò che i Numi diêr tutto udir voglio.
elena
Ciò che dir ti dovrò — mi fa ribrezzo!
menelao
Pur di’: ché udire il mal passato è dolce.
elena
Di giovinetto barbaro al talamo
con vol di remi, con vol di brame
io già non mossi, d’imene infame.
menelao
Qual Dio ti rapí dunque, qual sorte al patrio asilo?
elena
Di Giove il figlio, di Giove il figlio
me trasse al Nilo.
menelao
E chi mai l’inviò? Strano prodigio!
elena
Piansi, e di lagrime pur bagno il ciglio:
di Zeus la sposa me rovinò.
menelao
Era? E perché ci volle a crudo esizio?
elena
O sciagure! O lavacri e sorgenti
ove le Dee piú fulgida
reser la mia bellezza, per cui surse il giudizio!
menelao
Ed Era perché mai volle il tuo danno?
elena
Per tôrmi a Paride....
menelao
Toglierti? Oh di’.....
elena
A cui promessa Cipri m’avea.
menelao
Misera!
elena
Misera, misera! M’addusse qui.
menelao
E in cambio un’ombra, m’hai detto, gli die’.
elena
E nel tuo tetto, cordogli cordogli,
o madre, ahimè...
menelao
Che odo!
elena
Non ho piú madre: per quest’adultera,
mortale al collo si strinse un nodo.
menelao
Ahi! Ma pur viva è la figliuola Ermíone?
elena
Priva di sposo, di figli priva,
per queste effimere nozze languiva.
menelao
Tu che la casa mia dal piede ai vertici,
o Pàride, struggesti,
te stesso e mille e mille Dànai strussero
questi eventi funesti.
elena
E me, la misera, la maledetta
da te, dai Lari paterni il Dèmone
scacciò quel giorno
che il mio tetto, che il mio letto,
senza lasciarli, lasciai, per simili
nozze di scorno.
coro
Pur se felici d’ora innanzi vivere
doveste, i mal’ sofferti assai già furono.
nunzio
Finora s’era tenuto in disparte, senza intender bene ciò che avveniva. Ora si avanza.
Oh Menelao, la gioia accomunate
con me: ché io la vedo e non l'intendo.
menelao
Anche tu, vecchio, il nostro dir partecipa.
nunzio
Del mal d’Ilio costei non fu la causa?
menelao
Non fu: di nebbia una funesta immagine
d’accanto avemmo; i Numi c’ingannarono.
nunzio
Che dici?
Le nostre pene fûr per una nuvola?
menelao
Era e la gara di tre Dee ciò fecero.
nunzio
E questa, dunque, è la tua vera sposa?
menelao
È questa: fede a ciò ch’io dico presta.
nunzio
Deh, come, o figlia, è cosa imperscrutabile
e cangevole, il Dio! Come ci avvolge,
ci trascina qua e là: questi patisce,
senza patire va l’altro in rovina,
e certezza non ha mai della sorte.
Tu con lo sposo tuo travaglio aveste,
tu per la fama tua, quegli nell’impeto
delle battaglie. E s’affannò, né nulla
ottenne, mentre s’affannava; e adesso,
quando piú non cercava, a lui spontaneo
il bene arriva e la fortuna. Dunque,
al vecchio padre, a Càstore, a Polluce,
onta non arrecasti, e non compiesti
ciò che narra la fama! Or le tue nozze
evoco nuovamente, or mi ricordo
delle faci che presso alla quadriga
io correndo recavo; e tu sul cocchio
lasciavi accanto a lui, sposa novella,
la tua casa opulenta. Oh tristo chi
non onora i padroni, e non gioisce
con loro, e ai loro mal’ non si rammarica.
Per me, sebbene schiavo a luce io venni,
annoverato essere vo’ tra i nobili
servi, e di nome pur non esser libero,
ma sí di cuore: è meglio ciò, che due
mali patire, essendo uno: dovere
servire ad altri, e aver maligno il cuore.
menelao
O vecchio, tu che assai fatiche in guerra
per me patisti, assai travaglio, adesso
di mia nuova fortuna anche partecipe,
ai miei compagni récati, ed annuncia
tutto ciò che vedesti, e la mia sorte;
e che restino al lido, e quivi attendano
le prove, che, son certo, ancor m’attendono,
e se rapir potrò costei, procurino
che, d’una sorte ugual resi partecipi,
sfuggiamo, ove si possa, a questi barbari.
nunzio
Signore, obbedirò. Ma bene ho visto
quanto son vani e di menzogna pieni
i responsi dei vati. Ombra di vero
dunque non c’è nel fuoco degli altari,
degli uccelli nel canto. È stolto credere
che gli uccelli giovar possano agli uomini!
Quando Calcante i suoi compagni vide
a morte andar per una nube, tacque,
nulla disse alle schiere: Èleno tacque,
e per un’ombra fu Troia distrutta.
Forse dirai che non lo volle il Nume.
Ma cercare profeti allor che giova?
Dai Celesti impetrar conviene il bene
coi sacrifizi, e abbandonar gli oracoli.
Vana e dannosa invenzïon fu questa.
Niun infingardo mai ricco divenne
grazie alle fiamme degli altari: il senno
è il profeta migliore, e il buon consiglio.
coro
Il mio parer sugli indovini, è simile
a quel del vecchio: l’uom ch’abbia propizi
gli Dei, l’ottimo in casa ha degli oracoli.
elena
Tutto sin qui procede bene. E come
salvo da Troia, o misero, tornasti,
poco giova saperlo: eppur, conoscere
braman gli amici degli amici i mali.
menelao
D’una sola parola e d’un sol passo
molte cose tu chiedi. E a che ridirti
i näufragi dell’Egèo, di Nauplio,1
i fuochi su l’Eubèa, di Creta e Libia
le città dove m’aggirai, di Pèrseo
i promontorî? Il mio discorso fine
mai non avrebbe: soffrirei parlando,
soffrii di fatto: e avrei duplice angoscia.
elena
Meglio parlasti ch’io non chiesi. Dimmi
sola una cosa, e lascia il resto: quanto
tempo, a rovina, sopra il mare errasti?
menelao
Sette volgere d’anni oltre a quei dieci
trascorsi in Troia, vanamente errai.
elena
Ahi ahi! Dicesti un lungo tempo, o misero!
E, di lí salvo, qui pervieni a morte.
menelao
Come? Che dici? Tu m’uccidi, o donna.
elena
Morrai per man del re di questa reggia.
menelao
Che feci mai che tanta pena meriti?
elena
Le mie nozze a impedir giungi inatteso.
menelao
Che? Sposar vuole alcun la mia consorte?
elena
Oltraggio disegnò fare al mio talamo....
menelao
Forse un privato? O il re di questa terra?
elena
Di questa terra il re, figlio di Pròteo.
menelao
L’enigma udito dall’ancella è questo?
elena
A quale t’appressasti uscio barbarico?
menelao
A questo; e qual pitocco mi scacciarono.
elena
Forse il pan tu chiedevi? O me tapina!
menelao
Lo chiedevo, ma non come pitocco.
elena
Delle mie nozze, dunque, il tutto sai.
menelao
Sí; ma ignoro se poi schivasti il talamo.
elena
Intatto, sappi, lo salvai per te.
menelao
Cari detti, se veri: e ov’è la prova?
elena
Ch’io siedo sopra questo avello, o misera!
menelao
Che tu segga, lo vedo. E che significa?
elena
Qui di sfuggire a quelle nozze imploro.
menelao
Non trovi un’ara? O l’uso è tal dei barbari?
elena
Come in un tempio ho qui trovato asilo.
menelao
Non potrò dunque ricondurti in patria?
elena
T’attende un ferro qui, piú che il mio talamo.
menelao
Dunque sarei degli uomini il piú misero?
elena
Fuggi, senza rossor, da questa terra.
menelao
Lasciarti? Se per te Troia espugnai!
elena
Meglio fuggire, che per me morire.
menelao
Codardie mi proponi indegne d’Ilio.
elena
Non puoi, se pur lo brami, il re trafiggere.
menelao
Tanto al ferro è il suo corpo imperforabile?
elena
Vedrai! — Non tenta il saggio l’impossibile.
menelao
Muto dunque offrirò le mani ai ceppi?
elena
Scampo non v’è; ma puoi cercar tranelli.
menelao
Meglio oprando morir, che inerti starsene.
elena
Sola c’è di salvarci una speranza.
menelao
Denari, ardir v’occorrono, o parole?
elena
Qualor non sappia il re che tu sei giunto.....
menelao
Chi dir lo può? Chi l'esser mio conosce?
elena
Un’alleata egli ha che ai Numi è simile.
menelao
Sito dentro la casa è qualche oracolo?
elena
Una sorella: e il nome n’è Teònoe.
menelao
È fatidico il nome. E che fa? Dimmelo.
elena
Sa tutto; e a lui che tu qui sei dirà.
menelao
Son morto allora: a lei come nascondermi?
elena
Se con le preci indurla mai potessimo....
menelao
A far che? Quale in me speranza susciti?
elena
A non dire al german che qui tu sei.
menelao
E potremmo fuggir, se l’inducessimo?
elena
Con lei d’accordo, sí; non mai di furto.
menelao
A te sta: donna e donna ben s’intendono.
elena
Sapran gli amplessi miei le sue ginocchia.
menelao
E se rifiuta udir le preci nostre?
elena
Tu morrai: sposa a forza io moverò.
menelao
Tu mi tradisci: la forza è un pretesto.
elena
Fo sul tuo capo un giuramento sacro.
menelao
Che? Di morir? Non cangerai consorte?
elena
Col ferro stesso; e presso a te sepolta.
menelao
Dunque, a tal patto la mia mano stringi.
elena
Ecco: la luce, ove tu muoia, io lascio.
menelao
Ed io morrò, se di te sarò privo.
elena
Come in guisa morir ch’io gloria acquisti?
menelao
Sul dorso della tomba, inflitta morte
a te, m’ucciderò. Ma un gran cimento
per l’amor tuo pria sosterrò. S’avanzi
chi pur n’ha cuore: ch’io non macchierò
la gloria d’Ilio, e tocco esser da biasimo
non vo’, tornando in Ellade: ché Tètide
io d’Achille privai, la strage vidi
del Telamonio Aiace, e Nelèo privo
del suo figliuolo; ed affrontar la morte
per la mia sposa non dovrei? Lo devo
tanto di piú: ché, se son saggi i Numi,
di lieve polve coprono la tomba
del prode ucciso dai nemici, e ammucchiano
sopra i vili, di terra un peso greve.
coro
Oh Dei, felice alfine sia di Tàntalo
la stirpe, dagli affanni abbia sollievo.
Dalla reggia esce Teonoe, seguita da ancelle.
elena
Misera me! La mia fortuna è questa!
Menelao, siam perduti: esce Teònoe,
la profetessa, dalla reggia: stridono
già nell’aprirsi, i chiavistelli: fuggi! —
Sebbene, a che fuggir? Lontana o prossima,
che tu sei giunto, ella ben sa. Tapina
me, son perduta; e tu, salvo da Troia,
da una barbara terra, a questa terra
barbara approdi, e vi morrai di spada.
teonoe
Si rivolge via via a parecchie ancelle.
Tu precedimi, e il raggio delle fiaccole
reca, e dell’etra con i riti santi
purifica ogni seno, affin che l'aura
del ciel, schietta a me giunga. E tu. se alcuno
con empio passo il suolo calpestò,
contaminò, col sacro fuoco purgalo,
e crolla, ch’io passar possa, la fiaccola.
Compiuti i riti che v’ho detto, in casa
recate ancora, su l’altar, le fiaccole.
Le ancelle partono: Teonoe si volge ad Elena.
Elena, ebbene, i vaticinî miei
diceano il vero? È qui, lo vedi, il tuo
consorte Menelao, privo dei legni
e del tuo simulacro. — A quali, o misero,
pene scampato, giungi! E non sei certo
del ritorno, o se qui restar dovrai.
Perché fra i Numi una contesa è sorta,
ed oggi stesso un’assemblea faranno
presso il trono di Giove, a tuo riguardo.
Era, che pria t’era nemica, adesso
è a te propizia, e vuol che salvo in patria
tu con lei giunga, perché sappia l’Ellade
che le nozze onde fe’ compenso Cípride
ad Alessandro, false nozze furono.
Cípride, invece, vuol che tu non torni,
perché non sia l’inganno suo palese,
come, le nozze d’Elena mercando,
il vanto di bellezza essa comprò.
E in me l’esito sta: sia che di Cípride
ceda al volere, e a mio fratello sveli
la tua presenza, e ti rovini: sia
ch’io parteggi per Era, e ti risparmî,
nulla dicendo al fratel mio, che imposto
m’ha che gli dica quando tu qui giunga.
Si raccoglie un momento, e decide.
Al fratel mio chi annuncerà che questi
è qui? Val meglio mettersi al sicuro.
elena
Supplice io cado, o vergine, alle tue
ginocchia, e resto in tale posa misera,
e per me stessa, e per costui, che appena
lo recupero, e già sono al frangente
di vedermelo ucciso. Al tuo fratello
non dir, no, che lo sposo dilettissimo
al seno stringo. Ti scongiuro, salvalo.
Per compiacere al fratel tuo, l’antica
tua pietà non tradire, inique e tristi
grazie non acquistarne. Aborre il Nume
la violenza, e vuol che ognuno acquisti
quanto acquistar si può, non che lo rubi.
Beni comuni son per tutti, il cielo
e la terra, ove ognun la casa propria
può riempire, senza far sopruso
dei beni altrui, senza rapirli a forza.
E me — ventura fu, ma pur disgrazia —
affidò Ermete al padre tuo, ché salva
mi conservasse a questo sposo, ch’ora
è qui, che via vuole condurmi. Or come
riprendermi potrà, se muore? E come
render potrà quegli una viva a un morto?
Ora del Nume invèstiga il volere,
e di tuo padre, se il defunto e il Dèmone
bramano o no che si restituiscano
le cose altrui. Mi par di sí. Né devi
tu secondar piú che l’onesto padre
uno stolto fratello. E se tu sei
profetessa, e fiducia hai nei Celesti,
eppur del padre la giustizia vïoli,
per compiacer l’empio fratello, è brutto
che le cose del ciel tutte tu sappia
e presenti e future, e non le giuste.
Salva lo sposo mio, salva me misera,
che tanto soffro, e la fortuna agevola
ch’ora m’assiste. Ché non v’ha tra gli uomini
chi non m’aborra: ché per tutta l’Ellade
corre la fama ch’io tradii lo sposo,
e le ricche abitai case dei Frigi.
Ma se in Eliade torno, e il suol di Sparta
nuovamente calpesto, or tutti gli Èlleni,
vedendo e udendo che in rovina andarono
per le trame dei Numi, e ch’io non fui
traditrice dei miei cari, di nuovo
stima di saggia mi daranno, e a nozze
andar potrà la figlia mia, che adesso
nessuno sposa; e posto in bando l'aspro
vagabondar, potrò godere i beni
che sono in casa mia. Se sovra il rogo
fosse stato costui spento, da lungi
avrei l’assente lagrimato: ed ora
dovrò, ch’è vivo e salvo, esserne priva?
Ah, no, fanciulla, ti scongiuro: accordami
simile grazia, e del tuo padre giusto
segui i costumi: ché pei figli è questo
il piú bel vanto, chi da nobil padre
nacque, serbare a lui pari il costume.
coro
Son pïetosi i tuoi discorsi, e tu
sei pïetosa. Adesso, udir vorrei
a sua salvezza Menelao che dice.
menelao
Cadere ai tuoi ginocchi io non potrei,
né lagrime versare: a Troia troppa
onta farei, quand’io viltà mostrassi.
Dicono, sí, che lagrimar s’addice
nelle sventure agli uomini bennati;
ma, se pur bello è questo, io questo bello
a un contegno viril non antepongo.
Ora, se vuoi salvar me stranïero,
che a dritto voglio la mia sposa, rendimela
e inoltre salva me. Ché se non vuoi,
la prima volta non è questa, ch’io
ebbi a patir, ché ne potrei dir molte;
ma tu malvagia apparirai. Ma quello
che di me degno e di te credo, e può
piú d’ogni cosa intenerirti il cuore,
su la tomba del tuo padre, ed ei m’oda,
favello: «O vecchio, ch’ài dimora in questa
marmorea tomba, io ti scongiuro, rendimi
la sposa mia, che Giove a te mandò
per custodiria a me. So che di nulla
responsabile sei, poiché sei spento;
ma non vorrà costei che il padre suo,
celeberrimo già, dai regni inferni
ora invocato, trista fama goda».
E te compagno alla mia guerra invoco,
Ade, che molte ricevesti salme,
grazie a costei, da me trafitte, avesti
la tua mercede: o quelle adesso rendi
novellamente a vita, o astringi questo,
che del pio genitor non sia peggiore,
e mi renda la sposa. E dove poi
rapir vogliate la mia sposa, ascolta
ciò che costei non t’ha detto. Da giuri,
sappilo dunque, stretti siamo, o vergine,
che pria col tuo fratello io pugnerò,
o ch’io l’uccida o ch’ei m’uccida: è semplice
il mio discorso; e s’ei nega affrontarmi
a faccia a faccia, e vuol per fame supplici
su questo avello catturarci, ho fermo
d’uccidere la sposa, e poscia il duplice
fil della spada immergermi nel fegato,
di questa tomba su la vetta, donde
rivi di sangue entro la fossa stillino.
E spenti giaceremo un presso l’altra
su questa liscia pietra, a te rimorso
imperituro, e al padre tuo rampogna:
ché al tuo germano non andrà costei
sposa né ad altri; ed io la condurrò,
se alla patria non posso, in fra gli estinti.
Perché parlo cosí? Se fra le lagrime
volto mi fossi a femminil costume,
sarei stato pietoso e non energico.
Uccidimi, se vuoi; pur senza gloria
tu non m’ucciderai. Ma invece, lasciati
dai detti miei convincer: sí che tu
sia giusta, ed io la sposa mia recuperi.
coro
I suoi discorsi, tu fanciulla, giudica,
e sí decidi, che tu piaccia a tutti.
teonoe
Ad esser pia son nata, esser pia voglio.
E me stessa amo, e non vorrei macchiare
di mio padre la fama, e al fratel mio
concedere una grazia ond’io dovessi
trista fama lucrar: sacro rispetto
insito è in me del giusto; e poiché m’ebbi
da Nerèo tal retaggio, or Menelao
tenterò di salvare; e poiché vuole
Era benigna a te mostrarsi, voto
porrò concorde al suo. Cípride, sempre
benevola mi sia; ma pur, non sono
con lei concorde; e rimanere sempre
vergine tenterò. Quanto ai rimproveri
che su questo sepolcro al padre volgi,
ciò che tu dici, io dico: empia sarei,
se la sua sposa non rendessi; e certo,
s’ei fosse vivo, a te lei resa, a lei
avrebbe te: ché, sia tra i morti, sia
fra quanti sulla terra uomini vivono,
c’è pei soprusi una vendetta. L’anima
dei morti, non ha piú vita, ma serba,
pur quando nell’eterno ètere piomba,
eterna coscïenza. Or, senza fare
troppo lungo discorso, io tacerò,
come voi mi pregate, e la follia
di mio fratello non seconderò.
Ché poi, se pur non sembra, io lo benefico,
se pio lo rendo invece d’empio. Or voi,
trovate dunque alcuno scampo, ed io
lontano andrò, muta saro. Dai Numi
incominciate. Supplicate Cípride
che in patria te lasci tornare, ed Era
che immoto resti il suo pensier, che salvi
te vuole, e il tuo consorte. E tu non mai,
per quanto io posso, o padre mio defunto,
empio sarai chiamato, anziché pio.
Rientra nel palazzo.
coro
Mai fortuna non ebbe alcuno ingiusto:
nella giustizia puoi sperar salute.
elena
O Menelao, da questa parte, almeno,
eccoci salvi. Or tu favella, e acconcio
di comune salvezza un mezzo escògita.
menelao
Odimi: in questa casa tu convivi
coi famigli del re, da lunga pezza.
elena
Che dici mai? Speranze avventi, quasi
ad opra al comun bene util t'accinga.
menelao
Convincere potresti alcun di quelli
che guidan le quadrighe, a darci un cocchio?
elena
Potrei; ma come poi fuggir, se ignari
delle vie siamo, e delle terre barbare?
menelao
Esser non può, l'hai detto. E se, nascosto
in casa, il re col brando mio trafiggo?
elena
Nol patirebbe la sorella, quando
tu t'accingessi, né starebbe muta.
menelao
Né legno c’è, dove scampar potessimo
fuggendo: quel che avevo, il mar lo prese.
elena
Odi, se pur nulla di saggio femmina
dir può: vuoi, vivo ancor, detto esser morto?
menelao
È tristo augurio: pur, se dirlo giova,
ben voglio, vivo ancor, detto esser morto.
elena
E noi donne, gemendo, i crin’ recisi,
morto ti piangeremo all’empio innanzi.
menelao
E di salvezza in ciò sarebbe un farmaco?
D’anticaglia mi sa l’espedïente.
elena
Al re dirò ch’ergerti bramo, come
se in mar tu fossi morto, un cenotafio.
menelao
Poni pur che l’accordi: e come, senza
nave, salvezza avrem da un cenotafio?
elena
Un naviglio, onde al mare in sen si gettino
pel tuo sepolcro i doni, io chiederò.
menelao
Dici ben, tranne un punto: ov’egli in terra
voglia l’esequie, fallirà l’astuzia.
elena
Ma noi direm ch’uso non è ne l’Ellade
in terra seppellir chi morí naufrago.
menelao
Diritto avviso. Ed io navigherò
teco, gitterò teco in mare i doni?
elena
Per primo tu ci devi essere, e teco
i marinai dal naufragio salvi.
menelao
E se la nave coglier posso all’àncora,
starà presso ad ogni uomo un uomo armato.
elena
Tutto guidar tu dei: basta or che prosperi
spingan le vele a nuovo corso i venti.
menelao
Sarà: fine al mio mal porranno i Numi.
Ma da chi dirai tu che mi sai morto?
elena
Da te. Tu dí che, con l’Atríde naufrago,
salvo sei solo, e che morir l’hai visto.
menelao
Esser potranno testimonî questi
laceri cenci alla naval rapina.
elena
Tanto opportuna quanto allora impronta,
divenir la sciagura un ben potrebbe.
menelao
Convien che in casa teco entri, o che sopra
questo sepolcro me ne stia tranquillo?
elena
Resta: perché, se mai contro te medita
qualche atto ostil, la tomba ed il tuo brando
ti potranno schermire. Io nella reggia
entro frattanto, mi recido i riccioli,
e vesti nere indosso, anziché bianche,
e l’unghie sopra le mie gote insanguino.
Grande è il cimento, e veggo esito duplice:
o la trama si scopre, ed io son morta;
o torno in patria, e la tua vita salvo.
Era, o tu che di Giove ascendi il talamo,
Dea veneranda, a due mortali miseri
concedi lena dai travagli: supplici
per te leviam le braccia al cielo, dove
abiti tra fulgor vario di stelle.
E tu che avesti di bellezza il vanto
per le mie nozze, di Dióne o figlia,
Cípride, non voler la mia rovina.
Il vituperio basti onde tu m’hai
coperta già, quando il mio nome desti,
se pur non il mio corpo, in preda ai barbari.
Lascia, se pur morta mi vuoi, ch’io muoia
nella mia patria. Insazïabil tanto
perché di mali sei, che amori, inganni,
con frodolenta astuzia appresti, e filtri
esizïali alle magioni? Oh, fosse
misura in te! Del resto, sei per gli uomini
la Diva piú soave, io non lo nego.
Entra nel palazzo.