Della moneta/Libro I/Capo I

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Libro I - Introduzione Libro I - Capo II

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CAPO PRIMO

della scoperta dell’oro e dell’argento e del traffico
con essi fatto — come e quando s’incominciarono
ad usar per moneta — narrazione dell’ac-
crescimento e diminuzione della
moneta — suo stato presente

Invenzione de’ metalli — Loro primo uso — Primo commercio de’ metalli in Asia e in Europa — Prima origine della moneta — Prime notizie della moneta coniata — Stato de’ metalli preziosi e della moneta dopo Alessandro — Stato della moneta in Roma — Stato de’ secoli barbari — Scoperta dell’Indie, e conseguenze sue quanto ai metalli — Scarsezza che ha l’India antica di metalli — Corso presente de’ metalli preziosi — Effetti che produce la quantitá de’ metalli nel diminuire il lavoro delle miniere — Equilibrio in cui si dee mantenere naturalmente il valore de’ metalli preziosi — Riflessione sul valore delle antiche monete.

In tutti i paesi, che usano moneta, è questa da tre metalli costituita: l’uno di grande, l’altro di mezzano e il terzo di basso valore. L’oro e l’argento, senza eccezione alcuna, occupano da per tutto il primo e il secondo grado. Il terzo metallo ne’ vari secoli è stato diverso. L’Europa tutta oggi usa il rame: usaronlo ancora gli antichi; ma i romani piú spesso usarono il rame giallo, o sia ottone, e il bronzo. Anche del bronzo servironsi i sovrani successori di Alessandro e le cittá greche. Il ferro in Grecia e nella Gran Brettagna a’ tempi di Cesare fu in uso. Molti popoli sono oggi, che una mistura di due metalli adoperano per bassa moneta. Oltre a ciò, non mancano nazioni, che non di metalli, ma si servono o di frutta, come di mandorle amare in Cambaia, di cacao e di maitz in qualche luogo [p. 10 modifica] d’America; o di sale, come è nell’Abissinia; o di chiocciole marine. Le quali cose se moneta siano o no, quando sulle parole si fusse qui per disputare, molto si potrebbe argomentando dire; ma di nomi saria la disputa e non di cose. Dell’oro e dell’argento adunque, degli altri metalli meno curando, saremo a dire, e prima della loro invenzione ed antico uso.

Molte maniere hanno i filosofi immaginate, colle quali poterono i primi uomini pervenire alla cognizione de’ metalli. Delle quali a me pare la piú verisimile questa. Io penso che i primi metalli ad esser conosciuti debbono senza dubbio essere stati il ferro e il rame; perché, essendo questi in ampie vene non molto profonde e ascose raccolti, e spesso in grandi masse di metallo quasi puro, poté l’ammirazione, che dell’esperienza e dell’indagamento curioso è madre, portar gli uomini della prima etá ad appressare al fuoco questi corpi, dalle pietre e dalle terre nell’aspetto diversi, e, nel vedergli correr fusi e liquefatti sul suolo, fu la loro natura conosciuta. Poté dunque la curiositá, che tanto è maggiore quanto sono piú grandi i bisogni e piú ignota la proprietá de’ corpi, condurre gli uomini a questa cognizione. Poté anche farlo il caso, a cui ogni scoperta delle cose grandi per ordinario è dovuta; poiché gli uomini, non distinguendo le masse de’ metalli dalle ordinarie pietre, avendogli forse accostati al fuoco per restringere e sostenere le legna, gli avranno veduti con maraviglia liquefare. O finalmente dall’eruzioni de’ vulcani, che menano talora lave miste di liquefatti metalli, avranno gli uomini appresa l’arte di fondergli e lavorargli. E quindi forse egli è che i popoli, di cui la favola antichissima e la storia parlano come di lavoratori di metalli, altri non sono che gli abitanti de’ paesi in cui arsero anticamente fuochi naturali e vulcani. Ma l’oro e l’argento, che in insensibili fila sono in mezzo a durissime pietre sparsi e nascosti, o che fra l’arena in minutissime pagliuole sono misti, non poteano dare a conoscere che potessero al fuoco liquefarsi e unirsi e che fossero malleabili, se colla scoperta di altri metalli non avessero giá gli uomini saputa la singolar qualitá di questa classe di corpi. Perciò io porto opinione che nelle arene de’ fiumi, de’ quali [p. 11 modifica] moltissimi in ogni parte della terra recano oro al mare, abbiano gli uomini questo metallo in prima raccolto; e che poi, argomentando che su ne’ monti erano queste particelle róse e portate via dall’acqua, cominciarono pur essi a cavare i monti ed andare a prendere l’oro nelle natie sue vene, ed ivi l’argento, che quasi sempre è suo compagno, rinvenirono ancora.

Cosí scoperti, fu la loro singolare bellezza e lustrore che fecegli aggradire. E che anche negli antichissimi tempi cosí pensassero gli uomini, si può comprendere dal vedere che cosí pensano ancor oggi i selvaggi e gl’indiani. Perocché, a trovare il vero fra quello che si dice essere ne’ remoti secoli accaduto, non vi è piú agevole via che riguardare ai presenti costumi de’ popoli inculti e da noi lontani; operando la distanza del luogo quello stesso che fa la diversitá del tempo. E si può perciò con veritá affermare che nel presente secolo sono esistenti tutte l’etá dal diluvio fino a noi passate, le quali da distanti popoli ne’ loro costumi veggonsi ancora imitate. Or, se niuna nazione barbara è oggi, in cui non sieno le donne, i bambini e gli uomini piú potenti avidissimi d’addobbarsi la persona, nè mai ne’ loro ruvidi ornamenti, quando possano averlo, manca l’oro e l’argento, lo stesso de’ primi uomini è da dire. In tutta l’America, prima del suo scoprimento, quantunque niun uso di moneta vi fosse, erano l’oro e l’argento sopra ogni altra materia stimati e come cosa sacra e divina venerati, nè in altro che nel culto delle loro divinitá e nell’ornato del principe e de’ signori adoperavansi. Da’ due antichissimi libri che ci restano, il Pentateuco ed i poemi d’Omero, si comprende che la stessa stima ed uso ne avesse fatta l’antichitá. Vedesi in Omero che tutti gli ornamenti de’ duci del suo esercito erano d’oro e d’argento intrecciati e spesso guarniti di chiodetti. Però è degno di osservazione che dell’argento incomparabilmente meno che non dell’oro si parla; e si conosce, per quanto a me pare, che in que’ tempi eguale o anche maggiore era la raritá e la stima dell’argento sopra quella dell’oro. La qual cosa sebbene a prima vista sembri straordinaria, meditandovi, si conosce che non potea essere altrimenti. Egli è da sapersi che, siccome di tutti i [p. 12 modifica] metalli, che sono sparsi nelle arene de’ fiumi, non ce n’è alcuno che vi sia piú copiosamente dell’oro, cosí per contrario l’argento mai non vi s’incontra. Or che meraviglia, se popoli rozzi e che la maggior raccolta la fanno appunto nelle arene, che è di tutte le maniere la piú facile, avessero meno argento che oro? Cosí avviene anche oggidi fra i barbari, e perciò dee pur esser vero che ne’ tempi antichissimi fosse stato conosciuto l’oro prima dell’argento. Perciò la spada, la quale all’offeso Ulisse fece il re Alcinoo dall’offensore Eurialo presentare, era di grandissimo valore, perchè avea il suo pomo ἀϱγυϱόηλον, «con chiodetti d’argento».

Ma, mentre ancora erano incolti i greci, giá l’Asia e l’Egitto con piú civili costumi viveano e piú abbondavano di ricchezze. Salomone, che aperse agli ebrei le porte del commercio dell’Oriente e mercatanti gli rese, colle sue navi da Ofir e da Tarsis trasse immense ricchezze a Gerusalemme. De’ quali luoghi l’uno è, come io stimo, la costa orientale dell’Africa1, l’altro la Spagna. I fenici e i tirii, posti in suolo sterile ma ripieno di sicuri porti, non molto dopo quel secolo di pace e d’opulenza degli ebrei, che perciò fu detto «secolo di Salomone», ad ogni altra nazione tolsero il dominio del mare e soli a mercatantare incominciarono. Furono essi i primi che, avendo sparse numerose colonie nella Grecia, nella Italia, in Sicilia, in Ispagna e fin nella Tracia, paesi allora tutti di abbondantissime miniere d’oro e d’argento ripieni, cominciarono di lá in Siria e nell’Egitto a portarlo e con altre merci a cambiarlo. In questo cambio ben presto dovettero essi avvedersi ch’essendo sempre eguale la qualitá del metallo, la sola ragione del peso, o sia della quantitá, bastava a regolarla. Perchè erano sempre eguali le raccolte, generale la ricerca, nè mai diversa la qualitá; non essendo allora note le arti della lega, nè avendosi della picciola differenza naturale de’ carati in quella rozzezza di tempi cognizione alcuna. Perciò que’ popoli, che raccoglievano e cambiavano i metalli, dovettero per maggior comoditá stabilire certi [p. 13 modifica] pesi e misure, secondo le quali si potesse apprezzare; il che da tutti gli altri popoli, che vino, grano, olio raccoglievano (piante in que’ tempi tanto ad alcuni paesi particolari e rare, quanto oggi la cannella, il cacao e gli aromi), non si poteva in alcun modo imitare per la sempre diversa bontá della mercanzia. Nè fu cosa difficile che, cambiandosi giá i metalli divisi in giuste e pesate quantitá, si cominciassero queste anche dalla pubblica autoritá, che presedeva ne’ mercati ai cambi ed al commercio, con qualche segno ad improntare.

Ed ecco la naturale e vera introduzione e del conio e della moneta. Quindi è forse che Erodoto attribuisce ai lidii la prima invenzione del conio: perchè i lidii ne’ loro fiumi molto oro raccoglievano, e lo davano ai tirii ed ai fenici, e, da questi alle altre regioni recandosi, venne ad acquistare quella universale accettazione che lo costituisce moneta. La narrazione di questi accidenti compone tutta la mitologia e la sacra favola greca, la quale si potrebbe giustamente definire una confusa storia delle prime navigazioni e commerci fatti nel Mediterraneo e delle rapine e guerre per cagion del commercio avvenute. Nè fra quegli antichi secoli e i nostri altra disparitá io trovo, che quella che corre dal grande al piccolo. Quel, che oggi è l’Oceano, era allora il Mediterraneo, e «mondo» dicevansi le sole terre che sono dal mare Mediterraneo bagnate. La Spagna, che io credo essere stata quella famosa Atlantide, tanto con oscure notizie dagli egizi sacerdoti celebrata, corrispondeva alla nostra America; il Mar Nero e la Colchide era la presente Guinea; l’Ellesponto e la Tracia, l’India; i tirii, i sidoni, i cartaginesi erano quel che sono le potenze marittime e le repubbliche negozianti de’ nostri dí; l’Egitto e l’impero babilonico alle grandi nostre monarchie, che in gran parte sono da’ popoli negozianti provvedute, rispondono; ed in piú piccolo spazio i medesimi accidenti di navigazioni e scoperte gli Ercoli e gli Ulissi di allora ed i nostri Colombi e Gama incontrarono; ed i buoi, i cavalli, le ulive, la vite, il grano, gli aranci allora, come ora il caffè, il tabbacco, le droghe furono da’ loro naturali paesi tolti ed altrove traspiantati. [p. 14 modifica]

Usossi adunque il metallo pesato quasi subito dopo che a mercatantarlo s’incominciò. Il che se presso gli americani non si trovò esser del pari avvenuto, fu perché questo negozio e trasporto per varie mani non v’era. Difficile cosa è il determinare ora l’origine della moneta, se tra metallo pesato e moneta non ancor coniata si vuol fare disparitá. Perché i sicli d’argento rammentati fin dal tempo d’Abramo, e i talenti d’oro che sempre nomina Omero, son certamente nomi di pesi fra’ greci e fra gli ebrei. Ma questo non pruova che anche monete non fossero allora, come poi lo furono, perché e la libbra, o sia lira, e l’oncia sono fra noi nomi di pesi, che pure si appropriano alle monete. Che se il metallo pesato e comunemente accettato si vuole avere, come si dee, per vera moneta, si potrá con certezza affermare che nella guerra troiana l’oro ed il rame usavansi per moneta. Suole Omero gli uomini denarosi dirgli «ricchi d’oro e di rame». Nel tesoro d’Ulisse νῆτος χϱυσὸς καὶ χάλκος ἐκείτο: «molto oro e rame era ammonticchiato». Né il chiamar la moneta col nome stesso del suo metallo è cosa strana, mentre la moneta è detta «aes» da’ romani, χαλκός da’ greci, «argent» da’ francesi. Fu dunque la prima moneta, che usò la Grecia, d’oro e di rame: d’argento, per la sua raritá, non avendola potuto avere. Le monete d’oro erano il talento e il mezzo talento, che spesso coll’attributo di πάντα sono da Omero nominati, il quale al nostro «giusto» e «trabboccante» corrisponde. Usarono inoltre per moneta di conto la voce βός, che dinota il bue; sia che co’ buoi ogni cosa valutassero, o che, come io mi do a credere, sia questo un nome di moneta. Se moneta ella fu, d’oro certamente era, leggendosi al libro ventesimoterzo dell’Iliade una schiava, che molto destra ed industriosa era, valutata non piú che τεσσαϱάβοιον, quattro βοῦς. Questa maniera di valutare lungo tempo fu in uso, trovandosi che la vedova di Polidoro, re di Sparta, vendé una sua casa valutata a questo modo. Né manca chi crede che questo nome si fosse dato alla moneta, perché avea per impronta l’immagine del bue. La quale opinione a me non piace, e sono piú inclinato a credere che sulle prime questa moneta, che forse era lo stesso talento, al prezzo d’un bue corrispondesse, e [p. 15 modifica] che i greci antichi, come poi i sassoni nelle loro leggi usarono, apprezzassero la stessa moneta co’ bestiami; ma poi, fatto piú abbondante il metallo, non corrispose piú al valor de’ bestiami. E quindi forse sará avvenuto che la celebre έκατόμβη, a’ tempi in cui scrive Omero, giá non dinotava piú un numero di cento buoi, ma era un nome di sagrifízio, che talora anche di capretti e d’agnelli era fatto.

Ma a’ tempi della guerra troiana l’Oriente avea pure ad usar la moneta incominciato, con questa differenza: che la moneta d’argento prima di quella d’oro, secondo le memorie che ce ne avanzano, fu adoperata. I sicli erano d’argento, e quella voce ebrea «Kesita», che nel Genesi al capo 53 si trova, e che per «agnello» è spiegata, piú verisimile è che fosse una moneta d’argento, cosí detta dall’antico suo valore, che era eguale a quello d’una pecora, e non giá dalla immagine impressavi. E certamente, vivendo gli arabi e gli asiatici in gran parte allora con vita pastorale, i prezzi delle cose a quello de’ loro bestiami avranno comparato. Ma delle vicende della moneta in Oriente sarò io meno sollecito d’indagare la storia, che non delle regioni piú vicine alle nostre. A queste adunque ristringendomi, dico che l’origine della moneta d’argento in Grecia mi è ignota. So che le miniere de’ cartaginesi, cominciate a cavare presso la Nuova Cartagine da Annibale, furono abbondantissime d’argento. Non meno lo erano quelle di Laurium nell’Attica, che a privati ateniesi appartenevano; ma queste in tempo piú recente si scavarono, giacchè a’ tempi di Dario non era per ancora in Grecia reso sì abbondante l’argento, che valesse meno dell’oro. Dall’accurata descrizione, che delle offerte fatte al tempio di Delfo fa Erodoto, il quale dalle tradizioni di que’ sacerdoti trasse gran parte della sua storia, si comprende questa veritá. Sono però dall’altra parte da aversi per favole: che un Filippo re di Macedonia custodisse una tazza d’oro, come cosa rarissima, sotto il suo origliere, dormendo: che gli spartani, per indorare il volto a un simulacro di Apollo, non avessero potuto in tutta la Grecia trovar oro che vi bastasse; che Ierone, primo re di Siracusa, da altri che da Architele [p. 16 modifica] corintio non avesse potuto aver oro da farne una statuetta. È eccessiva e falsa, come ho detto, questa raritá; poichè Erodoto, enumerando le ricchezze in Delfo da lui vedute, dice aver Creso solo donati all’oracolo centodiciassette mattoni d’oro, lunghi altri di sei palmi, altri tre, e un palmo grossi, de’ quali quattro erano d’oro di coppella, pesanti due talenti e mezzo ognuno, gli altri tutti erano d’oro bianco, cioè di basso carato. Donò di piú un leone d’oro puro di dieci talenti; due tazze, una d’oro e una d’argento, quella di peso otto talenti e mezzo, questa capace di seicento anfore; quattro gran conche d’argento, ed altri molti doni ancora. Ad Anfiarao, suo amico, donò uno scudo ed un’asta interamente d’oro. Da queste piú veraci narrazioni si scuopre l’abbondanza, o almeno la mediocre quantitá de’ preziosi metalli in quel tempo.

In questa mediocritá si visse fino ad Alessandro. Da lui spalancatesi le porte dell’imperio persiano e dell’Indie, e l’aspetto intiero del mondo cambiatosi, per altri canali corse il commercio, e di assai maggiori ricchezze s’empí la Grecia, la Siria e l’Egitto. Lo che si comprende dalla pompa de’ funerali suoi, e assai piú dalla coronazione di Tolomeo Filadelfo, che ancor oggi con istupore come cosa incredibile si legge.

Ma tutte queste ricchezze le assorbi Roma e se le ingoiò. Quella Roma, che, nata povera, agguerrita per le sue discordie, cresciuta lentamente tralle armi e i severi costumi, restò poi dalle ricchezze e dal lusso oppressa, e nella lunga scostumatezza sua ed ignavia de’ suoi principi estinse quelle virtú, ch’ella avea per tanti secoli conservate. I trionfi di Paolo Emilio, di Lucullo e di Pompeo furono gli ampi fiumi, che nell’oro e nell’argento la fecero nuotare, e di tanta ricchezza l’empirono, che fu certamente maggiore di quella che alcun’altra cittá, anche dopo scoperta l’India, abbia finora avuta. Dove è da ammirare la differenza fra que’ secoli e i nostri. Allora le ricchezze erano compagne delle armi ed alle vicende di queste ubbidivano: oggi lo sono della pace. Allora i piú valorosi popoli erano i piú ricchi: oggi i piú ricchi sono i piú imbelli e quieti; e questo dalla diversa virtú nel combattere deriva. [p. 17 modifica]

Ma, per dire alcuna cosa piú particolare della storia della moneta fra i romani, è da sapersí che Roma non ebbe in prima altra moneta che di rame, da Servio Tullio battuta e «pecunia» chiamata. Non che la moneta d’oro e d’argento non conoscessero, ma questa non era propria, e l’aveano da’ vicini etrusci, popolo potente, culto, industrioso e, senza dubbio alcuno, d’Oriente venuto. Nell’anno quattrocentottantaquattro dalla sua fondazione fu coniata la prima moneta d’argento, e sessantadue anni dopo quella d’oro. Intanto nelle calamitá, che nelle guerre puniche ebbe la repubblica, fu il prezzo del rame con istraordinarie mutazioni variato tanto, che «as» si chiamò una porzione di rame, che solo alla ventiquattresima parte dell’antico corrispondeva. Grandissima mutazione invero, se ella fusse stata cosí nelle cose come fu nelle parole: ma le merci, non mutato il valore intrinseco, secondo la variazione de’ nomi nel prezzo si variarono. Anche il valore dell’argento riguardo al rame fu grandemente cambiato. Dopo queste mutazioni, poche piú ne fecero i romani, e solo gl’imperatori che furono dopo Pertinace nella bontá de’ carati, senza ordine e regola, andarono corrompendo la moneta.

Ma, dappoichè, per la mutazione degli antichi costumi ed opinioni, cominciò l’imperio romano dalla sua grandezza e virtú a declinare, si vide a poco a poco diminuire l’abbondanza dell’oro e dell’argento. Perchè i barbari non piú col ferro e colla forza erano respinti, ma coll’oro e co’ tributi dalle terre romane si teneano lontani. Cosí questi metalli nelle vaste settentrionali regioni si spargevano, e, dissipandovisi, erano consumati. E molto piú scemò l’abbondanza, quando, avendo i barbari inondato e guasto l’imperio, nelle sovversioni delle cittá e ne’ saccheggi restò molto metallo sotterra sepolto, molto se ne distrusse e disperse, nè col commercio, giá interrotto ed estinto, si potè ripigliare. Quindi ne’ secoli nono e decimo, in cui, dopo il gran periodo, tornarono le nostre province in quello stesso stato di rozzezza e povertá, in cui ne’ tempi vicini al diluvio erano state, la raritá dell’oro di nuovo divenne grandissima, ed il valore delle cose parve per conseguenza bassissimo. [p. 18 modifica] Il che non sarebbe stato, se, come usarono i romani di alzare la moneta, l’avessero anche sbassata. Ma essi, sostenendo sempre il valore una volta alzato, costrinsero poi le merci ad avvilirsi, quando la moneta ritornò a scemare. Da questa povertá vennero gli ordini del governo di questi secoli, e principalmente le leggi feudali, il vassallaggio, la schiavitú, le pene pecuniarie, i censi, le decime, e altri simigliami costumi. Perchè non potevano i sovrani ed i padroni altrimente riscuotere i dazi che in servizi personali o in frutti della terra.

In questo stato, travagliandosi gli uomini, struggendosi e saccheggiandosi tra loro, fino al secolo decimoquarto vissero miseramente. Tanto è vero che l’aviditá nostra, quando turba gli ordini del governo, c’impoverisce tutti senza arricchire alcuno; ma, se sotto i civili regolamenti sta frenata, è cagione onde gli Stati s’arricchiscano e si aumentino in forza ed in felicitá. Quindi è che nel decimoquinto secolo, prima ancora della scoperta dell’Indie, piú regolatamente cominciando a viversi in Europa, l’oro e l’argento tornarono ad apparire in maggior quantitá.

Ma, pervenuti gli anni della nostra Redenzione al numero di millequattrocentonovantadue, Cristoforo Colombo genovese con navi spagnuole avendo scoperta la Nuova India, e i portoghesi nel tempo istesso nella costa della Guinea e dell’Oro inoltratisi a trafficare, apersero nuova strada, onde vaste quantitá d’oro e d’argento potesse l’Europa acquistare. In pochi anni si trasse dall’America tutto quel metallo, che in tanti secoli aveano gl’indiani raccolto; e quanto grande questo fosse, si può appena colla mente concepire. Fu allora che, aperto il campo all’industria de’ sudditi e all’aviditá de’ principi, senza piú spogliarsi l’un l’altro, sperarono tutti potersi arricchire. Cosí, a’ pacifici pensieri rivolto l’animo, si cominciò ad impiegar que’ tesori, che prima in armi e in guerre struggevansi, alla edificazione di navigli, di colonie, di porti, di fortezze, di magazzini e di strade. Quella gente, che prima per tentar la sorte nella guerra assoldavasi, allora tutta sul mare, a viaggi, scoperte e conquiste del nuovo mondo, si rivolse con incredibile fervore. Lo che, siccome agl’indiani innocenti portò saccheggi, schiavitú, stragge [p. 19 modifica] e desolazione, cosí all’Europa, giá tutta di commerci, di compagnie e d’industrie resa vaga, arrecò pace ed umanitá, miglioramento nelle arti, lusso e magnificenza; onde ella tutta di ricchezze e di felicitá mirabilmente s’empì. Sparve da noi il barbaro uso de’ servi, perchè nostri servi, anche piú crudelmente trattati, divennero gl’indiani e i negri dell’Africa: essendo verissimo, a chi ben riflette, che non può un popolo arricchire senza render povero ed infelice un altro. E, siccome i romani colle conquiste della Spagna, della Gallia e della Germania resero prospera l’Italia, cosí noi, sebbene non crediamo essere conquistatori crudeli al pari de’ romani, pure sulle miserie altrui siamo arricchiti; benchè la distanza grande de’ luoghi fa che non ci feriscono gli occhi le calamitá, che in America soffrono quelle infelici vittime del nostro lusso, e quindi ci persuadiamo che la industria e il traffico innocente ci dia guadagno. Le ricchezze, che l’India somministrò, quasi tutte sulla Spagna, a cui fu congiunto anche il Portogallo, imprima colarono; ma le calamitá di quella nazione presto le fecero trascorrere altrove. Pure la quantitá era sì grande ed il valore delle cose tutte era tanto incarito, che certamente non si sarebbero molto piú lavorate le miniere dell’India per trarne nuova quantitá di metalli ricchi, se non si fosse inaspettatamente aperto un ampio canale al loro corso.

È stata l’India antica in ogni tempo piú di noi bisognosa d’oro, ed anche piú d’argento, e per guadagno da’ nostri mercanti vi si portava. A’ tempi di Plinio era cosí. Da lui ci è fatto sapere, dicendo egli2: «indigna res, nullo anno minus H. S. quingenties3 imperii nostri exhauriente India». Giovanni Villani4 dice dell’oro che i «mercanti, per guadagnare, il raccoglievano e portavano oltre mare, dove era molto richiesto». Nelle note di Uberto Benvoglienti alla Cronaca sanese di Andrea Dei, [p. 20 modifica] all’anno 1338, si trova memoria del commercio di Soria fatto da Benuccio di Giovanni Salimbeni, camerlengo di Siena, uomo sopra lo stato di privato ricchissimo, con queste voci:

Il detto Benuccio, l’anno seguente 1338, avea còlto grande quantitá d’argento e di rame, ed essendo venuto all’usato el grande mercatante di Soria al Porto d’Ercole con quantitá di mercanzia di seta, tutte fûro comprate per lo detto Benuccio, e pagate d’argento e di rame5.

Il valore di tutte ascende a centotrentamila fiorini d’oro; ed è cosa curiosa a leggere e degna di riflessione, per conoscere quanta moneta nostra assorbisse l’Oriente. Ma questo negozio, perchè in parte per terra e fra gente inimica e rapace si dovea fare, era poco frequentato, e solo dagl’italiani. Vasco di Gama portoghese, l’anno 1497, passò il capo di Buona Speranza, che Bartolomeo Diaz avea poco tempo prima scoperto; e, in Oriente pervenuto, aprì a tutta l’Europa, col suo esempio e colle conquiste poi fatte, il commercio piú facile e piú spedito con quelle regioni. L’India, arida d’argento, tosto assorbí quella soverchia quantitá, che in Europa ristagnava; onde avvenne che fra noi non variò il valor de’ metalli proporzionatamente alla quantitá dall’America venutane, ma molto meno: mentre, essendo simili le leggi del moto della moneta a quelle delle acque correnti, quanto in maggiore spazio di terra la moneta si spande, tanto meno in ogni parte la quantitá ne cresce ed il valore s’abbassa.

Questo stato di cose ancora dura. La Nuova India manda a noi i metalli; noi molto in lusso ne struggiamo; qualche poco in accrescimento della quantitá della moneta s’impiega, e perciò ella va sempre, benchè insensibilmente, nel valore calando; molto in utensili ne riteniamo; il resto all’India antica s’invia, la quale in cambio ci dá moltissimi comodi della vita: droghe, stoffe, tele, salnitro, legni da tingere, avolio, gemme, porcellane, ma sopra tutto caffè, tè, medicine. Molta gente dabbene deplora quasi una perdita di ricchezze questo uso de’ metalli [p. 21 modifica] preziosi: tanto è facile alla nostra mente, errando, credere la ricchezza una cosa assoluta, e non, come ella è, una proporzione che dalla varia abbondanza deriva. E pure era facile il comprendere che, se non si facesse qualche uso dell’oro e dell’argento, questi metalli piú non sariano ricchezze; ma, quando egualmente abbondanti come il rame tra noi fossero, avriano egual valore. Onde si potea conoscere quanto ragionevoli sono gli uomini e savi, se, dopo essersi provveduti d’oro e d’argento per quanto basta al commercio ed al lusso, il resto ai popoli piú bisognosi di metalli lo danno e lo convertono in altri beni. Dunque si conviene avvertir meglio sulle operazioni umane, e, quando si esamina la condotta d’intiere nazioni, presumer meno di sè ed essere assai piú lento ad emendare.

Sono le miniere dell’America incomparabilmente piú ricche di quelle che oggi ha l’Europa, o sia con egual fatica si ottiene maggior quantitá di metallo. Da questo è avvenuto che l’europee o poco o nulla piú si lavorino. Anzi, se tanto consumo non si fosse fatto de’ metalli, giá molto meno si seguirebbe a scavare anche in America. Poichè egli è da avvertire che, quanto cresce la quantitá de’ metalli, tanto il numero delle miniere atte a lavorarsi diviene minore: mentre non basta che un paese sia copioso di vene metalliche; bisogna ch’elle tornino conto a lavorarsi. Ora, essendo l’oro e l’argento per ordinario in piccola quantitá fra suoli di dure e laboriose pietre disposti, e quasi sempre con altri metalli e materie impure allegati, grande fatica, grande spesa richiedono, sí per la mortifera aria delle cave, che tutte con negri, a gran prezzo comprati, si scavano, sí per l’argento vivo, che sul minerale si versa.

Nè ogni vena, in se stessa e in paragone delle altre, è egualmente ricca. Dunque, se cento anni addietro, per esempio, erano duecento vene d’argento nella Cordigliera, che produceano cinque once di puro argento per cassone (è questo un volume di cinquanta quintali o sia cinquemila libbre di minerale), e di queste cinque once, due consumandone la spesa, ne restavano tre al padrone di profitto: oggi tutte queste vene, non essendovi guadagno, non possono piú scavarsi; perchè, raddoppiata la [p. 22 modifica] quantitá dell’argento, e diminuitone quindi per metá il valore, cinque once d’argento costa il lavorio d’un cassone. Ed è questa la vera cagione, per cui gli accademici delle scienze di Francia, andati alla misura del grado del meridiano vicino all’equatore, hanno trovato da per tutto, e principalmente nella terra ferma e nella parte settentrionale del Perú, ove le miniere sono per ordinario meno ricche che non lo sono nella parte meridionale dei Potosi e della Piata e del Chily, una generale decadenza ed abbandono nelle mine, e gran numero di luoghi, che mostravano, con segni evidenti di fabbriche ruinose e cadenti, gli antichi lavori. Anzi, quel che loro parve piú strano, in Quito trovarono un generale orrore ed abborrimento a questa spezie d’industria, e trattati da matti tutti coloro che l’intraprendevano, siccome non molto tempo prima si teneano coloro che non applicassero a farla. E questa disposizione, che dagli accademici fu a torto a naturale pigrizia e stupiditá attribuita, io credo essere un segno ed un avviso, che vogliano quelle regioni, lasciando i lavori delle mine, che le spopolano e distruggono, cominciare ad essere in migliore stato; e allora noi saremo barbari da quella gente chiamati.

Vano timore intanto è quello, che moltissimi scrittori mostrano avere, che possa un giorno l’abbondanza dell’oro e dell’argento farsi eguale a quella del rame. In un solo caso ciò potria essere: che si trovassero miniere cosí ricche di questi metalli come sono quelle del ferro e del rame. Il che non pare che sia conforme agli ordini della natura delle cose: perchè le piú ricche miniere d’argento e d’oro non dánno che dodici o quattordici once per cassone. Nè sono da tenersi in conto, per la loro raritá, alcuni tratti di vene, che sino a cento once per qualche spazio han dato. Nè anco è da temersí che, scemato colla potenza delle leggi e dell’esempio il lusso, troppo si abbondi di metalli; mentre allora, traendosene una minor copia dalle viscere della terra, sempre la stessa raritá a un di presso si sosterrebbe. Cosí la natura alle sue cose pone certi confini, ch’elle non oltrepassano mai, nè fino all’infinito estendendosi, durano perpetuamente a raggirarsi in sulle stesse vicende. [p. 23 modifica]

Ecco una breve narrazione degli accidenti vari della moneta. Resterebbe solo a dire del valore delle monete, che sonosi in ogni tempo usate. Sulla quale laboriosa impresa è incredibile quanto da’ grandi ingegni siasi sudato; e principalmente si sono gli eruditi umanisti affaticati molto per intelligenza delle antiche opere sulla moneta de’ greci e de’ romani. Il Budeo, il Gronovio, il Sardi sopra gli altri si distinguono. Ma è maraviglioso ed appena credibile che tanti grandi ingegni mostrino non essersi avveduti del tempo e dell’opera che hanno essi dissipato inutilmente. Altro è il sapere quanto pesano le antiche monete, altro quanto vagliono. Il peso è facile il saperlo, perchè molte antiche monete ben conservate si custodiscono da noi: ma il valore è il ragguaglio della moneta colle altre cose; giacchè, siccome le altre cose tutte sono sulla moneta valutate, cosí la moneta sulle altre cose si misura. Questa misura non solo in ogni secolo, ma quasi in ogni anno varia. Lo stesso «as» d’un’oncia a’ primi tempi della prima guerra punica valea diversamente che a’ tempi di Cesare; perchè a’ tempi della guerra punica si sará con un «as» comprato quel che appena con quattro avranno potuto i soldati di Cesare comprare.

Così ne’ secoli a noi più vicini il fiorino d’oro fiorentino è stato sempre del peso d’una dramma, ossia dell’ottava parte d’un’oncia d’oro puro; ma pure mille fiorini, che Giovanni Villani nomini, sono troppo diversa cosa da mille fiorini d’oggidi, quanto al valore. Sono dunque da ridere que’ moderni storici, che, riducendo i talenti e i sesterzi antichi a lire di Francia o a nostri ducati secondo l’uguaglianza del peso, credono aver fatto intendere a’ loro lettori lo stato delle cose, come erano in mente allo storico coetaneo. Per sapere all’ingrosso il valore delle monete son buone queste cognizioni; ma piú giova il leggere quelle descrizioni, che ci dipingano gli antichi costumi. Vero è che gli storici, quasi contenti d’aver valutati i prezzi colle monete del loro tempo, non curano tramandar queste notizie che io dico, come a dire di scrivere quale fosse a’ tempi loro il valore del grano, del vino, degli operari; ma pure talora inavvertentemente ce lo hanno lasciato scritto: e queste sparse notizie bisogna andar [p. 24 modifica] raccogliendo studiosamente. Nella dissertazione ventottesima del Muratori, Antiquitates italicae, sonovi alcune descrizioni de’ costumi di vivere de’ parmigiani, piacentini e modenesi antichi, dalle quali certamente meglio che non dal peso delle monete il vero della storia si rende manifesto. Dunque io non mi curerò sapere i pesi ed il creduto valore delle antiche e nuove monete. Prego solo i miei lettori che al valore delle merci si rivolgano ognora; ed il vero valore della moneta cosí loro verrá fatto di sapere.

  1. Anche a’ nostri di le piú ricche miniere dell’Africa, che sono nella costa di Sofala, si dicono d’Ophur. Il che non so se sia stato da altri avvertito.
  2. N. H. vi, 23.
  3. Questa somma è verisimile che sia di cinquanta milioni, e non di soli cinquecentomila sesterzi.
  4. xii, 96.
  5. Muratori, RR. II. SS., xv, 95, n. 46.