Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) VII.djvu/143

140 EURIPIDE

di questa grazia degno non mi stimano.
E gli approdi deserti inospitali
di Libia, tutti ho navigati, e quando
vicina era la patria, ecco di nuovo
mi respingeva il vento, e mai propizia
fu sí la vela, ch’io tornassi in patria.
Ed ora fui, senza compagni, naufrago,
misero me, gittato a questa spiaggia.
Ché la mia nave si sfasciò, cozzando
contro le rupi in mille pezzi: sola
restò, fra tante sue varie compagini,
la chiglia, e sopra a quella, a stento, e contro
ogni speranza, mi salvai con Elena,
che da Troia strappai, che con me reco.
Come si chiami questa terra e il popolo,
non so: ché fra la gente ebbi pudore
di mescolarmi ed informarmi, e ascosi
la sorte delle mie povere vesti,
per la vergogna. Un uom d’alto lignaggio,
se la miseria sopra lui s’aggrava,
in disagio si trova anche maggiore
di chi fra stenti lungo tempo visse.
Pure, il bisogno mi costringe: ch’io
cibo non ho, né vesti che mi coprano,
e argomentare ben si può da questi
cenci di vele ch’io cingo: ché i pepli
d’un tempo, e i manti belli e gli ornamenti,
me li ha rapiti il mar. Lasciai la donna
che causa fu d’ogni sciagura mia
negli anfratti dell’antro, e quanti vivono
dei miei compagni, ancora, a sua custodia,
e solo venni a questa parte; e cerco
se modo c’è che pei compagni miei