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Costantino trasalì, non perchè il racconto del condannato lo commovesse, ma perchè quel bambino e quella donna gli ricordavano Giovanna e Malthineddu ammalato.

Il nuovo venuto, che subito aveva cominciato a lavorar destramente tagliando un paio di suole, taceva finalmente, a capo chino, intento al lavoro, col labbro inferiore scosso da un tremito, come i bambini che stanno per piangere. Costantino lo vide e pensò che quell’uomo doveva soffrire assai. Ma come gli altri restavano indifferenti al suo dolore, così egli non poteva prendere parte al dolore altrui. Soltanto si sentì ancora più triste, più smanioso di uscire.

Quando vide il re di picche lo attirò presso il muro caldo, in un angolo d’ombra, ma non seppe dirgli nulla di ciò che soffriva. A che pro?

Gli raccontò invece la storia del nuovo condannato; l’altro alzò le spalle, poi si voltò, sputò sul muro e disse:

— Se vuole può scrivere anche lui, ma raccomando prudenza. C’è qualcuno che fiuta l’aria.

— Come faremo, — chiese poi Costantino, pensieroso, — come faremo quando lei non sarà più qui?

— Tu vorresti che io restassi sempre qui, cialtrone? — disse l’altro scherzando.

— Dio me ne liberi! No. Io anzi le auguro di andar via presto, domani...

Il re di picche sospirò. — Ahimè! i suoi nemici — egli diceva, — scovavano sempre nuove arti diaboliche per tenerlo dentro. Non spera più nella