Della moneta/Libro I/Capo III

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CAPO TERZO

dimostrazione che i metalli hanno prezzo per l’uso
che prestano come metalli assai più che come
moneta — due calcoli che confermano
questa verità.

Difficoltá del conoscere il prezzo giusto delle cose superata dalla moltitudine — Si dimostra che il valore de’ metalli non nasce principalmente dall’uso che hanno per monete — Calcolo dell’argento ch’è in Napoli — Riflessioni su’ calcoli politici e loro incertezza — Conseguenze tirate dal calcolo fatto di sopra — Altro calcolo piú vasto, e perciò meno sicuro, che s’accenna — Conclusione di quel che s’è esposto finora.

Dacché a scrivere quest’opera incominciai, rare volte è avvenuto che, meco stesso meditando, io non mi sia sentito accender d’ira contro gli uomini, di rispetto e di gratitudine verso l’Autore del tutto. M’irritano gli uomini, e principalmente quelli che il nome di «sapienti» si fanno dare, i quali, ora i nostri falli colle ordinate disposizioni della provvidenza confondendo, ed ora lei medesima accagionando, e ripieni dell’idea del proprio merito, tutto gridano essere ingiustizia e tutto disordine quel che avviene, e i nomi della «sorte», del «fato» e del «destino» a mascherare la loro empietá hanno inventati. Benedico al contrario la suprema Mano, ognora che contemplo l’ordine, con cui il tutto è a nostra utilitá costituito; e nelle opere sue, ovunque io mi rivolga, non incontro altro che giustizia ed egualitá.

E, discendendo alle cose particolari, io ammiro l’esattezza, con cui la valuta è posta ad ogni cosa; e tanto l’ammiro piú, quanto [p. 48 modifica] conosco la difficoltá, che vi sarebbe a voler che un solo uomo faccia questo conto e stabilisca il prezzo. Quale aritmetico può saper dire il prezzo d’una libbra d’oro, cioè d’una mercanzia che fin dall’America ci si reca? Migliaia e migliaia d’uomini v’impiegano la loro industria, tutti in diverse regioni, d’ineguale fertilitá, ove è vario il valore de’ viveri, varia la popolazione e la ricchezza. Altri v’impiega l’opera d’un giorno, altri d’un mese, altri in egual tempo non su d’una, ma su cento e mille libbre s’impiegano. Inegualissima è la proporzione de’ talenti di tante diverse persone. Che se si riguarda la vendita, chi sa trovar la giusta proporzione in tanta moltitudine di compratori, che variano nel gusto, nel genio, ne’ bisogni, nell’opulenza; che sono in vario numero ne’ diversi paesi, e dall’emporio principale chi piú, chi meno distanti? Aggiungete i dazi de’ principi, il cambio de’ mercatanti, le frodi, i controbandi, e finalmente il numero quasi infinito de’ pericoli e delle perdite, quanto diseguali nella probabilitá, tanto nell’importanza de’ danni. E pure da tutti questi principi ha da derivare il prezzo d’una cosa; e, se un uomo solo si sgomenta e s’arretra, la moltitudine degli uomini, che vi hanno interesse, il sanno trovare: tanto nelle cose particolari sa, piú d’un savio solo, una moltitudine d’ignoranti. E che questa gente non erri, e sia veramente il prezzo corrente il giusto, si dimostra cosí. Se tutte le persone, che concorrono al commercio dell’oro, tutte vivono, tutte si nutriscono, gl’industriosi arricchiscono, i trascurati restano della loro colpa colla perdita meritamente puniti, è certo che ognuno ha dovuto ritener per sé il giusto guadagno, niuno ha ai suoi compagni nociuto; altrimente, se una classe d’uomini vi perdesse costantemente, sarebbe da lei questa industria abborrita e lasciata, e cosí il corso di tutta la mercanzia s’arresterebbe, come un oriuolo, per la mancanza d’un solo dente in una ruota, s’arresta dal suo corso. E, se un’altra classe eccedentemente arricchisse, tosto diverrebbe cosí grande il numero di coloro, che, abbandonando altri loro men lucrosi negozi, a questo nuovo si rivolgerebbero, che il momentaneo guadagno in prima fatto si vedria diminuire, ed al giusto grado condursi. [p. 49 modifica]

Non si può adunque in altra maniera con sicurezza conoscere qual sia il giusto prezzo dell’oro, che chiedendo quanto egli comunemente vale rispetto a tutte le altre merci. Ma a me è necessario, non trapassando que’ principi, che nel capo antecedente ho fissi, arrestarmi un poco piú sul valore de’ metalli, e dimostrare l’altra importantissima veritá, che i metalli, sí riguardo all’uso che se ne fa, sí riguardo allo struggimento, hanno valore assai piú come metalli che come moneta; onde si potrá concludere che usansi per moneta perchè vagliono, e non vagliono perchè usansi per moneta. Il che mi giova a stabilire solidamente quel valore intrinseco, sopra cui ogni veritá di questa scienza è edificata. Io mostrerò adunque quanta sproporzione sia tra il metallo usato in moneta e quello che no; e apparirá che i principi, onde si forma il prezzo, nascono da quest’uso assai piú che da quello. A ciò fare, è necessario un calcolo aritmetico.

Io penso che il nostro Regno solo abbia d’argento (tralascio l’oro per maggior facilitá del computo) ventisei milioni di ducati. Uso questa voce di «ducato» come d’un peso, essendo noto che quindici ducati e sei decimi eguagliano una libbra nostra di puro argento. Avrei potuto fare il computo in libbre, ma è sempre meglio usar voci piú note e idee piú chiare. Le cause di questa mia opinione sono queste. In Napoli, cittá ricchissima di metalli, sono le chiese tutte singolarmente ripiene di argento. Il tesoro della cappella di san Gennaro ha sopra centomila ducati di argento, molte chiese oltrepassano i sessantamila, e almeno cinque o sei ne hanno sopra quarantamila; ma de’ soli utensili piú necessari, quali sono i calici, le patene, gl’incensieri, ecc., si può far questo conto per vederne la quantitá numerosa. Sono in Napoli trecento e quattro chiese e sopra cento e dieci altre cappelle, confraternite e congregazioni, tutte a dovizia ben corredate: in queste sopra duemila altari benissimo guarniti vi si hanno a numerare. Da tutto questo io m’arrischio argomentare che in tutto tre milioni di ducati in argento sia in Napoli alla pompa sacra consegrato. Nelle private case s’io dico che cinque milioni ve n’abbia, dirò forse meno che piú del vero: perché [p. 50 modifica] il lusso ha renduti cosí volgari gli oriuoli, le tabacchiere, i manichi di spada e di bastoni, le posate, le tazze e i tondini d’argento, ch’è cosa incredibile. Si aggiunge a ciò che i napoletani, quasi in tutto ne’ costumi agli antichi spagnuoli rassomiglianti, trovano grandissimo piacere a conservare ripieni di antiche manifatture di argento i loro forzieri, che «scrittorii» e «scarabattoli» essi chiamano. Da tutto questo io credo non aver errato nella mia supposizione, della veritá della quale chi volesse restar persuaso, non ha a fare altro che andare a vedere i pegni, che ne’ nostri banchi e monti di pietá sono, e se ne chiamerá convinto. E certamente, ne’ soli pegni piccoli del banco della Pietá, sopra quattrocentomila ducati di valore di piccioli ornamenti e gioielli vi si conservano, fra’ quali almeno cinquantamila ducati di argento vi saranno. Ha dunque Napoli otto milioni di argento non coniato. Il Regno contiene una popolazione otto volte maggiore della capitale, la quale oggi io credo che giunga ad avere trecentoquarantamila abitatori. Vero è ch’egli è incomparabilmente piú povero; ma è da attendersí che qualunque cosa, ch’è sparpagliata, appare minore che se si vede raccolta. Certamente le chiese del Regno sono trenta volte piú di quelle che ha Napoli, e fra queste molti celebri santuari, molti ricchissimi monasteri, molte cattedrali insigni vi sono doviziose d’argento: né si crederá quanto ricche siano molte cappelle, che ne’ luoghi piú poveri del Regno sono fondate. Molte cittá inoltre, essendo dall’antica quantitá degli abitatori grandemente decadute, sono restate cosí ripiene di luoghi sacri, che appaiono simili a quelle antiche cittá, che aveva la Tebaide un tempo, le quali tutte di eremiti e di vergini si componevano. Perciò non sembrerá strano, se io dirò che sei milioni di argento abbiano i luoghi sacri del Regno e sei milioni soli i laici: laonde sono nel Regno venti milioni di ducati d’argento non coniato. Quanta poi sia la moneta, mi pare abbastanza noto. Si sa che il marchese del Carpio, nella generale rifusa di tutta la moneta d’argento, zeccò 352.388 libbre d’argento, che sono ducati 5.604.309. Or egli è indubitato che, quantunque il lusso a’ nostri di sia cresciuto oltre misura, pure la quantitá della moneta [p. 51 modifica] d’argento o è uguale o è forse anche minore d’allora; perché della moneta d’oro è cresciuto infinitamente l’uso, le carte rappresentanti il danaro sono piú numerose, e finalmente egli è la velocitá del giro del danaro, non la quantitá de’ metalli, che fa apparir molto o poco il danaro. E che poco sia oggi l’argento, si può argomentare dall’avvertire che ne’ banchi di Napoli, da’ quali senza controversia per tre milioni di carte sono date fuori, soli quattrocentomila ducati di argento vi si conservano. Né voglio che faccia ad alcuno difficoltá l’essersi dal marchese del Carpio in poi sempre seguito a battere moneta d’argento fra noi, sicché in tutto diecessette milioni di ducati si sono coniati; perché ognuno può vedere che que’ del Carpio sono in grandissima parte giá mancati, e molte delle monete anche piú nuove sono o liquefatte o andate via o perdute: onde non si può affatto dire che tanta sia la moneta quanta se n’è battuta, ma incomparabilmente meno. Questo è il computo che io ho saputo fare, e su cui molte cose, meditando, conosco.

Pericolosa cosa sono certamente e fonte di gravi abbagli i calcoli dell’aritmetica politica, perché quasi tutti senza stabilitá né alcuna notorietá di principi conviene che si faccino; e i soli principi, se a questi nobili studi attendessero, potrebbero colla loro autoritá avverar i fatti e le sperienze. Sono poi questi errori assai piú facili ad intromettersi, quando la passione guida la mente, non a trovare il vero, ma a trovar ragioni da confermare quello che ci è piaciuto senza motivo alcuno profferire. Esempio miserabile di questo è stato il cavalier Guglielmo Petty inglese, il quale nel suo ingegnoso trattato dell’Aritmetica politica molte cose lontane affatto da ogni veritá ha co’ suoi calcoli felicemente dimostrate, avendosi per ultimo scopo prefissa, non la veritá, ma la gloria della sua nazione, i cui pregi per altro non richiedevano che con mostruose supposizioni s’ingrandissero fino al ridicolo. Da cosí funesto esempio io imparo a non derivar conseguenza veruna, che non resti vera anche se di due o tre milioni avessi errato; ché di piú, certo, non posso errare. In prima io avverto che, il metallo d’argento non coniato essendo quattro volte maggiore del coniato, secondo [p. 52 modifica] i principi da me nel capo antecedente esposti, bisogna restar persuaso che quattro volte piú dipende il valor dell’argento dal suo esser utile come metallo che dall’esser utile come moneta: altrimente o le miniere piú non si scaverebbero, dopo che uno Stato è ripieno di moneta, che basti al suo commercio; o il prezzo della moneta anderebbe con gran velocitá alterandosi. Perché, non potendosi negare che in un mezzo secolo di cinque milioni almeno siasi la massa del nostro argento accresciuta, pure si vede per esperienza che il suo valore non è scemato per metá, ma assai meno; onde bisogna dire che il lusso lo ha divorato ed ingoiato, e se n’è cosí mantenuto il prezzo a dispetto della continuata intromessione.

Che se il metallo usato, ma non consumato, è molto piú che la moneta, il distruggimento, che del metallo non coniato si fa, a paragone dello struggimento della moneta, è incomparabilmente maggiore. Dal che con nuovo e piú forte argomento si convince chi dubitasse ancora che l’oro e l’argento hanno valuta piú per l’uso che prestano come metalli di lusso che come moneta. E, venendo a discorrer di questo piú a minuto, dico che per osservazione ci è noto che in cinquantanni i carlini nostri si sono consumati del nove per cento; i dodici e tredici grana d’un sette; l’altre monete piú grosse, quale del quattro, quale del due e quale dell’uno. Laonde, prendendo un termine mezzo, io dico che la massa tutta della moneta d’argento siasi del quattro per cento consumata; il che è piuttosto piú che meno del vero. Dunque, di cinque milioni di moneta, se ne son distrutti duecentomila ducati. Rivolgiamo ora agli utensili. Egli è certo che, siccome la moneta si custodisce il meglio che si può, acciocché non si logori, cosí degli utensili i piú si consumano alla peggio. I tondini, le posate, le coppe e gli altri vasi da tavola, i manichi di bastoni e di spade, le fibbie, i bottoni, le tabacchiere, col lavarsi, col nettarsi, collo stropiccio e coll’uso continuo delle mani, incomparabilmente piú della moneta si distruggono. Ma, quando anche non piú del quattro per cento in questo mezzo secolo si fossero consumati, pure questa valuta è di ottocentomila ducati. Ma, per quello [p. 53 modifica] che si adopra nell’inargentature del legno e del rame e nelle indorature false, che tutte d’argento fino si fanno, ci sará uomo, che dubiterá che in cinquant’anni tutto il Regno ne abbia distrutti sopra trecentomila? E quello, che in vestimenti, galloni, drappi e ricami l’indicibile nostro lusso dissipa, è possibile che non giunga a settecentomila ducati? Lascio tanti altri modi di dissipamento, e, restringendomi a’ giá detti, egli resta palese che, mentre della moneta si sono dileguati ducentomila ducati, del restante dell’argento sopra due milioni n’è andato via. Sicché dieci volte piú dipende il prezzo dell’argento dall’uso suo in mercanzia che in moneta. Un somigliante calcolo si può far sull’oro, e tirarne la stessa conseguenza. E, quando questa non paresse ancor a taluno, come ella lo è, verissima, potria egli restarne convinto, riguardando i bassi metalli che usansi per moneta, e vedrebbe che in ogni nazione solo le utili merci a quest’uso impiegansi, né le inutili, come i sassi e i pezzi di cuoio, possonvisi adoperare. Non hanno adunque gli uomini stimati i metalli, perché pensavano a costituirne la moneta; ma pensarono ad usargli per moneta, perché ne aveano stima ed utilitá. Non fu loro libera e capricciosa scelta, ma fu necessitá, che alla natura istessa de’ metalli e a’ requisiti della moneta era congiunta: il che nel seguente capo si discorrerá più minutamente.

A stabilire questa veritá, che io ho dimostrata, si poteva usare un altro computo, dal quale apparisse la sterminata quantitá dell’oro e dell’argento, che da due secoli in qua il nostro lusso ha annichilata: ma questo computo, siccome piú vasto, era soggetto a troppo piú gravi errori. Pure e’ mi piace additarne un lampo. Per conoscere quanto argento siasi dalle Nuove Indie recato qui, basta sapere che don Gaspar di Escalona1 dice (ed egli potè saperlo) che dal 1574, che fu imprima scoperto il Potosi, fino al 1638 si erano estratti da quel monte 395.619.000 pesos di argento. Il peso è in circa quanto dodici de’ [p. 54 modifica] nostri carlini. Se questo fu in sessantaquattro anni, dal 1638 al 1750, in cui siamo, cioè in centododici anni, ancorché siasi la miniera alquanto impoverita, non è dubbio che almeno altrettanto se ne sia scavato; il che fa in tutto sopra ottocentosessanta milioni di ducati. Chi poi dirá che da tutta l’America (ove sono, oltre al Potosi, abbondantissime le miniere di Copiago nel Chily e quelle della Plata; ed ove il Messico, la Terraferma ed il Brasile sono anche doviziosi d’argento) il doppio si sia ritratto di quel che le sole miniere del Potosi danno, dirá certamente molto meno del vero. Dunque, tutto sommando insieme, piú assai di duemilacinquecento milioni d’argento ha dalla sua scoperta in qua l’America dati a noi. Aggiungete tutto il metallo, che si trovò in mano agl’indiani per tanti secoli raccolto e lavorato. Poi, rivolgendosi all’Europa, riguardisi tutto l’argento, che prima di Cristoforo Colombo vi era, che certamente ed alla moneta e ad un non piccolo lusso era bastante. Aggiungavi tutto quello che dalle nostre miniere poi si è scavato. E certamente, sebbene sia falso quel che lo Stalli, anteponendo l’Alemagna all’America, ne afferma, cioè che in quattroegnto anni quarantamila milioni di lire d’argento abbian fruttato; pure, giacché queste miniere ancor oggi torna conto il lavorarle, convien credere che siano sempre state ricche. Sicché in due secoli e mezzo io ho per fermo che quattromila milioni di ducati d’argento siano stati in Europa; e pure io credo che ora assai piú di millecinquecento non ve ne siano; né giungono a mille que’ che in Oriente si sono inviati. Tutto il resto lo ha il lusso divorato, assorbito, distrutto. In aumento della moneta certo che piú di trecento milioni non si sono messi; e ciò è assai piccola cosa, riguardo al tutto. Può valer questo calcolo, della esattezza di cui, per vero dire, io conosco non essere da fidarsi molto, a confirmare un vero giá manifesto. Ora non aggiungerò altro su di questo.

Frattanto i miei lettori potranno avvertire aver io dimostrato che l’oro e l’argento hanno vero valore intrinseco, che non deriva né dall’usarsi per moneta, né dal capriccio nostro, né dal consenso delle nazioni. Per ciò fare è convenuto sviluppare i principi del valore di tutte le cose in generale, e adattargli [p. 55 modifica] all’oro ed all’argento. Ho poi fatto conoscere che questo valore intrinseco non solo essi l’ebbero imprima, ma lo hanno anche ora che si usano nella moneta, perché assai piú vagliono e si usano come metalli che come moneta. Ma tutto questo, che del prezzo intrinseco si è ragionato, potendo esser comune anche ad altre merci preziose, non gioverebbe nulla, se non si ricerca perché la moneta è fatta solo d’oro e d’argento, e non di gemme, di pelli rare, di porcellana, di pietre dure, d’ambra, di cristallo o d’altro. Ed io spero dimostrare a tutti che nemmeno questa cosa dal consenso e dalla libera scelta nostra derivi, ma che la natura della moneta porti con sé che piú comodamente coll’oro e coll’argento che con qualunque altra cosa si possa adoperare; ed a questo è destinato il capo seguente.

  1. Nel suo Gazofilacio perubico, folio 193.