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biosamente. Ah, sì, bisognava lavorare, ora che il bambino era morto. Aveva egli amato molto il bambino? Non sapeva; forse non molto. L’aveva veduto una volta sola a Nuoro, attraverso la rete metallica della stanza dei colloqui, in braccio a Giovanna piangente. Il bambino aveva un visetto rosso, un po’ scabroso come certe albicocche mature, e gli occhietti lucenti e violacei come due acini d’uva, velati dalla frangia dello scuffiotto. Durante il colloquio aveva pianto e strillato, pauroso dei guardiani immobili e rigidi, e di quella rete metallica alla quale si aggrappavano le sue manine rosee convulse.

Costantino non serbava altro ricordo del figliuolino. Gli anni erano passati, ed egli se lo immaginava sempre piangente, rosso, con gli occhietti violacei nascosti dalla frangia dello scuffiotto rosso. Ma aveva sempre pensato all’avvenire, quando Malthineddu sarebbe stato grande e avrebbe saputo condurre il carro, montare a cavallo, seminare, mietere; conforto ed aiuto della madre sua. Ah! egli, il condannato, sperava sempre di tornar presto al suo paese; ma se qualche volta sentiva che questa speranza era vana, pensava tosto a suo figlio. E lo amava per amor di Giovanna più che per quell’affetto egoista che nasce dall’abitudine e dalla vicinanza.

Ora il bimbo era morto. Il sogno morto. Sia fatta la volontà del Signore. Ma Costantino soffriva profondamente pensando al dolore di sua moglie.

Il re di picche, quando quel giorno rivide il suo caro compatriota, all’ombra calda del muro, s’avvide subito che Costantino soffriva più per sua moglie