Della moneta/Libro III/Capo IV

Capo IV - Considerazioni sugli avvenimenti della Francia nel 1718 cagionati da una nuova coniata della moneta, con alzamento del valore di essa

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Capo IV - Considerazioni sugli avvenimenti della Francia nel 1718 cagionati da una nuova coniata della moneta, con alzamento del valore di essa
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V

veri danni che produce un alzamento

Quando sia nocivo l’alzamento — Primo errore del Melun — Secondo errore del Melun — Problema del Melun e sua risoluzione.

Sempre che il diminuire i salari a’ ministri del principe è inutile o pernicioso, sará inutile e pernicioso, e perciò ingiusto, l’alzamento.

Ne’ tempi prosperi l’alzamento è d’aggravio a’ poveri, siccome ne’ calamitosi è di sollievo. Il signor Melun, che ha meglio d’ogni altro discorsa questa materia, è inciampato in un sillogismo, che gli mostrava l’utilitá dell’alzamento, di cui l’inganno è cosí impercettibile, che quasi non si ravvisa. Egli ha ragionato cosí. L’alzamento giova al debitore, nuoce al creditore: or i debitori son sempre i piú poveri: dunque l’alzamento è di sollievo al povero. L’inganno sta in questo, che ricco è colui, il quale ha modo di poter godere delle altrui fatiche senza dover prestare una equivalente fatica in atto, avendo presso di sé le fatiche sue o da’ suoi maggiori fatte prima e convertite in danaro. Perciò è ricco chi ha molto danaro, ed è creditore delle fatiche: il povero non ha danaro, ma n’è creditore sul ricco mediante la sua fatica, ch’egli a lui deve. Sicché, stando sull’opposte bilance il danaro e le fatiche, il ricco è il debitor del danaro, il povero il creditore. Or l’alzamento giova non al debitore delle fatiche, ma a quel del danaro; dunque giova al ricco, facendo che con maggior fatica s’abbia ad acquistare lo stesso vero valor di metallo (io qui parlo dell’alzamento prima della mutazione de’ prezzi delle fatiche, seguendo la quale egli è distrutto): sicché egli è ingiusto, giacché arricchisce il ricco ed aggrava di peso il povero.

Ma, quando lo Stato è travagliato, il principe, che, per essere la piú ricca persona, è il maggior debitore di danaro, diviene povero di danaro; e perciò gli giova l’alzamento a farlo [p. 205 modifica] restar creditore delle medesime fatiche da’ ministri, non ostante ch’ei non soddisfi lo stesso debito di mercede. All’utilitá del principe, che è il centro della societá, dovendo cedere quella d’ognuno, ancorché restasse aggravato il povero, non converrebbe dolersene. Ma il fatto è che il povero ne trae sollievo, non assolutamente (come ha creduto il Melun), ma relativamente, in quanto del nuovo peso tocca a lui la minor parte. Imperciocché tutto quel risparmio, che fa il principe sui suoi ministri, non possono questi farlo sugli altri, che alzano subito il prezzo alle loro fatiche; onde conviene loro tollerar qualche perdita per cagione del valore della moneta cambiato. Coloro, a’ quali la danno, anche essi perdono, e cosí di grado in grado la perdita si distribuisce sopra tutti, finché perviene a’ contadini, da’ quali nel nuovo pagamento de’ pubblici pesi è renduta al principe. Or, poiché nel circolo delle spese, che fa il principe, egli è in una estrema punta e nell’altra i contadini, e in quello dell’introito subito da’ contadini si passa al principe, ne siegue che ne’ risparmi di spese il minor danno è de’ contadini, nella diminuzione de’ dazi il maggior utile è loro. Ambedue cotesti effetti ha l’alzamento delle monete con sé, quando egli è fatto nelle strettezze de’ bisogni. E, a dar di ciò una immagine viva, si può considerare quel moto, che fanno le acque d’un pozzo percosse da una pietra cadutavi nel mezzo; che di quanto ho detto è la similitudine piú naturale.

L’altro errore, in cui cade il Melun, è simile al primo, concludendo un suo discorso cosí: «L’alzamento delle monete, per guadagnare il dritto della zecca, è pernicioso; per sollevare il contadino aggravato dall’imposizione, è necessario». Assolutaniente profferita, questa necessitá è falsa; mentre, invece di sminuire l’intrinseco valore de’ dazi, è meglio toglierli. Un re di Francia, che riscuota duecento milioni di lire sul suo popolo, perché mai, volendo sollevarlo da tanto peso, ha da far che, mutata la moneta, duecento milioni corrispondano a soli centocinquanta milioni antichi, e non piú tosto annullare cinquanta milioni di dazi? Voler udire la medesima grandiositá di numero, ma di cose mutate, è ridicola vanitá. Allora dunque è necessario l’alzamento, [p. 206 modifica] quando da una parte è forza alleggerire il peso, dall’altra non si può palesemente farlo; e che questo caso avvenga molte volte, pare che dovesse esser noto al Melun, che ha dato a risolvere questo problema non meno grande e serio che malagevole e scabroso.

Chiede egli: «Quando l’imposizione necessaria a pagare i pesi dello Stato è divenuta tale, che i debitori d’essa, con tutto il rigore delle esecuzioni militari, non hanno assolutamente modo da pagarla, che convien fare al legislatore?». Niuno di que’, che si sono creduti capaci di rispondere al Melun, ha posta mano alla risoluzione d’un quesito, il quale, sebbene sia molte volte avvenuto, si può dire che nemmeno in pratica sia stato ancora con ferma e considerata ragione risoluto, avendo, nelle grandi calamitá e nelle somme perturbazioni, piccola parte il senno sulle azioni. Io credo ch’ei si debba risolvere così. Quel, che non si può avere, non bisogna richiederlo neppure, mentre il richiederlo violentemente non dá modo da acquistare nemmeno quel poco che si potrebbe. S’oppone a ciò la necessitá delle spese. A queste dunque convien supplire, o con consumare le imposizioni degli anni avvenire, e questi sono i biglietti di Stato, le azioni e que’ che noi diciamo «arrendamenti»: o con minorare le spese, e questo è l’alzamento. Se la tempesta mostra esser sul fine, è migliore l’alzamento, mentre, quando il danno di lui ritorna sul principe, tutto è giá in calma. Se le onde sono ancora agitate senza speranza di vicina quiete, è miglior consiglio l’altro. E, quando amendue non bastano, v’è la servitú, la quale (come lo dimostrò Sagunto, Cartagine e Gerusalemme) è migliore d’una infelice e disperata difesa, creduta solo dagli oratori gloriosa, perché essi hanno, a causa della vicinanza loro, confuso l’eroismo colla pazzia.

È adunque necessario l’alzamento, quando si vuol minorare la spesa; ma per la necessitá delle guerre non si può palesemente dimostrarlo, per non disgustare e sollevar le milizie e i magistrati, impiccolendo i soldi.

Finalmente anche è un male dell’alzamento la minorazione de’ censi e delle rendite pecuniarie; il quale però, come io dimostrerò al libro quinto, è male piccolo, e talvolta anche è bene. [p. 207 modifica]

VI

vere utilità dell’alzamento

Tre utilitá grandi dell’alzamento — Prima utilitá: supplire a’ bisogni — Seconda utilitá: scemar le spese — Terza utilitá: pagar i debiti — Falsi raziocini dell’abbate di San Pietro — Cagione del suo abbaglio — Perché convenga favorire i debitori — Quanto convenga al principe non aver debiti — Se convenga mai al principe dichiararsi fallito — Modi da far l’alzamento sono tre — Primo modo cattivo — Secondo modo usato in Francia — Il terzo modo si può in pochi principati usare — Origine dell’abborrimento che ha il popolo alle mutazioni delle monete — Forma di governo ne’ tempi barbari — Cagione dell’abuso fatto da’ sovrani della zecca.

Tutto quanto ha di buono in sé l’alzamento, e di cui cosí prolissamente tanti con diversitá d’opinioni ragionano, fu dalla prudenza romana, ancorché in tempi ancor rozzi, conosciuto; ed è da Plinio, scrittore gravissimo, raccolto in due versi soli: «Librale autem pondus aeris imminutum bello Punico primo, cum impensis respublica non sufficeret; constitutumque, ut asses sextantario pondere ferirentur. Ita quinque partes factae lucri, dissolutumque aes alienum»1. Ecco le tre grandi utilitá: soccorrere a’ gravi bisogni, risparmiar sulle spese, saldare i debiti.

È manifesta pruova della prima utilitá che niuno di tanti disapprovatori dell’alzamento ha mai saputo proporre un migliore espediente. I debiti pubblici, detti fra noi «arrendamenti», quando lo Stato fosse giá impoverito, sono assai peggiori, come al libro quinto dimostrerò. La creazione de’ biglietti di Stato è men cattiva dell’altro, e su di lei discorrerò al libro quarto. Ora dico solo che chiunque ha biasimato l’alzamento, [p. 208 modifica] ha gridato piú forte assai contro i biglietti. Adunque, non essendo mai cattivo quel che non ha vicino un migliore, l’alzamento è buono a soccorrere alle pubbliche necessitá.

Maggiormente cresce l’utilitá dell’alzamento, perché egli giova, non con aumentare l’imposizione, ma con diminuire la spesa; e, siccome la massima, che dovrebbe esser sempre avanti gli occhi de’ principi è questa, che «parcimonia magnum est vectigal», cosí è da credersi ottimo quel mezzo, che per una parte scema il peso de’ tributi e gli rende piú fruttiferi col pagamento facilitato, per l’altra riseca le spese, le quali nelle calamitá delle guerre non solo sono grandissime, ma per lo piú fatte con soverchia prodigalitá. Dall’economia del principe siegue quella delle persone piú agiate e ricche, che sono d’intorno a lui, le quali non solo hanno minor salario, ma minor pagamento da’ loro affittuari e debitori; e cosí il povero resta doppiamente sollevato e del regio dazio e delle private, assai piú crudeli, esazioni. E, quantunque ciò possa parere ingiusto, egli non l’è; mentre la privata ingiustizia, che dalla pubblica utilitá maggiore è seguita, cessa d’essere ingiustizia e diviene necessitá e ragione.

E quindi è la terza utilitá del pagamento de’ debiti non meno grande rispetto a’ debiti dello Stato che a que’ de’ privati. Quanto al primo, ella è cosa verissima niente esser di piú nocumento quanto il sospendersi i pagamenti del principe; perché, sospesi i suoi, i creditori di lui sospendono i loro, e così tutto l’oriuolo resta immobile in ogni sua ruota. Se rigirano i loro debiti su quello del principe, ecco nati inaspettatamente i biglietti di Stato. Onde conviene accordarsi in questo: che o il principe ha da fallire palesemente, o mostrar di pagare per intiero, ancorché paghi meno cose reali. E, sebbene sia male che i ministri dello Stato e que’, che per esso si sagrificano, sieno mal pagati, pure si può, per consolarsene, avvertire che costoro sono i piú ricchi e che, quanto piú durano le agitazioni dello Stato, tanto arricchiscono piú.

E da ciò si conosce quanto sia falso l’assunto dell’abbate di San Pietro e quanto ne sia frivola la dimostrazione. Egli [p. 209 modifica] vuol provare che l’alzamento è di tutti «il piú ingiusto, sproporzionato e gravoso tributo». Lo dimostra dicendo «che in un alzamento colui, che ha censi perpetui e rendite in moneta fisse, ne perde una gran parte: minor perdita è quella di chi ha dato in affitto, perché, finito il tempo, egli lo cambierá: niuna ne sente chi tiene l’affitto, anzi v’ha guadagno, vendendo a prezzo maggiore». Quindi conclude: «E si può immaginar sussidio peggiore di quello, che è pagato solo da un terzo de’ sudditi, e da altri per cinque o sei anni, da altri per sempre?». Se l’altre molte opere non acquistassero a sí virtuoso uomo la stima ch’ei merita, questo raziocinio potria mostrarci ch’ei non sapesse qual tributo sia ingiusto. Dovendosi in un luogo edificar le mura da’ cittadini, sarebbe giusto o ingiusto esentar dall’opra le vergini, i bambini, i vecchi e gl’infermi, e farne portar il peso a un terzo solo degli abitanti? È giusto quel dazio, che cade non sopra tutti egualmente, ma sulle spalle piú forti. Or le persone, che hanno censi e rendite fisse, sono gli antichi signori, i luoghi pii ricchissimi e le opulenti chiese e monasteri: né si pagano censi enfiteutici a’ contadini. Coloro, che danno in affitto, sono non solo i comodi, ma i poltroni e neghittosi, tanto piú degni di pagare, quanto, senza accrescere le ricchezze dello Stato, consumano non solo le proprie, ma le straniere ancora. Né bisogna stare a chiamare in soccorso e a spaurirci colle tenere voci d’«orfani», «vedove», «vergini» e «pupilli», poiché questi sono pochi assai. Il vero orfano, il vero povero è il contadino industrioso, l’artigiano, il marinaro e il mercatante. Di costoro s’ha da aver compassione, ed essi sono quelli, che, essendo soliti pigliare in affitto, guadagnano nell’alzamento.

Così è caduto in errore un uomo d’ingegno grande ed acutissimo, trattovi dalle querele e dall’aspetto miserabile della Francia a’ suoi dì e dall’impetuosa voglia, ch’egli avea d’apporre sempre alla fine de’ suoi discorsi quelle voci venerabili: «Quod erat demonstrandum». Voci, che, essendo state da’ matematici consecrate alla veritá, dovrebbe esser vietato che altri in scienze inculte ancora ed ignote, abusandosene, le profanasse. [p. 210 modifica]

Quanto a’ debiti tra privati e privati, confesso imprima che è giusto non diminuirgli; ma è necessario insieme sapere come il maggior male delle guerre non è l’impoverirsi il popolo, ma lo stravasare il denaro e raccogliersi tutto in mano di ppchi. Male gravissimo, su cui discorrerò al libro seguente. Da questo male, che nasce da un disequilibrio nella costituzione del governo, fu afflitta l’antica Roma, e ne vennero quelle liberazioni de’ debitori, che paiono ingiuste, ma non lo erano: poiché ne’ corpi, che contraggono indigestioni e replezioni, le purghe violenti hanno a curare il difetto della natura non buona. Non minor difetto è quello d’un principato d’esser ripieno di liti tra i creditori e i debitori di maggior somma che non posseggono. Le liti multiplicano la ricchezza ideale e scemano la reale: perché mille ducati, pretesi da uno e non pagati da un altro, appaiono duemila, vantandosi egualmente d’avergli non meno chi gli aspetta tra breve che chi senza sicurezza gli ha; e, intanto che tra loro contrastano per spogliarsi, si consuma quel tempo e quell’opra, che potrebbero amendue impiegare, mercatantando, ad arricchirsi davvero. È perciò degna cura d’un principe disingannare chi spera maggiori ricchezze delle realmente esistenti, acciocché, conoscendosi povero, fatichi; e quindi l’estinzione de’ debiti e delle pretensioni, comunque si faccia, è gran bene a uno Stato.

Similmente il sovrano ha da estinguere, il piú presto che può, i debiti suoi; e a chi ne rimane povero, gli giova almeno il saperlo per tempo ed aver ozio da potersi industriare. Ma se convenga a chiare voci dirsi fallito o no, questo è quel dubbio, che, come ho promesso di sopra, voglio esaminare.

Il fallimento è migliore, senza dubbio, che i nuovi dazi. È piú facile e spedito, né dá campo che nel rigiro straricchisca qualche ardito progettatore, come fu Giovanni Law in Francia. Ma egli è troppo subitaneo e impetuosamente percuote. Quel ch’è peggio, percuote le persone che sono intorno al principe le piú potenti, onde è da temerne tumulti e ribellioni, e sfregia la fede sua con macchia grande ed indelebile.

L’alzamento ha lo stesso effetto del fallimento, ma il danno [p. 211 modifica] ne è piú lento, e cade spandendosi sopra tutti: onde è meno pungente e clamoroso, ma, quel che è piu, contiene in sé una economia sulle spese.

Conosco che il presente capo è divenuto ormai lungo soverchio; ma io non credo esserne in colpa, né mi pare poter finire senza aver prima dette le maniere colle quali si fa il guadagno dell’alzamento e considerato quale ne sia la migliore. Tre sono i mezzi, quanto è a dire il merco, la nuova coniata ed il semplice editto de’ prezzi delle monete.

La prima maniera forse si usò negli antichi tempi, perché si trovano molte monete antiche con merchi nel mezzo, che forse esprimono la mutazione del loro valore. Ma, perché tali merchi s’imitano facilmente, onde si divide il guadagno della mutazion della moneta tra la zecca e i privati, perciò sonosi a ragione disusati.

L’altra si è costumata in Francia nel presente secolo; ed ella sarebbe buonissima, eccettocché, perdendosi molta spesa nella nuova coniata e nelle monete che si trovano consumate, il profitto dell’alzamento è minorato dalla necessitá di dover riempiere quel mancante metallo. Inoltre si lascia il commercio per qualche tempo interrotto e rappreso nel disturbo della mutazione, e si agita e si confonde ogni cosa.

L’abbate di San Pietro aggiunge a tanti incommodi il guadagno che i forastieri faranno in coniare monete simili anch’essi; e poi un tal guadagno lo duplica nel computo del danno, perché fatto da’ nemici dello Stato. Sono, questi, spauracchi da mettere a’ bambini. Nel nostro Regno si coniarono cinque milioni di monete, che poi s’alzarono d’un trenta per cento, e neppur un carlino n’è stato battuto fuori; e lo stesso fu nella Francia. Né può essere altrimenti; poiché, dato che gli stranieri coniassero, come faranno poi a far entrar la loro moneta lá dove è alzata? In dono non la manderanno. A comprar merci in un paese distrutto, che non ha le bastanti per sé, nemmeno. In cambio della vecchia moneta, quando questa se la ritira il principe e la rifonde, non possono. Dunque come ha ella a venire? Sicché tal timore è vano. [p. 212 modifica]

La terza maniera, di alzar la moneta con editto, è la migliore, ma v’è poco guadagno pel principe che si trova senza moneta. Nel solo nostro Regno, ove è molto denaro depositato ne’ banchi, potrebbe fare il principe divenir suo tutto il guadagno loro, e cosí, senza la spesa di rifonder tutta la moneta, ei n’otterrebbe il giovamento. Ma negli altri Stati non vi sono tante ricchezze ne’ banchi, mentre o non vi sono banchi, o non hanno altra ricchezza che la fede e la sicurtá, come è nel banco d’Olanda. E da ciò viene che ivi s’hanno ad usare i due sopraddetti modi.

Quanto si è finora detto da me è tutto opposto al torrente della opinione volgare; la quale, avendo avuta tanta forza da menar seco anche i savi, non mi lascia sperare ch’io possa averle contrastato in modo da aver acquistati a me molti seguaci. Della qual cosa siccome pare ch’io dovessi esser dolente, cosí ne sono per contrario lieto e contento. Conosco quanto sia facile che importunamente si proponga un alzamento e s’eseguisca, ostentando bisogni e necessitá o false o assai leggiere. E certamente chi cercherá l’origine dell’opinione volgare, troverá ch’essa, come tutte le altre opinioni della moltitudine, non ha altro di falso eccetto l’essere conseguenza generale tirata da induzione particolare; ma i fatti onde deriva gli troverá tutti confacenti a formarla. E l’origine dell’odio contro l’alzamento è questa.

Gli antichi popoli, per quanto ce n’è noto, non si dolsero delle mutazioni della moneta, finché si pervenne al dominio de’ barbari settentrionali. La forma di governo, che costoro stabilirono ovunque giunsero, fu despotico-aristocratica; governo di cui pochissimi autori ragionano, avendovi poco avvertito. Ella nacque necessariamente dall’innesto delle due nazioni, la conquistatrice e la vinta. I vecchi abitatori divennero schiavi de’ barbari; ma questi, siccome viveano tra loro in prima aristocraticamente, cosí vollero continuare. E perciò, formando tra loro quel senato, ch’essi dissero «parlamento», prescelsero uno, a cui altro di regio non dettero che il nome e le insegne e la spontanea loro sottomissione. Cosí né soldati, né rendite, [p. 213 modifica]

né ministri propri aveano i re, oltre ai loro ereditari; ma degli elettori (che, essendo tutti dispotici nelle loro terre, aveano e soldati e dazi e ricchezze) doveano forzosamente servirsi. Dura consimile governo ancora in parte nella Germania e nella Polonia: altrove non piú tanto come ne’ secoli passati. Ora da sí fatti ordini venne che i re, gl’imperatori erano poverissimi di propria forza; e, poiché fu loro data, come segno di sovranitá, la zecca, su di lei cominciarono a rivolgere gli studi e le arti ed a saziarvi la loro non giusta aviditá. Cosi d’una istituzione fatta pel ben pubblico si fece un capo di rendita e di profitto, il migliore che i re avessero, perché tutto loro: onde si cominciò a concedere come una rendita regia, eguale a’ dazi e pedagi; e cosí divenne annessa alla sovranitá o a quel dominio che l’avea dal sovrano diretto ottenuta. Fu tanto l’abuso che della zecca fecero i principi per mal regolata avarizia, che i parlamenti, ripieni ancora d’autoritá e di potere, vietarono loro talvolta il variar la moneta e gli obbligarono a prometterlo col giuramento; ed i popoli, quasi liberati da gravissimi mali, ne seppero loro buon grado. Si sarebbe l’ereditario orrore potuto cancellare dagli animi popolari nelle ultime necessitá della Francia, se la salutare operazione dell’alzamento non si fusse mista e confusa con altre non tutte lodevoli; e perciò ancora si dura a temere ed abborrire quel, che, essendo cattivo e brutto in sé, è poi qualche volta, al pari della crudele e sanguinosa guerra, necessario e buono. Ma io temo tanto che senza necessitá si metta mano alle monete, che, se non avessi perfetta conoscenza del tempo e del principe sotto cui ho avuta dal cielo la sorte di vivere, o non avrei scritta la veritá, o mi sarei dallo scrivere cosa alcuna astenuto. Intanto la sua virtú m’assicura appieno ch’egli non toccherá mai le monete senza estrema e, dirò quasi, disperata necessitá; e la sua grande e meritata fortuna mi promette che a tale stato, vivente lui, non perverremo giammai. [p. 215 modifica]

CAPO QUARTO

considerazioni sugli avvenimenti della francia
nel 1718 cagionati da una nuova coniata
della moneta con alzamento del
valore di essa

Stato della Francia nel 1718 — Si propone un alzamento — Vi si oppone il parlamento — Prima ragione del parlamento contro all’alzamento esaminata — Seconda ragione esaminata — Conclusione del discorso del parlamento esaminata — Narrazione de’ contrasti tra la corte e il parlamento — Risposta della corte all’antecedente discorso — Rimostranza della Camera de’ conti esaminata — Rimostranza della Camera de’ sussidi — Risposta che meritava l’antecedente discorso — Donde nasceva l’errore del parlamento e dell’altre corti — Quel che seguì dall’alzamento fatto.

Siccome quanto si può dire sull’alzamento fu tutto in Francia nella minore etá di Luigi decimoquinto con grandissima contenzione d’animi disputato tra il parlamento e la corte e seguito da gravissimi accidenti, io stimo cosa non inutile il ricondurre qui ad esame le proposizioni dell’uno colle risposte dell’altra; tantoppiú che l’esempio di una nazione potente ed ingegnosa istruirá piú di qualunque ammaestramento.

Era la Francia nel 1718 oppressa da’ mali che la guerra ultima aveale cagionati, i quali, sebbene non ne durassero le cause, non essendo stati medicati mai, duravano ancora e s’andavano sempre incrudelendo. Filippo d’Orléans, reggente e zio del re, uomo d’animo grande, era non meno afflitto del male che incerto del rimedio. La persecuzione data a’ finanzieri avea vendicata in certo modo la rabbia popolare e saziatala, ma non [p. 216 modifica] dato ordine alle finanze. Il conto fatto dare dal contrôleur général il signor Desmarets, siccome avealo pienamente giustificato, cosí scopriva esser la piaga quasi incurabile. La somma de’ debiti fino al 1708 ascendea a quasi seicento milioni di lire, e in dieci anni s’era fatta sempre maggiore. Questi debiti erano espressi sopra carte, alle quali davasi libero commercio; ma il numero loro divenuto grandissimo e la cognizione dell’impotenza dell’erario reale a pagare sì vaste somme toglieva loro il credito: onde il commercio soffriva intoppo grandissimo, e la misera gente era dissanguata dagli avidissimi usurai, che dicevansi «agioteurs». Per abolire tali biglietti, se ne fece una grossa riduzione; ma, dopo fattala, restandone ancora piú di duecento milioni di lire col frutto loro di tanti anni, il signor D’Argenson, custode de’ sigilli, propose al duca un alzamento di tutta la moneta d’oro e d’argento, con coniarsi di nuovo tutta la vecchia e alzarsi di quasi un terzo di valore. Così, sotto altre sembianze e con movimento piú lungo, si veniva a non pagare il restante de’ biglietti e a lacerargli; ed insomma, come tutti i savi aveano preveduto ed era necessitá, facea la corte un fallimento generale.

Contro tal nuovo consiglio deliberò il parlamento, mosso piú da sdegni privati e da prurito d’applausi popolari che da matura considerazione delle pubbliche necessitá; e i 18 maggio del 1718 si presentò a far rimostranze al sovrano. Di queste io tralascerò le querele della lesa giurisdizione del parlamento e di altre dispute particolari di quel governo, e prenderò ad esaminare solo ciò che appartiene al mio istituto. Si disse nel discorso:

Permetteteci, Monsieur — parlando al duca reggente, — il rappresentarvi che, mentre l’editto fa mostra di voler estinguere i biglietti pagandogli, la perdita è tutta di chi porta alla zecca la moneta. Eccone un esempio. Un particolare porta alla zecca 125 marchi d’argento, che vagliono 5000 lire di quelle che sono di 40 al marco, e porta 2000 lire di biglietti di Stato; ne ritrae poi 7000 lire di nuova moneta, che non pesano piú di 116 marchi: sicché egli perde tutti i suoi biglietti, e dippiú 9 marchi sopra 125. [p. 217 modifica]

Siccome la legge è generale, chi non ha biglietti soffre perdita al pari di chi ne ha; nel tempo che il pagamento de’ biglietti è un debito privilegiato dello Stato, soprattutto dopo tante riduzioni fattene, che ha da esser soddisfatto dal re solo.

Ciò che espose il parlamento è vero, ma, non potendo alla gran mente del duca esser ignoto, fu imprudenza svelarlo alla moltitudine, a cui era espediente non farlo chiaramente percepire. E infatti che ne potea dedurre il parlamento? che il duca d’Orléans ne’ suoi studi chimici avesse dovuta trovar l’arte di far l’oro? Se le rendite regie, come era noto al parlamento, non bastavano a pagar tanto debito, qual altro consiglio v’era, fuorché non pagarlo? E come potea farsí che ciò non fusse danno de’ creditori? Il parlamento non volea nuovi dazi, e sarebbe stato dannoso il porgli sui sudditi poveri per pagare i ricchi sudditi e non pochi stranieri. Dunque quanto si facea doveva esser tutta finzione di pagamento cosí ben condotta, che ne cadesse il danno sopra tutti, acciocché per ciascuno divenisse minore. Il mostrare, perciò, che l’alzamento cadea sopra tutti, è dirne un pregio, non un difetto. Voler che il re solo paghi i biglietti, è dire una grandissima impertinenza; mentre il re solo, senza autoritá di porre dazi, quale il parlamento lo volea, è il piú povero della Francia, se non mette mano a vendere i mobili suoi preziosi. Che se si era detto essere i biglietti un debito privilegiato, s’era fatto per continuar loro qualche residuo di vita e di moto; essendo la fede e la promessa regia l’anima loro, tolta la quale essi cadono estinti affatto.

Continuò a dire il parlamento:


È chiara pruova che i sudditi del re, tutti quanti essi sono, soffrono danno, il potersi affirmare senza eccezione che ad ogni privato s’accrescerá la spesa d’un quarto senza accrescersi il consumo; e la rendita diminuirá d’un terzo. Intanto, per la differenza che corre tra il valore dato dal nuovo editto alle monete e il loro intrinseco, il commercio tutto, e particolarmente lo straniero, soffrirá perdite smisurate. [p. 218 modifica]

Ciò in parte anche è vero, essendo certissimo che crescono le spese, ma non tutte le rendite. È falso però che ambedue queste perdite vadano congiunte, poiché separatamente a molti scemasi la rendita e a molti altri cresce la spesa; ma da tutto ciò altro non viene che una generale economia e risparmio assai desiderabile. Falsissimo è poi che il commercio straniero ne soffra, perché la mutazione de’ cambi rende agli stranieri insensibile l’alzamento. Che se rincresceva ed era molesta una forzosa economia, non era il 1718 tempo di dolersene, ma diciotto anni prima. Il lusso delle monarchie sono le guerre, dagli effetti delle quali nella pace non si può scampare, senza ridursi tutti a vita parca e frugale. Sono per altro degni di scusa i francesi, se si dolsero dell’alzamento, poiché l’ammalato stride ed urla quando si medica, non quando, vivendo sregolatamente, contrae il male; e perciò, se le guerre sono ripiene di lieti canti e di feste e d’allegrezze, e le mutazioni della moneta sono luttuose e meste, se n’ha da argomentare che quelle sono i disordini e i morbi, queste le medicine.

Fu conchiuso il discorso cosí:


Quanto agli stranieri, se noi prendiamo da un di loro una marca d’argento eguale a 25 libbre antiche, ne dovremo dare 60, ed egli ciò, che paga a noi, lo pagherá in moneta nostra, che a lui non costa altro che l’intrinseco.


Questo poi è pensiero falso tutto. È vero che il forestiere pagherá in moneta nuova; ma, avendo lo stesso parlamento predetto che tutto sarebbe rincarato, cioè pagato con maggior numero di lire, lo straniero, dovendo soggiacere a’ prezzi che trova alzati, pagherá le merci piú care, ancorché con moneta piú leggiera; e cosí, quel che risparmia sul peso perdendolo sul numero, non guadagna alcuna cosa.

Onde quel timore, che nella fine del discorso mostrasi d’avere dell’introduzione di monete battute fuori, è malissimo fondato; stantecché, dove non v’è sproporzione tra i metalli, non può farsi guadagno sul conio; e, quando fosse stato possibile ciò che si temeva, sarebbe stato da gradirsi molto per la Francia, [p. 219 modifica] rimasa quasi senza denaro. Temette dunque il parlamento d’un bene impossibile, ma grandissimo, e ne temette come di un male prossimo e funesto. Né creda alcuno che l’aver il parlamento in una sola notte deliberato, meriti addursi per iscusa, perché lo stesso ne sarebbe stato anche dopo lungo esame; essendo queste sue considerazioni quelle che dalla superficiale meditazione, quale il piú degli uomini usano, sogliono presentarsi alla mente.

Ora, per continuare la storia, il re non rispose al parlamento, se non dicendo che l’editto e l’opera non si poteano piú sospendere né rivocare. Fattosi animo, il parlamento, di sua autoritá, rivocò ed annullò l’editto con espressioni sediziose. Consiglio imprudente e che fu fatale alla Francia. Il Consiglio di Stato annullò subito l’arresto del parlamento de’ 29 giugno, né fece altra dimostrazione; ascoltando anzi tranquillamente la nuova rimostranza, che fu fatta dal primo presidente con termini assai rispettosi. A questa ed alla prima rispose finalmente il custode de’ sigilli i 2 luglio, con risposta degna della sapienza e superioritá d’animo di chi reggeva. Disse che


il re, essendo persuaso doversi pagare i debiti dello stato dallo stesso stato, in difesa di cui sonosi contratti, crede che tutti gli ordini del suo regno gareggeranno in soddisfargli, né nelle dignitá, nascita o privilegi loro cercheranno uno scampo indegno del loro zelo e fedeltá. I danni privati de’ creditori sono compensati dall’utilitá pubblica e dalla liberazione piú facile e pronta de’ debitori; e i terreni, che sono la vera ricchezza dello Stato, divenendo migliori delle carte obbligatorie, cresceranno di rendita e di prezzo. L’esazione delle imposizioni sul popolo miserabile sará piú facile, e perciò meno grave ad esso, piú copiosa al re, e l’introito di giugno l’ha giá fatto vedere.


Questa risposta, di consumata prudenza, in poche parole scuopre la falsitá delle opposizioni. Ad essa seguirono nuove e mal intese rimostranze, terminate dal grande e memorabile lit de justice de’ 26 agosto, col quale fu depresso ed umiliato il parlamento, con caduta tale, donde egli non è mai piú risorto. [p. 220 modifica]

Ma, prima che tali cose accadessero, aveano giá le due Camere de’ conti e de’ sussidi, per non parer da meno, fatte le loro rappresentanze i 30 giugno.

La Camera de’ conti, per bocca del presidente Paris, avea esposto che


l’alzamento rendea il commercio impossibile, i cambi enormi, le mercanzie straniere raddoppiate di prezzo, restando le monete di Francia fra gli stranieri sul piede delle loro. La facilitá del contraffare e la lusinga d’un immenso guadagno potea riempir la Francia di monete adulterine. Il commercio interiore anche era danneggiato dall’alzamento, che scemava il consumo.


Tutte cose false e sconciamente dette. Il commercio non potea diventare inpossibile, essendo tra due sudditi egualmente aggravati dal male, che, secondo essi, siegue dietro la mutazione della moneta; e, quando ha pari bisogno il venditore e il compratore, sempre i prezzi sono moderati. I cambi non fansi enormi, fuorché in voce; il che non importa. Se divenisse il cambio tra Roma e Napoli d’uno a mille, quando il ducato sará la millesima parte dello scudo, sará sempre il cambio alla pari. Se le merci straniere rincaravano, meno se ne doveano spacciare: dunque meno denaro andava fuori. Se il consumo delle natie scemava, piú ne restavano da mandar fuori. La falsificazione era male che sempre si potea temere; ma non v’era ragione alcuna per cui si dovesse temere piú allora che in altro tempo, come quello che non ha connessione alcuna coll’alzamento; e si trovò infatti che niuno Stato vicino mandò in Francia monete.

Il presidente Le Camus, per parte della Corte de’ sussidi o des aides, parlò poi con piú eloquenza, ma non con sapienza maggiore. Disse


esser male grandissimo il rincarar delle merci giá cominciato a sentire; colla carestia privarsi i popoli degli agi della vita; che per lo spaccio diminuito si dismetterebbero le manifatture ed uscirebbero dal regno gli artefici; che le gabelle del re anche diminuirebbero, scemato il consumo; che, se i re predecessori [p. 221 modifica] aveano fatta cosa simile, era stato in tempo di gravi guerre e d’estremi bisogni, né mai aveano fatto alzamento si grande, ed aveano sempre promesso ed osservato, ritornata la pace, rivocarlo. Ma che in mezzo ad una profonda pace, dopo la stanchezza di una guerra crudelissima e perigliosa, era colpo troppo acerbo e crudele.

A si fatto discorso, a cui non détte risposta il duca d’Orléans, io credo ch’egli avrebbe potuto rispondere cosi. Che i popoli restino privi di molte comoditá, lo sappiamo e ce ne duole; ma d’un debito di tanti milioni neppur una lira n’abbiamo noi contratta, e tutto conviene ad ogni costo estinguerlo e liberare lo Stato da tanti biglietti discreditati. Che lo spaccio sará minore, lo crediamo; ma da ciò speriamo che piú mercanzie s’abbiano da estrarre, e che le stoffe, e non gli artefici, andranno fuori e rimanderanno in Francia quel denaro che dalle guerre è stato asciugato. Se le gabelle scemano per lo minore consumo, crescono le dogane per la maggiore estrazione. Se i nostri predecessori han fatto alcun alzamento, è segno ch’ei può farsi, e non sempre doversene pentire. S’essi l’han fatto in mezzo a gravi guerre, noi lo facciamo alla fine d’una di cui non ha avuta mai la Francia la maggiore; ed abbiamo aspettata la pace, sí perché Luigi decimoquarto non ha avuto cuore nella sua cadente etá di curar piaghe cosí profonde, sí perché la convalescenza e la buona stagione sono piú proprie alle forti medicine. Con tante centinaia di milioni di cattivi biglietti, volersi riposare e goder la pace è pazzia. Voler aver promessa che l’alzamento, che si fa sará disfatto, è pernicioso desiderio d’una cosa manifestamente cattiva.

Tutte le opposizioni sopraddette nascevano dall’ignoranza di questa veritá: che, a voler escludere un rimedio plausibile d’un male doloroso, bisogna produrne un migliore; perché il popolo, quando si duole del presente stato, siegue sempre i nuovi consigli, sperando migliorare. Perciò non fu, come uno scrittore disse2, fatale alla Francia che il parlamento non [p. 222 modifica] fosse stato riguardato; ma fu fatale l’aver pensato d’opporsi, avendo, per cosí imprudente mossa, perduta in un istante tutta quell’autoritá e stima che, col favorire le opinioni popolari e meno cortigiane, aveasi da gran tempo conciliata. Né si ricordò il parlamento quando convenga avvertire alla forza dell’arme che si maneggia e dello scudo su cui si percuote, e che, se non si rompe l’uno, si fiacca infallantemente l’altra. Così ad altri, per aver vibrata un’armatura piú temuta che forte contro un corpo di perfetta soliditá, se gli spuntò in modo che non se n’è potuto piú servire.

Fecesi adunque l’alzamento; ma dall’esito suo non si può prender regola, essendo stato interrotto dal sistema della banca e della compagnia del Misissipi. Solo ne fu macchiata la fama del duca d’Orléans, contro cui non restò calunnia o atroce ingiuria che non fosse inventata, profferita e creduta. Grande ammaestramento dell’ingiustizia degli umani giudizi. Luigi decimoquarto, dopo stancate le penne e gli elogi dell’eloquenza, ottenne il nome di «grande», che certamente gli è ben dovuto. Filippo d’Orléans, dí cui non v’è dubbio che trovò la Francia moribonda, lasciolla sana, invece d’un nome glorioso, è morto con memoria d’abominazione. E pur questo non è strano, perché io ho veduto sempre gli uomini (e siami lecito framischiare a tanta serietá una espressione giocosa) maledire i chirurghi e non le amiche.

  1. N. H., xxxiii, 13 (3) [Ed.].
  2. L’autore della Vita del duca d’Orléans, da cui tutti questi avvenimenti sono diffusamente narrati.