Dopo il divorzio/Parte prima/Cap. VIII
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VIII.
Circa tre anni dopo la sua condanna, una mattina in sul finir dell’estate, Costantino si svegliò di cattivo umore. Il caldo era opprimente e nella camerata gravava un odore nauseabondo. Un condannato russava sbuffando come una pentola in ebollizione.
Costantino aveva dormito con l’ultima lettera di Giovanna sotto il capo; e questa lettera era laconica e triste in sommo grado: diceva che Giovanna e sua madre si trovavano in grande povertà e che il bambino stava gravemente malato.
Costantino non pensava neppure che era ben crudele scrivergli in quel modo: egli voleva la verità, fosse pur triste, e gli sembrava che dividere i dolori di Giovanna e spasimare per la disperazione di non poterla soccorrere, fosse uno dei suoi doveri. Dovere sterile, ahimè, egli lo sentiva, e ciò aumentava il suo dolore.
Egli s’era fatto abile nel lavorare da calzolaio, e lavorava alacremente, ma guadagnava pochissimo, e tutto il guadagno, — tolto ciò che pretendeva il re di picche per i suoi buoni servigi, — lo mandava a Giovanna.
— Parola d’onore, — gli diceva l’ex-maresciallo, — tu sei un babbeo. Mangiateli, i denari. Dovrebbero mandartene loro.
— Sono così povere.
— Eh, no! Hanno il sole, loro. Che vogliono di più! — diceva l’altro. — Se tu mangiassi e bevessi faresti opera di carità. Sei uno stecco, vedi, caro amico. Poco male io. Eh, io, mio caro, io ingrasso. Il mio lardo è fatto di vento; fa nulla, ma ingrasso.
Infatti egli oramai sembrava una pallottola; ma la sua pinguedine era vuota, cascante, gialla. Costantino invece s’era fatto scarno, con gli occhi infossati e le mani quasi trasparenti.
— Il sole! — pensava con amarezza. — Ah, sì, esse hanno il sole! Ma a che serve anche il sole quando non si ha da mangiare, quando si è malati e si soffre in tutti i modi?
Era una stupidaggine, sì, ma egli qualche volta pensando così piangeva come un fanciullo.
Eppure sperava sempre. Gli anni passavano, i giorni cadevano lenti ed eguali, uno dopo l’altro, come goccie d’acqua in una grotta, dalla pietra sulla pietra. Quasi tutti i condannati, specialmente quelli che scontavano pene non troppo lunghe, speravano nella grazia, si divagavano contando i giorni passati e da passare, con chiarezza sorprendente, senza mai sbagliarsi di un giorno.
Alcuni spingevano la loro abilità fino a contare le ore. Costantino diceva che ciò era una cosa stupida, e sorrideva pensando che si poteva morire o si poteva venir liberati prima dell’ora. Tutto stava nelle mani di Dio. Del resto anche egli contava d’esser liberato prima dell’ora, ma quest’ora era così lenta, così lenta a venire! Lo sentì bene quella mattina, allo svegliarsi palpando la carta calda della lettera di Giovanna.
Si alzò e si vestì sospirando. Il suo compagno di destra cessò di russare, aprì un occhio velato e stette a guardare Costantino come se non lo riconoscesse. Poi richiuse l’occhio.
— Ti senti male? — chiese, udendo Costantino sospirare. — Ah, è vero, tu hai il bambino malato. Perchè non lo dici al Direttore?
— Perchè devo dirlo al Direttore? Egli mi metterebbe in cella, ecco tutto, se sapesse che ricevo notizie così.
— Ed a pane e pollastro — disse una voce ironica. Voleva dire a pane ed acqua.
Un altro rise. Costantino sentì tutta l’indifferenza di quelli uomini tra cui viveva, e gli parve di esser solo, smarrito in un deserto ardente, dall’aria nauseabonda.
Andò al lavoro, aspettando con ansia l’ora dell’aria per poter parlare col re di picche. Quell’uomo grasso e giallo, che egli non stimava per nulla, gli era tuttavia indispensabile. Era il suo solo conforto. Egli solo lo capiva, lo compassionava, lo aiutava. Si faceva pagare, è vero, ma che importava? Ciò non toglieva ch’egli fosse indispensabile a molti condannati, e specialmente al suo compatriota, il quale pensava già con egoistico dolore all’ora in cui il re di picche, scontati i suoi anni di pena, se ne sarebbe andato.
Quel giorno fu introdotto nella camerata dei calzolai un nuovo condannato, un settentrionale sottile e lungo, dal viso grigio tutto rugoso e due piccoli occhi bianchi. Era di un’età indecifrabile, ma i compagni risero quando egli disse di avere ventidue anni. Subito si lamentò del caldo e della puzza di pece che ammorbava l’aria.
Ah, egli non era un ciabattino, no. Era figlio unico d’un ricco negoziante di scarpe all’ingrosso: infine anch’egli era un signore. E subito cominciò a raccontar la sua storia dolorosa: aveva ucciso un suo rivale in amore; era stato provocato e gli aveva sparato addosso; null’altro. La donna, causa prima del delitto, era malata di petto ed ora, per il dolore, moriva. Moriva; null’altro. Ah, c’era poi questo, che il condannato aveva lasciato un figlio, un bambino di pochi anni, suo e della donna malata. Se ella moriva, il bimbo restava orfano e derelitto.
Costantino trasalì, non perchè il racconto del condannato lo commovesse, ma perchè quel bambino e quella donna gli ricordavano Giovanna e Malthineddu ammalato.
Il nuovo venuto, che subito aveva cominciato a lavorar destramente tagliando un paio di suole, taceva finalmente, a capo chino, intento al lavoro, col labbro inferiore scosso da un tremito, come i bambini che stanno per piangere. Costantino lo vide e pensò che quell’uomo doveva soffrire assai. Ma come gli altri restavano indifferenti al suo dolore, così egli non poteva prendere parte al dolore altrui. Soltanto si sentì ancora più triste, più smanioso di uscire.
Quando vide il re di picche lo attirò presso il muro caldo, in un angolo d’ombra, ma non seppe dirgli nulla di ciò che soffriva. A che pro?
Gli raccontò invece la storia del nuovo condannato; l’altro alzò le spalle, poi si voltò, sputò sul muro e disse:
— Se vuole può scrivere anche lui, ma raccomando prudenza. C’è qualcuno che fiuta l’aria.
— Come faremo, — chiese poi Costantino, pensieroso, — come faremo quando lei non sarà più qui?
— Tu vorresti che io restassi sempre qui, cialtrone? — disse l’altro scherzando.
— Dio me ne liberi! No. Io anzi le auguro di andar via presto, domani...
Il re di picche sospirò. — Ahimè! i suoi nemici — egli diceva, — scovavano sempre nuove arti diaboliche per tenerlo dentro. Non spera più nella grazia, ma ad ogni modo il tempo della liberazione s’avvicinava. Allora, — proseguiva, — egli sarebbe andato dal re, gli avrebbe raccontato come stavano le cose. Il re ordinerebbe subito la revisione del processo e al re di picche, riconosciuto innocente, verrebbe subito ridonato il posto. Chissà, forse anche una medaglia, da tener compagnia alle altre.
Inoltre egli prometteva a tutti, e specialmente a Costantino, di farli graziare appena ritornato in libertà.
— E va bene! — concludeva, approvandosi da sè. A furia di far promesse finiva col credere di doverle mantenere.
— Domani! Magari fosse! Sarebbe un bene per tutti.
— Bene o male! — rispose Costantino.
— D’altronde, — proseguì l’altro, — quando io sarò fuori tu forse non avrai più bisogno di me.
Tosto si pentì di quelle parole, ma vide Costantino scuotere il capo dubbioso, pensò: — forse egli crede che io alluda alla grazia, — e lo guardò con sincera compassione.
— Ma tu sei innocente, tu sei veramente innocente? — gli chiese. — Oramai puoi dirmi tutto, amico caro. Ricordati che quando te lo chiesi la prima volta tu mi dicesti: ch’io non possa riveder mio figlio se sono colpevole!
— Questo è vero! Ed ora lei vuol dire che forse non rivedrò mio figlio? Sia fatta la volontà di Dio, ma io sono innocente.
Il re di picche si volse nuovamente verso il muro, sputò ancora.
— Abbi pazienza, mio caro, abbi pazienza. Abbi pazienza, — disse a Costantino. E la sua voce era calda e sincera.
Il re di picche si credeva uomo superiore, e aveva una grande stima di sè stesso perchè stimava le persone oneste: per tale ragione aveva preso ad amare a modo suo Costantino, conoscendolo tanto buono, dall’anima semplice, fatta d’un metallo così puro che neppure la grande corruzione del penitenziario poteva intaccarla.
Orbene, l’ex-maresciallo si permetteva di leggere le lettere che gli pervenivano per il condannato. Ultimamente gliene era arrivata una, anonima, scritta malissimo, con certi grandi caratteri che sembravano insetti e piccoli mostri. Ma quegli insetti velenosi e quei piccoli mostri incutevano terrore; dicevano che Giovanna, la moglie del condannato, si lasciava corteggiare da Brontu Dejas, e che zia Bachisia voleva fare un viaggio a Nuoro per proporre ad un avvocato la causa di divorzio di sua figlia.
L'ex-maresciallo s’arrabbiò come un cane, e il suo amico Delegato, che lavorava intorno alla sua grande opera, l’udì mugolare gonfiando enormemente le guancie giallognole.
— Essi sono stupidi. Stupidi! Sardi asini! — pensava il re di picche. — Perchè glielo scrivono? Che può far egli se non battere la testa contro il muro?
Non consegnò la lettera, ed ogni volta che vedeva il condannato lo guardava con profonda compassione, felice, per conto suo, di sentirsi così buono.
Il bambino morì tre giorni dopo, e Costantino ne ricevette direttamente la notizia. Pianse in silenzio, nascondendosi, e davanti ai compagni di lavoro e di sventura volle mostrarsi forte. Arnolfo Bellini, quello che aveva l’amante ammalata, saputa la disgrazia del condannato sardo, cominciò a piangere in modo strano, con certi strilli da gallina; e il suo visetto grigio di bambino vecchio era così ridicolo nel pianto, che l’abruzzese, quello che litigava sempre col fratello, si mise a ridere. Un altro condannato punse con la lesina la coscia dell’abruzzese. Costui cessò di ridere e trasalì, disse — ahi! — e non protestò.
Costantino guardò meravigliato il Bellini, scosse il capo, si mise a lavorare. Tutti tacquero, e il settentrionale si calmò perfettamente. Sotto la volta bassa biancheggiava una luce cruda, proveniente dal cortile ombreggiato: il caldo intenso traeva un acuto odore dal cuoio, dalle mani sudate e dai piedi dei condannati.
Questi condannati erano tredici, continuamente sorvegliati da un guardiano alto, dai baffi rossi, che non parlava mai. Per la divisa, per i capelli ed il viso raso, per la stessa espressione un po’ attonita del volto, i condannati si rassomigliavano, parevano fratelli o almeno parenti; eppure mai come in quel giorno Costantino si era sentito più estraneo, più lontano dai suoi compagni di pena.
Egli cuciva, cuciva, curvo, con una scarpa fra le gambe, sul grembiale di cuoio. Di tanto in tanto guardava attentamente la scarpa, poi tornava a cucire, tirando lo spago con ambe le mani, quasi rabbiosamente. Ah, sì, bisognava lavorare, ora che il bambino era morto. Aveva egli amato molto il bambino? Non sapeva; forse non molto. L’aveva veduto una volta sola a Nuoro, attraverso la rete metallica della stanza dei colloqui, in braccio a Giovanna piangente. Il bambino aveva un visetto rosso, un po’ scabroso come certe albicocche mature, e gli occhietti lucenti e violacei come due acini d’uva, velati dalla frangia dello scuffiotto. Durante il colloquio aveva pianto e strillato, pauroso dei guardiani immobili e rigidi, e di quella rete metallica alla quale si aggrappavano le sue manine rosee convulse.
Costantino non serbava altro ricordo del figliuolino. Gli anni erano passati, ed egli se lo immaginava sempre piangente, rosso, con gli occhietti violacei nascosti dalla frangia dello scuffiotto rosso. Ma aveva sempre pensato all’avvenire, quando Malthineddu sarebbe stato grande e avrebbe saputo condurre il carro, montare a cavallo, seminare, mietere; conforto ed aiuto della madre sua. Ah! egli, il condannato, sperava sempre di tornar presto al suo paese; ma se qualche volta sentiva che questa speranza era vana, pensava tosto a suo figlio. E lo amava per amor di Giovanna più che per quell’affetto egoista che nasce dall’abitudine e dalla vicinanza.
Ora il bimbo era morto. Il sogno morto. Sia fatta la volontà del Signore. Ma Costantino soffriva profondamente pensando al dolore di sua moglie.
Il re di picche, quando quel giorno rivide il suo caro compatriota, all’ombra calda del muro, s’avvide subito che Costantino soffriva più per sua moglie che per la morte del bimbo. Ma, strano conforto, cominciò a dirgli con ironia:
— Ebbene, mio caro, tu sei pazzo a desolarti così. Pensa a te, pensa che se il Signore, come tu dici, ha richiamato a sè l’anima innocente, lo ha fatto forse per il suo bene.
— Perchè? — chiese Costantino, col capo curvo, le braccia penzoloni e le mani aperte. — Perchè era povero?
Quel giorno il re di picche voleva filosofare e disse che la povertà non era un male, tutt’altro, forse anzi un bene, anzi un bene addirittura.
— Ci sono altri mali, caro amico. Pensa a te; tua moglie si conforterà.
— Ah già, essa ha il sole! — disse Costantino, chiudendo le mani. — Questo sole che scotta! Ah, che se ne farà essa del sole, ora?
— Pof! Pof! Pof! — canterellò l’altro, gonfiando tre volte le guancie grasse e giallognole; poi si distrasse, si guardò bene bene l’unghia del dito mignolo destro, e infine disse a voce alta:
— Dimmi tu, caro amico, e se tua moglie prendesse un altro marito?
Costantino non comprese bene, tuttavia le sue braccia s’irrigidirono.
— Ella farebbe bene a non dirmi queste cose, oggi — disse con voce accorata.
— Pof! Pof! Pof! — ricantò e rigonfiò l’ex-maresciallo.
Breve silenzio. Poi:
— Ecco, caro compatriota, tu non mi hai capito bene. Tua moglie è onesta, non ne dubito. Ma io dico: se riprendesse marito davvero? Tu non capisci ancora? Questo cristiano è d’una semplicità sorprendente! Parola d’onore, tu sembri un uomo libero, tanto sei ancora innocente. Possibile, — gridò poi, — che tu non sappia che ora c’è il divorzio? Una donna che ha il marito condannato a più di dieci anni di pena può fare divorzio e sposarsi con un altro uomo.
Costantino sollevò il capo; i suoi occhi infossati s’aprirono rotondi, grandi; ma subito tornarono a socchiudersi.
— Giovanna non lo farà, — disse.
Un altro breve silenzio.
— Giovanna non lo farà! — ripetè fra sè il condannato; ma intanto sentì una cosa strana, come se un freddo coltello gli tagliasse il cuore in due parti. Ed una di queste parti sentiva un dolore atroce e l’altra urlava: — Non lo farà! — Entrambe le parti, poi, s’erano completamente dimenticate del bambino morto.
— Non lo farà! — urlava sempre una parte del cuore. L’altra si lasciò convincere; si riunì all’altra e insieme tornarono a ricordare il precedente dolore.
— Ecco, — diceva il re di picche, — credo anch’io che non lo farà. Ma dimmi una cosa, carissimo amico, ora che il figlio è morto, ora che la madre non ha più speranza nè in lui nè in te, non farebbe bene a far quella cosa? Ecco, io dico che sarebbe stupida se le si presentasse l’occasione e non la facesse.
— Brontu Dejas! — pensò Costantino, ma ripetè: — No, non lo farà.
— Ma tu sei un cretino, mio caro. E se ella lo facesse non sarebbe giusto?
— Ma io tornerò.
— Cosa ne sa lei?
— Ma io glielo scrivo sempre, glielo scriverò sempre.
Il re di picche ebbe voglia di ridere, ma s’arrabbiò contro sè stesso per questa sua voglia, e rimase pensoso; poi disse, come rispondendo ad una sua intima domanda:
— È una sciocchezza.
— Sì! — rispose pronto Costantino. Ma intanto pensava a Brontu Dejas, alla sua casa col portico, alle sue tancas e alle sue greggie, alla miseria di Giovanna; ed ahimè, entrambe le parti del suo cuore, ora, sentivano il dolore della ferita.
La notte stessa egli scrisse a Giovanna, confortandola, ripetendole che egli sperava sempre nella misericordia divina. «Forse Dio — scriveva egli, col suo buon senso, — ha voluto provarci ancora, togliendoci il frutto che noi avevamo concepito nel peccato. Sia fatta la sua volontà. Ma ora un presentimento mi dice che si avvicina l’ora della mia liberazione».
Poi meditò lungamente, chiedendosi se doveva scrivere di quella cosa orribile accennata dall’ex-maresciallo. Ma no. Egli si credeva abbastanza furbo per non accennarla neppure; Giovanna doveva ritenere che egli ignorasse persino l’esistenza di quella legge infernale.
Dopo averle scritto fu più tranquillo; ma un piccolo tarlo inesorabile cominciò a rodere e stridere nel suo cervello, e dopo quel giorno il re di picche con pietà crudele non cessò di instillargli nel sangue il terribile veleno.
— Bisogna che si abitui, — pensava l’ex-maresciallo, — altrimenti quest’anima semplice muore di crepacuore.
Qualche volta pensava che forse era meglio lasciarlo morire, poi ricordava d’avergli promesso la grazia, e sembrandogli di poter arrivare ad ottenergliela, tornava a tormentarlo per impedirgli di morire allorquando Giovanna avrebbe chiesto il divorzio. Era certo che ella pensava già a ciò, e si stizziva quando Costantino parlava amorosamente di lei.
— Caro, carissimo, — gli disse sbuffando, un giorno d’ottobre. — Tu non conosci le donne. Anfore vuote, ecco, null’altro che anfore. Una volta io sono stato fidanzato. Ti pare impossibile? Sì, pare impossibile anche a me, guarda! E poi? Ecco tutto, ella mi tradiva già, ancora prima di sposarla. Ecco tutto. Tu mi fai stizzire, del resto: ora tua moglie trovasi in un caso diverso, è povera, è giovine, ha del sangue nelle vene. Ha sì o no del sangue nelle vene? Se questo Dejas la vuol sposare, ella è un’oca a non prenderselo.
— Chi, Dejas? Chi le ha detto?... — domandò Costantino maravigliato.
— Oh, non me lo hai detto tu?
A Costantino pareva di non averne parlato mai. Ma aveva le idee tanto confuse, da qualche tempo in qua! Oh Dio buono, o San Costantino bello! Come aveva fatto a parlare di colui?
— Ebbene sì, — proruppe, — ho paura. Egli le ha fatto la corte, la voleva in isposa. Ah, è un ubbriacone, scipito come il fango. No, essa non farà mai quella cosa orribile. Parliamo d’altro, per carità.
E parlarono d’altro, sempre in dialetto sardo per non farsi capire dagli altri condannati; parlarono dello studente tisico che andava sempre più avvicinandosi alle porte dell’altro mondo, di Arnolfo Bellini che piangeva stupidamente ogni volta che vedeva lo studente, del Delegato che passeggiava intorno alla fontana, della gazza che dimagriva e perdeva le piume per vecchiaia.
Pettegolezzi, odii, rancori, amori, vigliaccherie, scherzi, stringevano, univano, spingevano i condannati, fra loro, coi guardiani, coi superiori. Costantino rimaneva insensibile a tutto. Egli, lo studente e il Delegato, parevano vivere in disparte da tutti gli altri, avvicinandosi soltanto all’ex-maresciallo, che era il pernio di quasi tutti gli avvenimenti segreti del penitenziario, e che rimaneva superiore a tutti, indispensabile a tutti.
Molti invidiavano la famigliarità che egli concedeva a Costantino, e pregavano costui d’interporsi presso il re di picche per certi favori. Il condannato alzava le spalle. Alcuni gli offersero denaro, ed egli fu tentato di prenderlo, vinto dalla smania angosciosa di sovvenir Giovanna il più che potesse: non pensava ad altro.
Il re di picche, con le sue continue insinuazioni, pungenti come spilli, gli diventava sempre più odioso: un giorno litigarono sul serio, e per qualche tempo non si scambiarono il saluto. Ma Costantino si sentiva soffocare; gli pareva di essere in cella, diviso per sempre dal mondo esteriore: e fu il primo ad umiliarsi, chiedendo pace.
L’autunno s’inoltrava; l’aria s’era rinfrescata, il cielo sembrava di velluto azzurro, tenero, lontano, dolce come un sogno. Qualche giorno il vento recava un profumo di frutta mature.
Costantino si sentiva meno oppresso, ma pieno di melanconia; cominciava a diventar anemico perchè si privava di tutto per mandare i denari a Giovanna, e mentre tutti gli altri condannati ricevevano denari, chi più chi meno, egli soltanto si privava anche dei soldi che guadagnava.
— Io non capisco, — diceva l’ex-maresciallo, — tu diventi rosso e pare che ringiovanisca; ma sei trasparente, mio caro.
Talvolta Costantino si sentiva ardere il viso e il sangue tuonargli entro il capo: poi cadeva in prostrazione e soffriva la nostalgia come neppure il primo anno l’aveva sofferta. Vedeva il grande altipiano addormentato nella quiete autunnale, giallo sotto il cielo chiaro; e le montagne battute dal tiepido sole; e sentiva la fragranza delle poche frutta e delle vigne che tardavano a maturare in quel paese di pastori e di api. Vedeva le volpi, le lepri, gli alveari, gli uccelli selvatici, i cavalli, le siepi coperte di more, tutte le cose che avevano interessato e riempito la sua infanzia infelice, ribelle, eppure rallegrata da gioie selvaggie. Ricordando lo zio, il vecchio avoltoio crudele, che l’aveva tormentato in vita, ed anche dopo morte lo tormentava così, sentiva un impeto d’odio contro il morto; poi pensava: — ora non esiste più nulla! — e si pentiva e pregava per l’anima sua.
Altri non odiava; nessuno, nessuno: neppure il vero assassino, neppure Brontu Dejas, al quale del resto non aveva ancor nulla da rimproverare; neppure il re di picche che lo martoriava continuamente. Non aveva forza di odiare. Sentiva una dolcezza triste nel sangue, come uno che sta per addormentarsi, e da questa dolcezza triste e snervata sorgeva solo un sentimento d’amore, tenero, dolce, vellutato, melanconico come il cielo d’autunno. E quel sentimento era tutto per lei, era lei. Egli pensava sempre a lei, sempre a lei, sempre a lei.
Più il tempo passava, più egli sentiva di amarla: essa era la patria lontana, la famiglia, la libertà, la vita: tutto, tutto era in lei; la speranza, la fede, la forza, la serenità, la gioia di vivere. Era l’anima sua.
Quando il crudele re di picche gli minacciava quella cosa orrenda, lo minacciava di morte. Pur di non perder Giovanna egli sarebbe rimasto volentieri quarant’anni in reclusione; e nello stesso tempo anelava la libertà appunto per non perder Giovanna.
Quell’inverno soffrì assai il freddo; aveva il volto livido, le unghie livide: nelle ore di aria si metteva al sole e batteva i denti come un vecchierello. Voleva confessarsi spesso, e diceva al giovine cappellano tutte le inquietudini che provava.
— Chi vi ha messo in testa queste idee, caro figliuolo? — chiese il confessore; e gli occhi neri lampeggiavano.
— Un mio compatriota, l’ex-maresciallo Burrai, il re di picche infine.
— Che Dio te strabenediss... — mormorò il cappellano, facendosi pensieroso. Egli conosceva bene il re di picche!
Cercò di confortare il condannato, poi gli chiese se e cosa Giovanna gli scriveva. Ahimè, essa ora scriveva raramente, poche righe. Dopo la morte del bimbo pareva non avesse più nulla da dire. Ultimamente aveva scritto che al paese faceva gran freddo: la neve era caduta due volte e l’ultima volta un uomo era morto assiderato attraversando le montagne. Inoltre, aggiungeva Giovanna, una grande carestia opprimeva il paese.
Tutto ciò dava a Costantino un’angoscia insopportabile. Spesso sognava d’esser condotto a Nuoro e liberato: di là s’avviava a piedi al suo paese; egli aveva freddo, non poteva andar oltre, moriva, moriva... E si svegliava gelato, col cuore oppresso da un’angoscia suprema.
Il confessore gli disse:
— Voi siete tanto debole, caro fratello; è la debolezza che vi fa venire questi brutti pensieri. Vostra moglie è una buona cristiana; non vi farà mai alcun torto, via, levatevi di mente le brutte idee. Avete bisogno di rafforzarvi; mangiate, bevete qualche cosa. Guadagnate?
— Un poco; ma mando tutto a mia moglie: è così povera. Oh, io mangio abbastanza. No, non sono debole. Bere, poi, non mi piace; mi nausea.
— Ebbene, state tranquillo; parlerò io col Burrai... Vi lascierà tranquillo.
Egli infatti parlò col re di picche e lo rimproverò per le idee melanconiche che metteva in capo al Ledda.
— È un povero ragazzo, è anemico; lasciatelo in pace o si ammalerà.
Il re di picche lo guardò tranquillo, coi piccoli occhi porcini socchiusi furbescamente; poi sbuffò; infine scosse il capo e disse:
— Lo faccio per il suo bene.
— Macchè bene! Macchè bene! Voi...
— Io dico, ecco, caro amico, pardon; per questo inverno ancora c'è poco da temere, riguardo alla giovine, perchè fa freddo assai. Per ora, mi immagino, sarà soltanto la vecchia, la suocera di Costantino, che sbraiterà consigliando alla figlia, anzi imponendole di acciuffar la fortuna. Ma poi verrà la primavera, ecco tutto.
Il cappellano faceva il viso lungo, s’agitava tutto, non capiva, mentre l’altro, continuando a guardarlo con gli occhietti porcini pieni di malizia, credeva opportuno spiegargli la cosa in termini più chiari, descrivendogli l’avidità della suocera, la gioventù della moglie, i pericoli della primavera... Il cappellano si stizzì sul serio.
— Catt... — disse, balzando di qua e di là, battendo le mani, fiammeggiando negli occhi, — voi siete insopportabile! Perchè andate a immaginarvi queste cose? Perchè tormentate quel povero ragazzo? Perchè la donna ebbe un pretendente vuol dire che...
— Caro amico, non vada in collera, ecco! — disse il re di picche. E gli fece vedere la lettera anonima giunta dal paese di Costantino.
Il cappellano si fece serio; pregò l’ex-maresciallo di lasciargli la lettera; poi gli chiese:
— Voi prendete denaro dal Ledda?
— Certo: qualche piccola cosa. È forse disonesto? Non arrischio io la cella col favorirlo?
— E voi credete compiere il vostro dovere facendo ciò che fate?
— Cosa è il dovere? Se far del bene al prossimo è il nostro dovere, io lo faccio.
L’altro rileggeva attentamente la lettera.
— Io lo faccio; e questo è niente. Quando sarò libero, se le persone influenti di cui dispongo non mi faranno rimettere al mio posto, conto di occuparmi appunto della corrispondenza clandestina di tutti i condannati d’Italia. Una specie di agenzia...
— Non tarderete a ritornar qui...
— Eh! Eh! farò le cose a dovere: agenzia segreta, caro amico. E poi...
— Le grazie anche! — disse l’altro, ripiegando la lettera. — Perchè lusingate così questi poveri disgraziati?
— Le grazie anche! — rispose freddamente il Burrai. — Ebbene, anche fosse soltanto una lusinga, se è loro di conforto, non è opera buona? Che altro abbiamo noi se non la speranza?
— Allora, — disse l’altro, con voce raddolcita, — fatemi il piacere di non tormentare oltre quel povero ragazzo: fatelo piuttosto sperare; altrimenti finirà con l’ammalarsi.
L’ex-maresciallo promise, ma a malincuore. Ah, quel metodo non gli sembrava buono.
— Egli morrà d’un colpo, in fede mia! — pensava. — Oh, verrà la primavera! Oh, allora si vedrà se chi conosce il mondo ha o no ragione. — E si metteva una mano sul petto.
Quando si incontrarono, Costantino gli chiese sorridendo se aveva visto su preideru (il prete) come fra loro chiamavano il cappellano, e cosa gli aveva detto. L’ex-maresciallo stava appoggiato al muro scuro ed umido, con le mani sulla schiena, ed imprecava in sardo, a bassa voce, non si sa contro chi.
— Balla chi li trapasset sa busacca, brasciai... (che una palla gli trapassi la saccoccia, volpe...).
— Che ha? Con chi l’ha?
— Ebbene, niente. Sì, ho visto il prete, mi ha sgridato come un bimbo. Che bimbo grasso! Un porcellino, un porcellino addirittura. Ma il lardo è giallo, rancido. Sai, ho letto che in Russia è pregiato il lardo rancido.
— Che le ha detto, mi dica...
— Cosa mi ha detto? Mi ha detto... chi se ne ricorda più! Ah, sì, mi ha detto che quella cosa è una mia fantasia. Sì, io ho la fantasia ricca... Sì, caro amico, perdonami; tua moglie non ti tradirà mai, come è vero che siamo qui.
Costantino lo fissava avidamente. No, quell’uomo non lo burlava, no, non lo burlava affatto. Diceva la verità.
— Ah, lo ha sgridato dunque! Oh, bella!
— Questo muro, — disse il re di picche, scostandosi e guardandosi le mani rossastre solcate di pieghe per la compressione della schiena, — vedi, mio caro, questo muro sembra di cioccolato. È umido e caldo. Fosse almeno! Avremo due vantaggi: rosicchiarlo e scappare. Ah, hai tu mangiato mai cioccolato?
— E come no? Sì, piaceva assai a Giovanna. Ma è caro, tanto caro. Ebbene?...
— Ebbene? — gridò l’altro. — Tu mi fai arrabbiare. Sì, ti aspetterà per altri ventitre anni, non dubitare!...
— No, io uscirò prima. E poi, caso mai... (e canzonava alquanto) non andrà dal re, lei, non mi farà la grazia?
— Sì, dal re. Proprio dal re! Tu non ci credi? Io andrò dal re: egli riceve tutti gli ufficiali; ed io non sono un ufficiale? Egli ama l’esercito: egli è giovine; ho letto che si è ingrassato. Ah, ma non ingrasserà come me... — E rise.
Costantino tornava sempre sul suo argomento; l’altro sfuggiva sempre; ad ogni modo però non lo tormentò più.
In quei giorni furono deposte cinque lire sul libretto di Costantino.
— È lui, è lui! — disse il condannato, — È il prete. Che uomo buono! Ma io non le voglio. No. Non le voglio.
— Tu sei stupido come un montone, — gli rispose il re di picche. — Prendile, altrimenti egli si offende. Non le voglio! Si risponde così ai benefizi?
— Ma io ho vergogna. E poi che devo farmene?
— Bere, mangiare. Ne hai di bisogno, credilo pure. Tu vorresti mandarle là, laggiù, che il diavolo ti liberi? Se fai quella bestialità ti sputo sul viso. Vedi, essa non ti scrive più, neppure...
— Che ha da scrivermi? — disse Costantino, cercando rassicurarsi. — Ora avrà del lavoro, l’inverno finisce.
— Ah, sì, finisce! E verrà la primavera! gridò l’altro, quasi minaccioso.
— Verrà.
— Verrà!
— Quando comincia il caldo al tuo paese? Da noi, in marzo fa già caldo.
— Oh, da noi in giugno. Allora è tanto bello, da noi. L’erba si fa alta, alta; si tosano le greggie, le api fanno il miele.
— Che idillio! Ah, tu non sai cosa vuol dire idillio? Ebbene, vuol dire... ... un corno! E aspettiamo giugno! È da molto che non ti confessi?
— Sì. Da quindici giorni.
— È da molto davvero! Ah, come sei cretino, mio caro! Io non mi sono confessato mai: ho la coscienza pura come specchio. Ecco, — disse poi, additando lo studente, che aveva il viso cereo e i cereo e i capelli rasi così bianchi che sembravano incipriati, — quello ha davvero bisogno di confessarsi. Egli batte alle porte dell’eternità.
Infatti poco dopo lo studente fu messo nell’infermeria e morì agli ultimi di marzo. Il Bellini, quello dell’amante tisica, s’informava ansiosamente dello stato dell’infermo, e quando lo studente morì, pianse puerilmente tutta la giornata. E piangeva non per il povero morto, ma per l’amante malata. Poi si confortò, e non vedendo più lo studente e non udendo più parlare di lui, pensò meno alla malattia della donna amata. La morte dello studente mise nell’anima del re di picche una strana melanconia. Egli cominciò a filosofare sulla vita, sulla morte, e intavolò lunghe discussioni col Delegato, nelle quali quest’ultimo rispondeva a voce bassa, stralunando gli occhi. Con Costantino, poi il Burrai s’abbandonava ai ricordi nostalgici della patria lontana.
— Sì, — diceva, — una volta io passai vicino al tuo paese, o nei dintorni, non so. C’era un bosco di soveri, di cisti e di corbezzoli; su questi pareva fosse piovuto del sangue. E un odore, caro mio, un odore così forte che pareva di tabacco. Bada, c’è una croce sopra una pietra; si vede il mare lontano.
— Ah, ecco, è la foresta di Cherbomine1. Ah, se la conosco! Una volta un cacciatore vide là dentro un cervo con le corna d’oro. Sparò, l’ammazzò. Nel morire, il cervo mise un grido umano e disse: La penitenza è finita. — Si crede avesse in corpo un’anima umana che, dopo morte, scontasse così grandi delitti. Fu messa la croce.
— E le corna, mio caro?
— Dicesi che il cacciatore, avvicinatosi, s’avvide che le corna s’erano fatte nere.
— Pof! Pof! Come siete sciocchi voi altri paesani! Ah, ecco che la primavera viene! — disse poi il re di picche guardando il cielo. — A me la primavera dà ai nervi. Sì, una volta ero anch’io cacciatore.
— Oh!
— Cacciavo negli stagni, vicino a Cagliari: ah, gli stagni! Parevano i frantumi d’uno specchio buttati qua e là dall’alto. Intorno c’erano tanti gigli violetti. E i fenicotteri passavano in lunghe file sul cielo così splendente che non si poteva guardare. Io chiudevo un occhio. Pum! Pum! Cadeva un fenicottero. Gli altri continuavano a volare, silenziosi, in fila. Io mi buttavo anche in mezzo allo stagno per prendere il fenicottero. Ero agile, sai, agile come un pesce: avevo diciotto anni.
— A che servono i fenicotteri?
— A niente: s’imbalsamano: hanno le gambe lunghe e sembrano di velluto. Hai tu veduto quei paesi? Ah, sì, è vero, tu sei stato nelle miniere e sei passato per Cagliari. Io tornerò laggiù per morire in santa pace.
— Lei è malinconica questi giorni!
— Che vuoi, caro amico? È la primavera; è così triste passar la Pasqua in prigione! Quest’anno farò il precetto pasquale.
— Io l’ho già fatto.
— Ah, tu l’hai già fatto!
Dopo di che i due condannati tacevano e ricordavano.
E passò aprile, maggio, giugno: i desolati muri del carcere tornarono a infocarsi, gli insetti immondi e tormentosi si svegliarono ricominciando l’opera crudele di tortura sopra i condannati; odori nauseabondi ricominciarono a infettare l’aria, e nella camerata dei calzolai, sempre vigilata dal guardiano taciturno e rosso, il cuojo, la pece ed il sudore esalarono un puzzo acuto.
Costantino, sempre più anemico, cominciò a patire assai per le punture degli insetti: gli altri anni dormiva profondamente e non si accorgeva delle punture, ora invece aveva il sonno leggiero e certe trafitture lo svegliavano di soprassalto, dandogli un brivido per tutta la persona: allora cominciava l’insonnia, o un dormiveglia peggiore dell’insonnia, che talvolta assumeva i caratteri dell’incubo. Punture acute, e non sempre di insetti, gli trafiggevano tutta la persona; egli si voltava e rivoltava, soffocava, gemeva. Era una cosa orribile. Spesso la luce aranciata dell’aurora giungeva prima ch’egli avesse potuto chiuder occhio; allora veniva colto da un grande spossamento, da un sonno invincibile, e doveva alzarsi!
Giovanna non gli scriveva più: soltanto, agli ultimi di maggio, aveva scritto pregandolo di non mandarle più denari, poichè guadagnava abbastanza per vivere discretamente. Poi più nulla.
Ma oramai egli era tranquillo sulla fedeltà di lei: quell’ultima lettera gli era sembrata anzi una prova di affetto.
Il re di picche ogni giorno, all’aria, lo aspettava con certa ansia; lo fissava coi suoi occhietti diabolici, scintillanti in quel grosso testone raso, tutto giallo; gli chiedeva con premura: — che nuove? — e siccome Costantino si meravigliava di questa domanda, anche l’ex-maresciallo si meravigliava, non diceva di che. Solo osservava:
— Fa caldo.
— Sì, fa caldo.
— La primavera è passata.
— Altro che passata!
— La carestia al tuo paese sarà cessata, ora.
— Sicuro che è cessata. Mia moglie non vuole che le mandi più nulla.
— Ah! Lo so bene, caro amico.
L’ex-maresciallo non sapeva che pensare, e quasi quasi si stizziva che la sua profezia non si avverasse.
Ma un giorno Costantino non venne all’aria. L’ex-maresciallo, saputo che il suo compatriota si trovava all’infermeria, si sentì stringere il cuore in modo strano, e siccome la vecchia gazza svolazzava intorno, e quando si posava scuoteva la testolina mezzo spelata, mezzo arruffata, chiamando con voce nasale: — Cos-tan-tì — Cos-tan-tì... — il re di picche le rispose a voce alta:
— Su Costantino è caduto un fulmine.
Tutti i condannati gli si aggrupparono intorno, curiosi di sapere; ma egli stese le mani avanti, facendo atto di respingerli e disse:
— Io so nulla. Lasciatemi stare.
Fino alle nove, — disse il Bellini, — Costantino aveva lavorato con loro: poi un guardiano era venuto a prenderlo, non si sapeva perchè: egli s’era alzato di botto, con gli occhi spalancati, pallido; aveva seguìto il guardiano e non era più tornato.
Per quanto visse, Costantino ricordò quel giorno. Era una mattina calda, annuvolata, e l’ombra delle nubi pareva gravasse sulla camerata dei calzolai, gettando fino alla metà delle pareti una cupa penombra. I condannati emergevano lividi da quella penombra, coi grembiuli di cuojo puzzolenti; ed erano di cattivo umore.
Uno di essi, che aveva paura dei morti, raccontava che nel suo paese si vedevano, nelle notti scure, correre entro l’acqua del fiume lunghi fantasmi liquidi e biancastri, e chiedeva al Bellini se egli ne avesse visti mai.
— Mi no! Io non credo a queste stupidaggini!
— Ah, tu le chiami stupidaggini? — disse l’altro con voce monotona, guardando entro la scarpa che lavorava.
Un altro disse, piano, lavorando:
— Testa di montone...
Allora quello che credeva ai morti sollevò il viso e s’arrabbiò, offeso; ma l’altro protestò.
— Oh che non posso parlare fra di me? Posso dire: testa di montone, testa di vitello, testa di cane... Chi ti cerca? Non posso parlare con la scarpa?
Giusto in quel momento venne il guardiano che chiamò Costantino. Costui, che aveva passato una brutta notte insonne, spalancò gli occhi assonnati, s’alzò di botto e impallidì.
— Chi mi vuole? — domandò, e seguì il guardiano.
Fu condotto in una stanza polverosa, ingombra di scaffali pieni di cartaccie: i vetri sporchi eran chiusi; dietro i vetri s’incrociava una inferriata rossa; dietro l’inferriata si vedeva il cielo nuvoloso che pareva pur esso coperto di polvere. Nella stanza, seduto davanti una scrivania alta e polverosa, un uomo scriveva. Aveva tante, tante carte davanti; spariva quasi fra le carte e la polvere. Vedendo il condannato sollevò il viso, un corto viso roseo col piccolo mento interamente coperto da due spioventi baffi biondi. Fissò Costantino con gli occhi grandi, d’un azzurro latteo, rotondi ed immobili, ma parve non vedere il condannato perchè si rimise a scrivere rapidamente.
Costantino, che conosceva già quell’uomo, rimase in piedi, col cuore che gli batteva forte forte. Nella sua inquietudine ricordava la storia dei fantasmi entro il fiume, la voce del condannato che diceva: testa di montone e si domandava se l’altro s’era offeso a torto od a ragione. Nella stanza udivasi solo lo stridìo della penna sulla carta aspra.
I due occhi rotondi e chiari fissarono nuovamente il condannato, e tornarono ad abbassarsi: Costantino trasalì, si guardò attorno, stette in ansiosa attesa.
L’uomo scriveva sempre. Il condannato si sentì battere il cuore con veemenza; mille pensieri bui, quasi direi afoni, deformi, gli passavano per la mente come una torma di nuvole incalzanti. L’uomo scriveva sempre. Ad un tratto, improvvisamente, nella mente di Costantino, quei mille pensieri bui, informi, svanirono come nuvole per dar posto ad uno splendore così abbagliante che faceva male.
— Che si riconosca la mia innocenza?
Era questo lo splendore. Passò, ma lasciandosi dietro una vaga luce. E l’uomo scriveva sempre, e continuando a scrivere domandò con voce alta e grossa:
— Vi chiamate?...
— Costantino Ledda.
— Di dove?
— Di Orlei in Sardegna, provincia di Sassari.
— Benissimo.
Silenzio. L’uomo scriveva sempre. Ad un tratto raschiò forte, sollevò il volto roseo, fissò il condannato coi grandi occhi chiari, rotondi, immobili. Costantino abbassò i suoi occhi.
— Va bene. Avete moglie?
— Sì.
— Figli?
— Ne avevamo uno ed è morto.
— Volete bene a vostra moglie?
— Sì, — rispose Costantino, e sollevò gli occhi spauriti. Vide nella mano grassa e rosea del signore un anello con pietra violetta; e fra l’indice e il pollice la punta della penna nera, girante, ritta. Non sapendo dove posar gli occhi smarriti, Costantino no fissò il movimento della penna: e sentì qualche cosa di supremamente angoscioso, come quando in sogno si aspetta un cataclisma. La voce grossa ora parlò in tono basso, lentamente.
— Voi sapete bene che vostra moglie è stata da voi rovinata. Giovine, bella, innocente, ella dovrebbe trascorrere la sua vita in lutto continuo, piangendo. Nulla più le sorride nella vita, ed ella non ha commesso mai alcun male. Pazienza quando aveva il figliuolo. Sperava in lui. Ma ora che il bimbo è morto che più le resta? Quando voi tornerete, se Dio vi concederà tale grazia, sarete vecchio, affranto, inabile. Anch’ella sarà tale. Ella quindi vede davanti a sè un terribile avvenire: dolore, vergogna e miseria. Una vecchiaia orribile. Andrà a mendicare: la sua vita, in tal guisa, è una pena peggiore della vostra...
Costantino, pallido come un morto, ansante, sofferente, voleva protestare, dire che sperava tornare presto; ma non poteva parlare, e d’altronde l’altro proseguiva, suggestionandolo con quei due occhi tondi, chiari, immobili: — ... peggiore della vostra. Voi dovreste pensare a ciò e disperarvi, e doppiamente pentirvi del vostro delitto. Ehi là! (L’uomo sospirò, raschiò ancora, cambiò tono di voce). La legge, però, oramai provvede a questa enorme ingiustizia. Voi sapete bene che c’è il divorzio, il quale rende libera la donna il cui marito ha una certa condanna. Se vostra moglie... sedetevi, state tranquillo... se vostra moglie chiedesse il divorzio sarebbe vostro dovere accordarlo subito. So che voi, dopo tutto, siete o dimostrate di essere un buon cristiano...
Costantino s’era appoggiato alla tavola, e tremava, senza sforzarsi alla calma.
— Lo ha già chiesto? — domandò.
— Sedetevi, sedetevi, ehi là! — esclamò l’altro, e con la penna gli faceva atto di sedersi. Voleva continuar la predica, ma Costantino disse con voce ferma, che contrastava col tremito di tutta la sua persona:
— So il mio dovere. Non darò mai il mio consentimento, perchè devo tornare fra poco in libertà, e mia moglie si pentirebbe...
Due solchi profondi sollevarono le guancie rosee del signore; un atroce sorriso gli animò gli occhi immobili: poi si fece pensoso.
— Sentite. Il consentimento del condannato viene richiesto solo per formalità. Suo dovere è darlo, e si tiene conto della sua buona intenzione. Ma fa lo stesso, anche se egli non lo dà... ehi là! Che... che... che... avete?...
Costantino svenne, cadde al suolo come uno straccio.
Fine della parte prima.
PARTE SECONDA
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