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solo, smarrito in un deserto ardente, dall’aria nauseabonda.

Andò al lavoro, aspettando con ansia l’ora dell’aria per poter parlare col re di picche. Quell’uomo grasso e giallo, che egli non stimava per nulla, gli era tuttavia indispensabile. Era il suo solo conforto. Egli solo lo capiva, lo compassionava, lo aiutava. Si faceva pagare, è vero, ma che importava? Ciò non toglieva ch’egli fosse indispensabile a molti condannati, e specialmente al suo compatriota, il quale pensava già con egoistico dolore all’ora in cui il re di picche, scontati i suoi anni di pena, se ne sarebbe andato.

Quel giorno fu introdotto nella camerata dei calzolai un nuovo condannato, un settentrionale sottile e lungo, dal viso grigio tutto rugoso e due piccoli occhi bianchi. Era di un’età indecifrabile, ma i compagni risero quando egli disse di avere ventidue anni. Subito si lamentò del caldo e della puzza di pece che ammorbava l’aria.

Ah, egli non era un ciabattino, no. Era figlio unico d’un ricco negoziante di scarpe all’ingrosso: infine anch’egli era un signore. E subito cominciò a raccontar la sua storia dolorosa: aveva ucciso un suo rivale in amore; era stato provocato e gli aveva sparato addosso; null’altro. La donna, causa prima del delitto, era malata di petto ed ora, per il dolore, moriva. Moriva; null’altro. Ah, c’era poi questo, che il condannato aveva lasciato un figlio, un bambino di pochi anni, suo e della donna malata. Se ella moriva, il bimbo restava orfano e derelitto.