Della moneta/Libro I/Capo II
Questo testo è completo. |
◄ | Libro I - Capo I | Libro I - Capo III | ► |
CAPO SECONDO
dichiarazione de’ princípi onde nasce il valore
delle cose tutte — dell’utilitá e della
raritá, princípi stabili del valore —
si risponde a molte obiezioni
Varietá d’opinioni intorno al natural valore de' metalli — Sentimento di Aristotele — Definizione del valore — Varietá del valore, conseguenza a tal definizione — Ragioni componenti il valore — Vera spiegazione dell’utile — Quali sieno le cose piú utili, secondo la maniera d’apprendere che hanno gli uomini — Passione degli uomini pel fasto — Passione delle donne per la bellezza, e quanto questa sia ragionevole — Ornamenti de’ bambini — Si risponde alla volgare obiezione sull’inutilitá di molte cose stimate — Perchè le cose piú utili non siano le piú stimate — Importuno disprezzo de’ filosofi — Che cosa sia la raritá, e ragioni componenti della medesima — La quantitá della materia — La fatica — Calcolo di essa — Il tempo — Quale tempo si valuti come necessario, quale no — Vario prezzo dell’opera umana, e donde derivi — Valore de’ talenti umani — Altre riflessioni sullo stesso soggetto — Si risponde a tutte le obiezioni — Conchiusione del giá detto — Riflessioni sulla moda e sulla forza di lei — Del valor delle cose uniche — Difficoltá del calcolo del prezzo a priori — Concatenazione tra il prezzo ed il consumo, e come l’uno dipenda dall’altro reciprocamente — Come il consumo incarisca il prezzo, e come il prezzo caro diminuisca il consumo — Donde nasca la mutazione, stante questo concatenamento — Si spiega come sia concatenato il consumo col prezzo e il prezzo col consumo.
L’acquisto dell’oro e dell’argento, onde la moneta piú preziosa è costituita, è stato in ogni tempo, ed è ancora, l’ultima meta de’ desidèri della moltitudine, il disprezzo e lo schifo di que’ pochi, che s’arrogano il nome venerando di «savi». Delle quali opposte opinioni, siccome quella è spesse volte vile o mal regolata, cosí è questa per lo piú o ingiusta o poco sincera. Intanto, gli uni per soverchio, gli altri per poco prezzargli, niuno ne rimane, che del valore di questi metalli sanamente stimi e ragioni. Grandissimo numero di gente io sento esser persuasa che il loro pregio sia puramente chimerico ed arbitrario e che derivi da un error popolare, che insieme colla educazione si forma in noi; ed è perciò nominato da questi sempre co’ titoli ingiuriosi di «pazzia», «delirio», «inganno» e «vanitá». Evvi chi, piú discreto, crede che il consenso degli uomini determinatisi ad usar la moneta ha dato imprima a questi metalli, de’ quali piacque servirsi, quel merito, ch’essi non aveano in sè. Pochissimi sono, i quali conoscano che questi hanno nella loro natura istessa e nella disposizione degli animi umani fisso e stabilito costantemente il loro giusto pregio e valore. Di quanta conseguenza sia il determinare questa veritá prima d’inoltrarsi, lo conoscerá il lettore, vedendo che ad ogni passo, disputando del valore estrinseco, dell’alzamento, degl’interessi, del cambio e della proporzione della moneta, sempre ad un certo valore intrinseco e naturale si ha ragione.
Aristotele, uomo per altro d’ingegno grandissimo e maraviglioso, nel libro quinto de’ Costumi, al capitolo settimo, ove ha molte belle considerazioni esposte, intorno alla natura della moneta ha pensato cosí: τὸ νόμισμα γέγονε κατὰ συνθήκην· καὶ διὰ τοῦτο τοῦνομα ἔχει νόμισμα, ὅτι οὐ φύσει ἀλλὰ νόμῳ ἐστί, καὶ ἐφ’ ἡμῖν μεταβάλειν καὶ ποιῆσαι ἄχρηστον. «Ex convento successit nummus, atque ob hanc causam νόμισμα vocatur [a Graecis], nempe a lege, quia non natura, sed lege valeat, sitque in nostra potestate eum immutare inutilemque reddere». E nelle Opere politiche, al libro primo, capitolo sesto, lo stesso ripete. Or, se ne’ suoi insegnamenti è stato questo filosofo oltre il dovere, con nostro danno, seguitato, in niuno piú che in questo lo è stato. Quindi si vede che il vescovo Covarruvias in questo modo siegue ad argomentare dietro al suo maestro: «Si non natura ipsa, sed a principe valorem numismata accipiunt, et ab ipso legem revocante inutilia effici possunt, profecto non tanti aestimatur materia ipsa auri vel argenti, quantum numus ipse; cum, si tanti aestimaretur, natura ipsa, non lege, pretium haberet». Ed in simil guisa gli aristotelici, da’ quali il corpo de’ moralisti e de’ giurisconsulti si può dire costituito, ragionano. Quanto giuste sieno tali conseguenze, posto vero quel fondamento, è manifesto. Quanto possano essere fatali e produttrici di pianto ad un popolo, non vorrei che l’esperienza propria ce lo avesse mai a dimostrare. Ma a queste opinioni non si può contraddire senza distruggerne la base. Quindi io non so, nè giungo a capire, come sia stato possibile che Giovanni Locke, il Davanzati, il Broggia, l’autore dell’opera Sul commercio e l’altro di quella Dello spirito delle leggi, con altri non pochi, non negando il primo principio, abbiano avuti contrari sentimenti e solidamente edificato sopra un falso fondamento, senza sentire nè la debolezza di questo nè il vacillamento di quello. Perciò io, prima d’ogni altro, con ogni mio studio m’ingegnerò dimostrare quello, onde vivo da gran tempo persuaso, che non solo i metalli componenti la moneta, ma ogni altra cosa al mondo, niuna eccettuandone, ha il suo naturale valore, da principi certi, generali e costanti derivato; che nè il capriccio, nè la legge, nè il principe e nè altra cosa può far violenza a questi principi e al loro effetto; e infine che nella stima gli uomini, come gli scolastici dicono, «passive se habent». Sopra queste basi qualunque edifizio s’innalzerá, sará durevole e sempiterno. Perdonerá il lettore qualunque lunghezza mia all’importanza della materia; e, quando ne volesse incolpar me, ne incolpi con piti ragioncquelPinfinito numero di scrittori, che una tanta veritá o non ha conosciuto o non ha voluto, come si conveniva, dimostrare.
Il valore delle cose (giacchè io di tutte generalmente ragiono) è da molti definito la stima che di esse hanno gli uomini; ma forse queste voci non risvegliano un’idea piú chiara e distinta di quel che le prime facessero. Perciò si potria dire che la stima, o sia il valore, è una idea di proporzione tra ’l possesso d’una cosa e quello d’un’altra nel concetto d’un uomo. Cosí, quando si dice che dieci staia di grano vagliono quanto una botte di vino, si esprime una proporzione d’egualitá fra l’aver l’una cosa o l’altra; onde è che gli uomini, oculatissimi sempre a non essere de’ propri piaceri defraudati, l’una cosa con l’altra cambiano, perchè nella egualitá non v’è perdita nè inganno.
Giá, da questo che ho detto, si comprende ch’essendo varie le disposizioni degli animi umani e vari i bisogni, vario è il valore delle cose. Quindi è che altre, essendo piú generalmente gustate e ricercate, hanno un valore, che si chiama «corrente»; ed altre solo dal desiderio di chi le brama avere e di chi le dá si valutano.
Il valore adunque è una ragione; e questa composta da due ragioni, che con questi nomi esprimo: d’utilitá e raritá. Quel ch’io m’intenda, acciocchè sulle voci non si disputi, l’andrò con esempli dichiarando. Egli è evidente che l’aria e l’acqua, che sono elementi utilissimi all’umana vita, non hanno valore alcuno, perchè manca loro la raritá; e per contrario un sacchetto d’arena de’ lidi del Giappone rara cosa sarebbe, ma, posto che non avesse utilitá particolare, non avrebbe valore.
Ma qui giá conosco che non mancherá chi mi domandi qual grande utilitá io trovi in molte merci, che hanno altissimo prezzo. E, perchè questa difficoltá naturale e frequente viene a dichiarare stolti e irragionevoli gli uomini, e distrugge nel tempo stesso que’ fondamenti che ha la scienza della moneta, sará necessario entrare piú diffusamente a dire dell’utilitá delle cose, e come questa si misuri. Se ella non ha principi certi onde dipenda, non gli avrá neppure il prezzo delle cose; e allora non sará piú scienza quella delle monete, perchè non v’è scienza dove non v’è dimostrazione e certezza.
«Utilitá» io chiamo l’attitudine che ha una cosa a procurarci la felicitá. È l’uomo un composto di passioni, che con disuguale forza lo muovono. Il soddisfarle è il piacere. L’acquisto del piacere è la felicitá. Nel che (perchè io, non essendo epicureo, non voglio neppure parerlo) mi si permetta che mi spieghi alquanto e dall’intrapreso argomento mostri di declinare. Egli è da avvertire che quell’appagamento d’una passione, che ne punge e ne molesta un’altra, non è compito piacere; ma anzi, se la molestia che dá è maggiore del piacere, come vero male e dolore conviene che s’abborrisca. Se il dolore è meno del piacere, sará un bene, ma tronco e dimezzato. Questo cammina cosí riguardo a piaceri di questa vita assolutamente considerata, come se insieme coll’altra eterna si rimira. È a noi (grazie alla provvidenza) manifesto che dopo questa viveremo un’altra vita, i piaceri o i dolori della quale colle operazioni della presente sono strettamente congiunti. Or dunque, non mutando da quel che ho detto, i piaceri di questa vita, che a que’ dell’altra non nuocono, sono veri e perfetti; ma que’, che in quella vita produrranno pena (essendo la disparitá fra i piaceri e le pene dell’una vita e dell’altra infinita), sia pur grande quanto si voglia il gusto di qua e piccolo il male di lá, sempre saranno mentiti piaceri e bugiardi. Se questa dichiarazione, che pur molte righe non occupa, si facesse da ognuno, l’antichissimo litigio, che è tra gli epicurei e gli stoici, fra la voluttá e la virtú, non si sarebbe udito, e o avrebbero avuto torto gli stoici, o si saria conosciuto che solo nelle parole insensatamente si disputava. Ritorno onde partii.
Utile è tutto quello che produce un vero piacere, cioè appaga lo stimolo d’una passione. Or le nostre passioni non sono giá solamente il desiderio di mangiare, di bere, di dormire. Sono queste solamente le prime, soddisfatte le quali, altre egualmente forti ne sorgono. Perchè l’uomo è cosí costituito, che, appena acquetato che egli ha un desio, un altro ne spunta, che sempre con forza eguale al primo lo stimola; e cosí perpetuamente è tenuto in movimento, nè mai giunge a potersi intieramente soddisfare. Perciò è falso che le sole cose utili siano quelle che a’ primi bisogni della vita si richieggono: nè, fra quel che ci bisogna e quel che no, si può trovare il limite ed i confini; essendo verissimo che, subito che si cessa d’aver bisogno d’una cosa ottenendola, si comincia ad averne d’un’altra desiderandola.
Ma fra tutte le passioni, che appariscono nell’animo umano, quando sono soddisfatte quelle le quali ci sono communi co’ bruti e che alla conservazione dell’individuo o delle spezie sono determinate, niuna ne è piú veemente e forte a muover l’uomo quanto il desio di distinguersi e d’essere superiore fra gli altri. Questa essendo primogenita dell’amor proprio, quanto è a dire del principio d’azione che è in noi, supera ogni altra passione, e fa che quelle cose, che giovano a soddisfarla, hanno il massimo valore, sottoponendosi all’acquisto loro ogni altro piacere, e spesso la sicurezza della vita istessa. Se giustamente operino, cosí pensando e regolandosi, gli uomini, lo giudichi ciascuno: certo è però che non con ragion maggiore comprano gli uomini il vitto quando non ne hanno, che un titolo di nobiltá quando di vitto son provveduti: perchè, se è misera ed infelice la vita quando siam digiuni, infelice è del pari quando non siamo stimati nè riguardati; e talora è tanto maggiore questa infelicitá, che piú tosto ci disponiamo a morire o a porci in evidente rischio di perder la vita che senza il rispetto altrui infelicemente vivere. Qual cosa adunque piú giusta che il proccurarsi, anche con grande e lungo stento e fatica, una cosa, che grandemente è utile, perchè produce molti e grandi piaceri? Che se si deride questo sentir piacere della stima e riverenza altrui, è ciò un biasimare la nostra natura, che tale disposizione d’animo ci ha data, non noi che, senza potercela togliere, l’abbiamo avuta, e di cui, come della fame, della sete e del sonno, nè dobbiamo nè possiamo render conto o ragione ad alcuno. Che se certi filosofi hanno mostrato disprezzo per questa stima altrui, e le ricchezze e le dignitá hanno calpestate; se essi dicono ciò aver fatto, perchè loro non dava piacere la venerazione degli altri, ne mentono: perchè non da altro principio a cosí parlare e dimostrare si sono mossi, che per la sicurezza, in cui erano, di dovere essere, dimostrando di cosí credere ed operare, altamente applauditi dal popolo e commendati1.
Sicchè quelle cose, che ci conciliano rispetto, sono meritamente nel massimo valore. Tali sono le dignitá, i titoli, gli onori, la nobiltá, il comando, che nel numero delle cose incorporee per lo più sono. Seguono immediatamente dietro alcuni corpi, che per la loro bellezza sono stati in ogni tempo graditi e ricercati dagli uomini; e coloro, che hanno avuto in sorte il possedergli e l’ornarsene la persona, ne sono stati stimati ed invidiati.
Sono questi le gemme, le pietre rare, alcune pelli, i metalli piú belli, cioè l’oro e l’argento, e qualche opera dell’arte, che in sè contenga molto lavoro e bellezza. Per una certa maniera di pensare di tutti gli uomini, che portano rispetto all’esteriore adobbamento delle persone, sono questi corpi divenuti atti a dare altrui quella superioritá, che, come io dissi, è il fonte del piú sensibile piacere. Quindi il loro valore meritamente è grande; essendo pur troppo vero che i re istessi debbono la piú gran parte della venerazione de’ sudditi a quell’esteriore apparato che sempre gli circonda, spogliati dal quale, ancorchè conservassero le medesime doti dell’animo e potestá, che prima avevano, hanno conosciuto che la riverenza verso di loro si è grandemente scemata. E perciò quelle potestá, che hanno meno vera forza ed autoritá, cercano con piú attenzione di pompa esteriore regolare l’idee degli uomini, fra i quali l’augusto ed il magnifico spesse volte altro non è che un certo niente ingrandito, che «formalitá» si chiama, con voce tratta dalle scuole ed assai acconciamente adattata, intendendo per essa «id quod non est, neque nihil, neque aliquid».
Ma, se negli uomini il desiderio di comparire genera affetto a queste piú rare e belle produzioni della natura, nelle donne e ne’ bambini la passione ardentissima di parer belli rende al sommo prezzabili questi corpi. Le donne, le quali costituiscono la metá dell’umana specie, e che o intieramente o in grandissima parte solo alla propagazione ed educazione nostra paiono destinate, non hanno altro prezzo e merito che l’amore che destano ne’ maschi; e, derivando questo quasi tutto dalla bellezza, non hanno elleno altra cura maggiore che d’apparir belle agli occhi dell’uomo. Quanto a questo conferiscano gli ornamenti è dal comune consenso confessato: dunque, se la valuta nelle femmine nasce dall’amabilitá, e questa dalla bellezza, la quale dagli ornamenti si accresce, troppo a ragione bisogna che altissimo sia il valore di questi nel loro concetto.
Che se ai bambini si riguarda, sono essi la piú tenera cura de’ genitori; e questa tenerezza d’amore d’altra maniera non sanno gli uomini appalesare, che in render vago e leggiadro l’oggetto amato agli occhi loro. Or che non fará l’uomo, quando dal desio di soddisfar la donna, d’adornare i figliuoli è mosso? Così è avvenuto che, prima nelle arene de’ fiumi, poi nelle viscere della terra, si sono a grande stento raccolti i metalli piú belli. E quindi è ancora che quelle nazioni istesse, che ricche di questi metalli si credono, come sono i messicani e i peruani, dopo le gemme niuna cosa piú dell’oro e dell’argento prezzarono. E, se stimarono piú le nostre bagattelle di vetro e di acciaio, ciò confirma e non distrugge quel che io ho detto di sopra; perchè la bellezza de’ nostri lavori fu quella che gl’incantò. L’esser poi questa bellezza del vetro e del cristallo fatta dall’arte e non dalla natura, ciò non varia il pregio, se non perchè ne varia la raritá; il che essendo ignoto agli americani, non se ne può prender argomento contrario a quel che io ho dimostrato.
Ma la piú gran parte degli uomini, insieme con Bernardo Davanzati, ragiona cosí: «Un vitello naturale è piú nobile d’un vitel d’oro, ma quanto è pregiato meno?». Rispondo. Se un vitello naturale fosse cosí raro come uno d’oro, avrebbe tanto maggior prezzo del vitello d’oro, quanto l’utilitá e il bisogno di quello è maggiore di questo. Costoro immaginansi che il valore derivi da un principio solo, e non da molti che si congiungono insieme a formare una ragione composta. Altri sento che dicono: «Una libbra di pane è piú utile d’una libbra d’oro». Rispondo. Questo è un vergognoso paralogismo, derivante dal non sapere che «piú utile» e «meno utile» sono voci relative e che secondo il vario stato delle persone si misurano. Se si parla d’uno, che manchi di pane e d’oro, è certamente piú utile il pane; ma a questo corrispondono e non son contrari i fatti, perchè non si troverá alcuno che lasci il pane e di fame si muoia, prendendosi l’oro. Coloro, che scavano le miniere, non si scordano mai di mangiare e di dormire. Ma a chi è sazio, vi è cosa piú inutile del pane? Bene è dunque, se egli allora soddisfa altre passioni. Perciò questi metalli sono compagni del lusso, cioè di quello stato, in cui i primi bisogni sono giá soddisfatti. Perciò, se il Davanzati dice che «un uovo, il quale un mezzo grano d’oro si pregia, valeva a tener vivo dalla fame il conte Ugolino nella torre ancora il decimo giorno, che tutto l’oro del mondo non valeva», egli equivoca bruttamente fra il prezzo, che dá all’uovo chi non teme morir di fame se non lo ha, e i bisogni del conte Ugolino. Chi gli ha detto che il conte non avria pagato l’uovo anche mille grani d’oro? L’evidenza di questo errore la manifesta a noi lo stesso Davanzati, poco dopo, ma senza avvedersene egli, dicendo: «Schifissima cosa è il topo; ma nell’assedio di Casilino uno ne fu venduto duecento fiorini per Lo gran caro; e non fu caro, poichè colui, che il vendè, morio di fame, e l’altro scampò»2. Ecco che pur una volta, grazie al cielo, ha confessato che «caro» e «buon mercato» sono voci relative.
Se poi alcuno si maraviglierá come appunto tutte le cose piú utili hanno basso valore, quando le meno utili lo hanno grande ed esorbitante, egli dovrá avvertire che con maravigliosa provvidenza questo mondo è talmente per ben nostro costituito, che l’utilitá non s’incontra mai, generalmente parlando, colla raritá; ma anzi, quanto cresce l’utilitá primaria, tanto si trova piú abbondanza, e perciò non può esser grande il valore. Quelle cose, che bisognano a sostentarci, sono cosí profusamente versate sulla terra tutta, che o non hanno valore o l’hanno assai moderato. Non si hanno però da questa considerazione a ritrarre falsi pensieri di accuse contro al nostro intendimento, e ingiusto disprezzo di quel che noi apprezziamo, come tanti fanno; ma si bene si dovrebbero produrre ognora sentimenti di umiliazione e di rendimento di grazie alla mano benefica di Dio e benedirla ad ogni istante; il che da ben pochi si fa.
Forse mi sará detto da molti filosofi che, sebbene è vero che il valore delle gemme e delle cose rare sia sulla natura umana fondato, come io ho dimostrato, non cessano però di parer loro questi concetti ridicoli e miserabili deliri. Alle quali persone io rispondo che non so se alcuna cosa umana troveranno essi, che non sembri loro tale; e da questa opinione non sono per frastornargli. Ma io amerei che il buon filosofo, dopo che s’è spogliato da’ terreni inganni e, quasi disumanandosi, si è tanto sopra gli altri alzato, che ha potuto di noi meschini mortali ridere e prender sollazzo, quando poi da questi pensieri si distacca, ritorna in giú e nella societá si framischia (al che lo sforzano i bisogni della vita); vorrei, io dico, vederlo tornar uomo comune, e non filosofo. Quel riso, che, quando e’ filosofava, ha sanato il suo animo, ora, ch’egli opera, potrebbe i suoi e gli altrui fatti perturbare. Meglio è che restino questi concetti nel suo animo racchiusi; e, conoscendo e deplorando insieme co’ suoi pari, s’ei vuole, chè io gliel concedo, quanto sia poco l’uomo superiore a’ bruti, non venga a fargli male, volendolo migliorare. Impossibile impresa è questa per lui. Se nella nostra divina religione gli uomini alla perfetta virtú si guidano, sono i nostri maestri da soprannaturale e divino potere aiutati; e, se fra noi esempi di altissima perfezione si veggono, sono queste opere della celeste grazia e non dell’umana natura. Chi dunque siffatte armi ha seco, venga a perfezionarci, chè ben lo può; ma la filosofia non giunge a questo. Perciò si sono veduti gli stoici, che, volendo far gli uomini perfettamente virtuosi, gli resero ferocemente superbi. Altri, nel volergli taciturni e contemplativi, gli fece mangioni; chi, volendogli poveri, gl’incrudeli; e Diogene, da’ pregiudizi volendogli purgare, istituí una infame razza di cani. Ci lascino dunque costoro vivere in pace. Lascino ai metalli e alle gemme quella stima, comunque ella siesi, che tengono. Non gridi Orazio piú:
Vel nos in mare proximum
gemmas et lapides, aurum et inutile
summi materiem mali
mittamus.
Se per mezzo di quest’inutili corpi noi dalla ferina vita, in cui ci mangiavamo l’un l’altro, alla civile, in cui in pace ed in commercio viviamo, siamo non senza stento trapassati, non ci facciano ora, per rigore di sapienza, tornare a quella barbarie, donde per dono della provvidenza siamo felicemente scampati. Il comune degli uomini non si può nelle idee oltre a certi limiti migliorare; e, volendolo ad ogni modo fare, l’ordine delle cose si guasta e si corrompe.
Lasciando adunque nel loro disprezzo tutte queste considerazioni, che sono figliuole d’una superficiale ed imperfetta meditazione, si concluda una volta che que’ corpi, che agli uomini accrescono rispetto, alle donne bellezza, ai fanciulli amabilitá, sono utili e meritamente preziosi. Da questo si dee trarre l’importantissima conseguenza, che l’oro e l’argento hanno valore come metalli anteriore all’esser moneta; il che piú a lungo nel seguente capo si tratterá. Ora, che del valore in generale io parlo, avendo spiegato quel che da me colla voce di «utilitá» s’intenda, passo a parlare della raritá.
Io chiamo «raritá» la proporzione che è fra la quantitá d’una cosa e l’uso che n’è fatto. Chiamo «uso» nommeno il distruggimento che l’occupazione d’una cosa, la quale impedisce che, mentre uno ne fa l’uso, possa questa soddisfar anche i desidèri d’un altro. Siano, per esempio, cento quadri esposti in vendita: se un signore ne compra cinquanta, i quadri diventati rari quasi del doppio, non perchè si consumino, ma perchè cinquanta ne sono tolti dalla venalitá; il che in qualche maniera può dirsi uscire fuori del commercio. Vero è però che piú incarisce le cose il distruggimento che questa estrazion dal commercio: poichè quello toglie affatto ogni speranza, questa si valuta secondo la probabilitá, che vi è, che la cosa occupata e ristagnante torni alla venalitá ed al commercio; e questo merita assai riflessione.
Passando ora a dire sulla quantitá della cosa, dico che sonovi due classi di corpi. In alcuni ella dipende dalla diversa abbondanza con cui la natura gli produce: in altri solo dalla varia fatica ed opera che vi s’impiega. È la prima classe formata da que’ generi che si riproducono dopo breve tempo e col distruggimento si consumano, quali sono i frutti della terra e gli animali. In essi con la medesima fatica ad un di presso si può, secondo la varietá delle stagioni, fare una ricolta otto e dieci volte maggiore di quello che solo un anno prima si sará fatta. Quindi è che l’abbondanza non ne dipende dall’umana volontá, ma dalla disposizione del clima e degli elementi. Nell’altra classe debbonsi numerare certi corpi, come i minerali, le pietre, i marmi, i quali non sono in ogni anno variamente prodotti, ma furono tutti insieme nel mondo sparsi, e de’ quali la raccolta corrisponde alla volontá nostra; perchè, se piú gente vi s’impiega, piú se ne può dalle viscere della terra ottenere. Sicchè, volendo far calcolo su questa classe di corpi, non si dee computare altro che la fatica del raccoglimento, essendo la quantitá della materia sempre ad essa corrispondente. Non giá che io creda che nuovi metalli e gemme non si rigenerino ne’ suoi grandi lavoratorii dalla natura; ma, essendo questa produzione lentissima, al pari del distruggimento non dee tenersene conto.
Entro ora a dire della fatica, la quale non solo in tutte le opere che sono intieramente dell’arte, come le pitture, sculture, intagli, ecc., ma anche in molti corpi, come sono i minerali, i sassi, le piante spontanee delle selve, ecc., è l’unica che dá valore alla cosa. La quantitá della materia non per altro coopera in questi corpi al valore, se non perchè aumenta o scema la fatica. Cosí nelle sponde di molti fiumi, se alcuno richiede perchè, essendo mista l’arena all’oro, val piú l’oro dell’arena, se gli fa avvertire che, se uno vuole in un quarto d’ora empir un suo sacco d’arena, lo può comodamente eseguire; ma, se lo vuol pieno d’oro, molti anni intieri gli bisognano a raccogliere i rarissimi granelli d’oro, che quella sabbia contiene.
Nel calcolar la fatica si dee por mente a tre cose: al numero della gente, al tempo e al diverso prezzo della gente che fatica. Dirò del numero della gente in prima. Certa cosa è che niuno fatica se non per vivere, nè, se non vive, può faticare. Dunque, se per la manifattura d’una balla di panno, cominciando a supputare dalle lane tosate fino allo stato in cui si espone in bottega, vi si richiede l’opera di cinquanta persone, valerá questo panno, piú della sua lana, un prezzo eguale alla spesa del nutrimento di questi cinquanta uomini per un tempo eguale a quello della fatica: che se venti vi si sono impiegati per un giorno intero, dieci per mezzo e venti per tre giorni, il valore del panno sará eguale al nutrimento di un uomo per ottantacinque giorni; e di questi giorni, venti ne guadagnano i primi, cinque i secondi, sessanta i terzi. Ciò è manifesto, supponendo che questa gente abbia tutta mercedi eguali. Diciamo ora del tempo.
Nel tempo non dee supputarsi quel solo in cui sull’opera si sta, ma quello ancora che in riposo uno vive, perchè anche nel tempo del riposo dee nutricarsi. Questo è però, quando la fatica è interrotta o dalla natura istessa dell’arte o dalla legge, ma non dalla pigrizia; se pure questa pigrizia non è cosí generale in una nazione, che al pari del costume e della legge abbia vigore. Cosí le feste fra que’ popoli, che le osservano senza faticare, rendono le merci piú care che altrove. Perchè, ponendo che un uomo, con affaticarsi trecento giorni in un anno, compia cento paia di scarpe, il valore di queste è necessario che corrisponda all’intiero suo vitto d’un anno. Che se altri, lavorando trecentosessanta giorni, compisce centoventi paia, costui venderá le sue un quinto meno, non avendo necessitá di trarre da centoventi paia di scarpe altro guadagno che quel che il primo trae dalle sue cento.
Sono inoltre alcuni lavori, che per natura non possono assiduamente esercitarsi. Tali sono le belle arti: perchè io non credo che alcuno scultore o musico vi sia, che piú di cento giorni in un anno si travagli; tanto tempo si richiede in trovar da lavorare, riscuotere, viaggiare ed altro, e quindi la loro industria è giustamente piú cara. In ultimo si avverta all’etá diversa, in cui secondo i vari mestieri può l’uomo cominciare a trar profitto dalla sua fatica. Perciò quelle arti e quegli studi, che molto tempo ricercano ad apprendersi e molta spesa a’ genitori, in maggior prezzo sono; come il legno de’ pini e delle noci piú caro si paga, per la lentezza di questi alberi a crescere, che non si fa del pioppo e dell’olmo.
Questo è del tempo. Ma della valuta varia de’ talenti umani, onde nasce il diverso prezzo delle fatiche, il poter far giusto computo è piú astrusa ricerca e assai meno nota. Io ne dirò quel che penso, restando incerto se altri come me giudichi, mentre non ho trovato scrittore alcuno che ne ragioni. Sentirò piacere infinito se, da chi pensasse diversamente e meglio, sarò con ragioni e con onestá oppugnato.
Io stimo che il valore de’ talenti degli uomini si apprezzi in quella stessissima guisa che si fa di quello delle cose inanimate, e che sopra i medesimi principi di raritá e utilitá, congiunti insieme, si regga. Nascono gli uomini dalla provvidenza a vari mestieri disposti, ma con ineguale proporzione di raritá, e corrispondente con mirabile sapienza a’ bisogni umani. Cosí, di mille uomini, seicento, per esempio, ne sono unicamente atti all’agricoltura, trecento alle manifatture di varie arti inclinati, cinquanta alla piú ricca mercatura, e cinquanta agli studi ed alle discipline sono disposti a ben riuscire. Or, ciò posto, il merito d’un uomo di lettere, paragonato al contadino, sará in ragion reciproca di questo numero, cioè come 600 a 50, o sia dodici volte maggiore. Non è dunque l’utilitá, che sola dirigge i prezzi: perchè Iddio fa che gli uomini, che esercitano mestieri di prima utilitá, nascono abbondantemente, nè può il valore perciò esserne grande, essendo questi quasi il pane e il vino degli uomini; ma i dotti, i savi, che sono quasi le gemme fra i talenti, hanno meritamente altissimo prezzo.
Avvertasi però che la raritá non si dee valutare sulla proporzione con cui gl’ingegni sono prodotti, ma secondo quella con cui vengono a maturitá; onde è che quanto sono maggiori le difficoltá per potere un ingegno pervenire a gradi importantissimi e degni di lui, tanto allora il suo prezzo è piú grande. Un generalissimo, quale fu il principe Eugenio o il marescial di Turena, ha un prezzo sterminato in paragone d’un semplice soldato; non perchè cosí pochi ingegni simili a quegli la natura produca, ma perchè rarissimi sono quelli, che in tante e cosí fortunate circostanze ritrovinsi, che possano, esercitando i loro talenti, grandi capitani apparire colle vittorie riportate. Fa in questo la natura come nelle semenze delle piante, che, quasi prevedendo la numerosa perdita, assai maggior quantitá ne produce e ne fa cadere in terra, del numero delle piante, che poi sorgono: perciò una pianta val piú d’un seme. Sopra questi saldi principi seriamente meditando, oh quanto la giustizia degli umani giudizi maravigliosamente riluce! Si troverá che tutto è con misura valutato. Si conoscerá che d’altra maniera le ricchezze ad una persona non vanno, che in pagamento del giusto valore delle sue opere; sebbene può egli queste ricchezze donarle a persona, che non è meritevole d’acquistarle. Ed infatti non v’è famiglia né uomo alcuno, che possa dire d’aver ricchezza, la quale non la ottenga o per merito suo o per dono di chi per merito la ottenne. Questo dono, se si fa in vita, si dice «favore»; se in morte, «ereditá» si chiama. Ma sempre, se si tien dietro alla traccia di quelle ricchezze, che taluno immeritamente ha, si osserverá che per merito furono in prima da su l’intiero corpo degli uomini acquistate. Vero è che spesso per centinaia d’anni o di persone bisogna trascorrere; ma pur alfine questo termine s’incontra, e la ragione lo insegna.
Sento però giá dirmi che il merito o la virtú restano cosí spesso non premiati, ch’è follia il negare i frequenti atrocissimi atti dell’ingiustizia umana. Ma qui mi si permetta del falso ragionare fare avvertito chi lo vuol essere. In primo non bisogna chiamar «virtú» e «sapere» quelle professioni, che, sebbene abbiano raritá e difficoltá grande, non sono però atte a produrre né vera utilitá né piacere alla moltitudine, dalla quale, e non da’ pochi, si fanno i prezzi. In secondo luogo è da pensare che, l’uomo essendo composto di virtú e di vizi, non si possono premiare le virtú, sicché l’uomo vizioso non resti nel tempo stesso premiato: ma non si ritroverá mai che il vizio abbia esaltato alcuno. Sono quei talenti utili e buoni, che uno ha, quelli che lo sollevano, e solo accade che talora i suoi difetti non gli facciano ostacolo. Ma vero è sempre che, se questi difetti non avesse, piú in su sarebbe pervenuto. In terzo si dovrebbe sempre avvertire che altro è l’aver talenti per saper ottenere un impiego, altro per saperlo bene esercitare. I primi sono unicamente l’arte di piacere a colui che dá l’impiego, e sono sempre i medesimi, sia che si richieda un officio nella toga o nella milizia. I talenti per sapere amministrare gl’impieghi sono sempre diversi, secondo i vari uffízi. Or di rado si troverá uomo, che abbia impiego e che non abbia avuto talento a saperlo ottenere: accaderá sì bene che, non essendo in lui congiunta la scienza di ottenere con quella d’amministrare l’impiego, operando male, acquisti biasimo e come immeritevole si riguardi. Perché gli uomini solo al saper bene esercitare quel, che si ha, danno nome di «merito»; dell’altro, quasi o virtú non fosse o fatica e destrezza non richiedesse, non curano: quindi chiamano «ingiustizia» quella che in certo modo tale non è. Sono però anche qui da non contarsi coloro, che o per lo favore altrui, che è un dono fra vivi, o per la nascita, che è una ereditá degli antenati, alcuna dignitá ottengono. Io conosco che oltre i confini della mia opera sono disputando trascorso; ma, poiché ella mi è paruta materia utile e degna da ragionarvisi sopra, da cosí fare non mi sono potuto in alcun modo astenere. O che mi perdoni, o che me n’incolpi il mio lettore, io ne sarò contento, se avrò il piacere che alle mie opinioni acconsenta. Temo però che pochi io ne avrò, che meco si accordino: tanto agli uomini piace, perché possano se stessi dal demerito difendere, altrui d’ingiustizia accusare.
Assai si è detto ormai de’ principi onde deriva il valore; e si è giá conosciuto ch’essendo essi certi, costanti, universali e sull’ordine e la natura delle cose terrene stabiliti, niuna cosa arbitraria e casuale è fra noi, ma tutto è ordine, armonia e necessitá. Sono vari i valori, ma non capricciosi. Il loro stesso variare è con ordine e con regola esatta ed immutabile. Sono ideali, ma le stesse nostre idee, che su’ bisogni e piaceri, cioè sulla interna costituzione dell’uomo sono piantate, hanno in sé giustizia e stabilitá.
Una sola eccezione pare che si dovesse fare da quanto ho detto; ed è che sul valore e sulle idee nostre opera talora anche la moda. Sul senso di questa voce, dopo aver io molto tempo meditato, non ho trovato poterle dare altra definizione che questa: un’affezione del cerebro, propria alle nazioni europee, per cui si rendono poco pregevoli molte cose, solo perché non giungono nuove. È questa una malattia dell’animo, che ha l’impero sopra non poche cose; e, se vi si vuol trovar qualche ragionevolezza, bisogna dire che nasce in gran parte questa varietá di gusto dall’imitazione de’ costumi delle nazioni piú dominanti. Ma, poiché, ragionando, a dir della moda mi sono condotto, è al mio istituto necessario che i limiti dell’imperio di lei io definisca; il che io farò qui, per non averlo a fare in luogo meno acconcio. L’imperio della moda è tutto sul bello, niente sull’utile; perché, quando è in moda alcuna cosa piú utile e comoda, io non la chiamo «moda», ma migliorazione delle arti o degli agi della vita. Due classi ha il bello: altro è fondato sopra certe idee, che insieme coll’origine nostra sono nell’animo nostro scolpite; altro, benché nol paia, è solo un’assuefazione de’ sensi, che bello lo fa parere. Sopra questa seconda classe, che è piú vasta assai della prima, unicamente stende il suo potere la moda: quindi è che si conviene dire che la bellezza di alcune gemme, dell’oro e dell’argento sia sulla costituzione dell’animo nostro universalmente stabilita, non avendo mai alla moda in parte alcuna soggiaciuto, né potendovi soggiacere; onde il pregio loro sempre piú si riconosce grande e singolare. Però da questa forza della moda niuna delle mie osservazioni si muta; perché questa altro non fa che variar l’utilitá delle cose, variandone il piacere che si prova in usarle: tutto il resto è il medesimo.
Restami ora a dire del valore delle cose uniche e de’ monopòli, cioè o di quelle che non possono con altre esser compensate, come sarebbe la statua di Venere de’ Medici, o di quelle che per l’unitá del venditore diventano uniche. Ho frequentemente letto, anche ne’ piú savi scrittori, che queste merci hanno valuta «infinita»; ma, di tutte le voci, non trovo la piú impropria in bocca a chi delle mortali cose ragiona. Forse avran voluto dire «indefinita»; il che neppur è acconciamente detto: perché io reputo che ogni cosa umana abbia ordine e confini, né sia meno alieno da loro l’indefinito che l’infinito. Hanno adunque questi limiti: che il prezzo loro corrisponde sempre a’ bisogni o a’ desidèri del compratore ed alla stima del venditore congiunti insieme, c che formino una ragion composta. Onde è che alle volte il valore d’una cosa unica può esser anche uguale al niente; ed è sempre regolato, sebbene non sia universalmente lo stesso.
E’ parrá forse a molti, che alle osservazioni finora fatte hanno avvertito, che facile sia, secondo esse, determinare il valore di tutto: ma da cosí credere si rimarranno, quando quel che ora sono per dire avranno maturamente considerato. Difficilissimo è a noi, e spesso impossibile, il far questo computo da’ principi suoi, che sarebbe, come i logici dicono, a priori: poiché è da stabilirsi per certo che, siccome la raritá ed il valore dipendono dal consumo, cosí il consumo secondo il valore si conforma e si varia. E da questa concatenazione il problema si rende indeterminato, come lo è sempre che due quantitá ignote, che hanno qualche relazione fra loro, vi s’incontrano.
Che dal prezzo nasca la varietá del consumo è manifesto, se si pone mente che, oltre all’aria da respirare e il suolo da reggervisi, niente altro di assoluta e perpetua necessitá ha l’uomo; avendo necessitá di cibarsi, ma non di alcun cibo in particolare, e non piuttosto d’un altro. Or l’aria e la terra non hanno raritá né valore di sorte alcuna: delle altre, quale piú, quale meno, si può l’uomo astenere; e perciò non altrimenti che proporzionatamente all’incommodo ed alla fatica, che ne costa l’acquisto, ognuno ne è volenteroso. Perciò quel, che val meno, piú volentieri si prende a consumare; e cosí dal prezzo, che nasce dalla raritá, è regolato il consumo.
Per contrario, dallo struggimento si regolano i prezzi: poiché, se, per esempio, in un paese si consumassero cinquantamila botti di vino ed altrettante se ne raccogliessero, sopravvenendo in questo paese un esercito improvvisamente, incarisce il prezzo del vino, perché piú se ne bee. Or qui alcuno troverá un inestricabile nodo ed un circolo vizioso: ma egli lo scioglierá, pensando a quel ch’io dissi, che di molti generi la raritá e l’abbondanza si cambia improvvisamente per cagione esterna senza opera dell’uomo, ma per l’ordine delle stagioni. In questi generi il prezzo siegue la raritá; e, siccome gli uomini posseggono ineguali ricchezze, cosí a un certo grado di ricchezze corrisponde sempre la compra di certe comoditá. Se queste avviliscono, anche chi è nell’ordine inferiore della ricchezza le compra: se incariscono, coloro, che prima usavanle, cominciano ad astenersene. E questo da una bella osservazione è comprovato. Nel regno di Napoli si consumano a un di presso quindici milioni di tumoli3 di grano l’anno in tutto, quando la raccolta è buona. S’ha per esperienza che, quantunque alle volte in anni di grandissima fertilitá si sieno raccolti fino a sei e sette milioni di tumoli sopra l’ordinario, pure non mai n’è uscita quantitá maggiore d’un milione e mezzo; né quello, che si è serbato, è stato molto piú d’altrettanto. Per contrario, negli anni di sterilitá è certo che non si è raccolto alle volte piú di otto milioni; e pure né piú d’un milione di fuori si è mai recato a noi, né quello, che avevamo serbato dagli anni anteriori, giungeva a due milioni, e tanto ha bastato a non soffrir la fame. La ragione di questo è: che negli anni di abbondanza incomparabilmente piú grano si mangia, si strugge e si semina; nelle calamitá meno. Perciò i limiti del consumo sono piú fissi sul prezzo che sulla misura de’ tumoli, dovendosi dir, per esempio, cosí: «il Regno consuma ogni anno tredici milioni di ducati in grano sia che con questa somma se ne comprino quindici o soli dieci milioni, è sempre lo stesso.
Que’ generi poi, che non soggiacciono alla varietá delle raccolte, altra cagione estrinseca non hanno, onde cangiare la raritá, che la moda. Ma i metalli preziosi e le gemme per la loro sovrana bellezza non sottopongonsi ai capricci di questa né a quella delle varie raccolte; e perciò piú d’ogni altro hanno prezzo costante. Alla varietá della raccolta però soggiacerebbero, nella scoperta di mine piú abbondanti, come fu nello scoprirsi dell’America; e cosí avvenne che se ne scemasse il valore. Perciò se ne accrebbe l’uso: dal qual uso è stato poi impedito che tanto non sbassasse, quanto l’abbondanza il richiedeva. Perché da questa concatenazione nasce il grande ed utilissimo effetto dell’equilibrio del tutto. E questo equilibrio alla giusta abbondanza de’ commodi della vita ed alla terrena felicitá maravigliosamente confá, quantunque non dall’umana prudenza o virtú, ma da vilissimo stimolo di sordido lucro derivi: avendo la provvidenza, per lo suo infinito amore agli uomini, talmente congegnato l’ordine del tutto, che le vili passioni nostre spesso, quasi a nostro dispetto, al bene del tutto sono ordinate.
Or, come questo accada, fa al nostro proposito il dichiararlo. Poniamo che un paese di religione e di costume tutto maomettano diventi in un punto di fede e di usanze cristiano. Trovansi in esso rarissime viti piantate, perché a’ maomettani è proibito il ber vino; ed io suppongo che essi a questa legge avessero ubbidito. Ecco in un tratto permesso l’uso di tal bevanda, e, poca raccogliendosene, la raritá renderá caro il vino, ed i mercatanti gran copia di vino cominceranno a fare d’altronde recare. Ma tosto, volendo tutti gustare di cosí alto guadagno, tante nuove vigne si pianteranno, tanto vino straniero si porterá, che, per voler tutti lucrar molto, ognuno lucrerá il giusto. Così le cose sempre a uno stesso livello si pongono, tale essendo la loro intrinseca natura. Spesso anche cresce tanto la quantitá della gente, che a quella spezie d’industria, tratti dalle prime voci e da’ primi esempi, impetuosamente ma troppo tardi si rivolgono, che il valore sbassa di sotto al giusto; e allora, pagando ciascuno il fio della sua inconsideratezza, tutti se ne cominciano a ritirare, e cosí di nuovo al giusto limite si viene.
Da questo due grandi conseguenze si tirano. Primo, che non bisogna de’ primi movimenti in alcuna cosa tener conto, ma degli stati permanenti e fissi, ed in questo si trova sempre l’ordine e l’ugualitá; come, se in un vaso d’acqua si fa alcuna mutazione, dopo un confuso e irregolare sbattimento siegue il regolato livello. Secondo, che non si può dare in natura un accidente, che porti le cose ad estremitá infinita; ma una certa gravitá morale, che è in tutto, le ritrae sempre dalla retta linea infinita, torcendole in un circolo, perpetuo sì, ma finito. Quanto ho detto sará anche alla moneta ben cento volte da me applicato: abbianselo perciò fisso nell’animo i leggitori, e siano persuasi che con tanta esattezza corrispondono le leggi del commercio a quelle della gravitá e de’ fluidi, che niente piú. Quello, che la gravitá è nella fisica, è il desiderio di guadagnare, o sia di viver felice, nell’uomo; e, ciò posto, tutte le leggi fisiche de’ corpi si possono perfettamente, da chi sa meditarlo, nel morale di nostra vita verificare.