Dal mio verziere/I poeti nella prosa
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I poeti nella Prosa.
I.
Elda Gianelli: Incontro1
Un sagace critico, il Brunetière, nel suo volume sul romanzo naturalista, parla degli scrittori giunti al romanzo per diverso cammino, ognuno dei quali ha le vesti impregnate di un aroma caratteristico che s’insinua e rimane nella grande officina. «... Il y en a d’autres qui sont venus au roman par la poésie: ceux-çi, leurs descriptions les trahissent, et si consciencieusement qu’ils s’appliquent à la peinture de l’exacte réalité, je ne sais quoi de délicat et de charmant ou de douloureux et d’ému perce toujours, qui les fait reconnaître poêtes.»
Subito si riconoscono. Come i nobili decaduti portano nella folla una nota personale di gracilità fine e sofferente che fa qualche volta una pietosa stonatura: così nella prosa i poeti portano qualche cosa di esotico, di gentile, di insolito, spesso di leggiadramente inesperto che parla del loro paradiso, perduto.
Qualche volta è una frase concentrata, tagliente che abbaglia come un baleno e significa più che dieci pagine; — qualche volta è un’immagine aerea colorita, caduta là come una farfalla in un agguato: — talvolta è un tempestare di parole nuove, ardite che turbano e appagano, o un zampillo luminoso che si sprigiona e sale, o la trama tutta del lavoro che riluce aurea.
I migliori nella prosa non sono per solito i migliori nella lirica. I poeti maggiori, quelli che hanno raggiunto la perfezione nella difficile arte del sintetizzare, sono raramente in prosa limpidi, semplici, ordinati, fini. Se hanno l’efficacia quasi sempre e la forza, hanno anche quasi sempre il nervosismo o la brutalità. Gli altri invece, i poeti un po’ dilavati, all’acqua di rose come li chiamano, in prosa sono magici. Hanno la delicatezza, l’armonia, l’eleganza, il senso estetico: in una parola non sono mai tanto altamente poeti come quando scrivono senza le rime.
È forse per questa ragione che i francesi moderni ci sono superiori nella prosa, come noi siamo ad essi maggiori nella poesia.
In questa specie di legge del taglione v’ha però una scappatoia, uno scampo. Ed è per quegli spiriti felicemente equilibrati che non sono intrisi ma intinti di poesia; che sotto l’involucro iridescente e prezioso hanno una mente pratica e nutrita d’osservazioni sottili e profonde. Sono quasi sempre spiriti forti e buoni, cui l’intima e continua nozione della vita ritempra, non corrompe; e se talvolta par abbuiarli di scetticismo, il velo non è mai così denso nè così irrimediabilmente calato da non sperare che una volta o l’altra, a un dolce raggio di sole, possa rialzarsi su un viso già fidente e già pieno di sogni.
Hanno la forza e la grazia, sono, come lo Shelley si riprometteva di essere, «dolci ed arditi.» La tempra e la vaghezza della loro lirica fa sempre perdonar loro qualche possibile mancanza di forma di originalità; e la somma sincerità d’osservazione che assurge per mezzo della verità alla più delicata poesia, compensa la loro prosa della scarsezza dell’elemento fantastico che qualche volta s’incontra in loro.
La colonia artistica femminile, o per la sua superiorità di senso pratico sull’altra, o per la sua inferiorità di cognizioni scolastiche, deficienza spesso provvidenziale, può vantare forse più della maschile di codesti campioni vincitori. Oggi ne abbiamo un esempio dei più efficaci in una donna gentile e valorosa, un’italiana di Trieste: Elda Gianelli. Dei suoi meriti di poetessa, dei fulgori incantati che raggiano dalle sue raccolte di versi, ebbi l’onore di parlare, e a suo tempo persone competenti assai più di me li encomiarono. Ora mi è assai caro di rintracciare in un nuovo volumetto di prose questo tipo muliebre di scrittrice, ardente e severo.
Sono racconti e bozzetti aggruppati, secondo il poco simpatico uso presente, sotto il titolo del primo racconto e del più lungo, che viceversa non è poi quasi mai il più pregevole, qui come altrove. «Incontro», questo nome schietto e disinvolto che fa immaginare una cortese figura femminile che ci viene innanzi amichevolmente, è quello della novella che inaugura il volume. Date le premesse dell’azione, l’ambiente, i caratteri delineati con sicurezza e il numero dei personaggi, credo che questo racconto, qua e là un po’ sbiadito o affrettato, guadagnerebbe a rifondersi in un romanzo per equilibrarsi e affermarsi, precisamente come certe ricche nature adolescenti hanno bisogno per esplicarsi con ordine, dello sviluppo completo. Un romanzo che incominciasse con la scena che dà principio al racconto incomincierebbe assai bene. Quel vecchio conte, incollerito contro i reumatismi e la vecchiaia, non è una delle solite figure di padre nobile da commedia: è la vera vecchiaia del libertino, del despota, dell’egoista, arida e amara vecchiezza, più triste ancora di quella della sua vittima: la moglie inebetita dagli spasimi morali procuratile da lui.
Il solo fatto di quei due individui, di quelle due anime così lontane e così barbaramente avvinte dalle leggi umane e naturali, dal matrimonio e dall’infermità, che vivono, cioè respirano sotto lo stesso tetto, nella stessa gran sala, accanto al medesimo vecchio camino, è di un’alta potenza drammatica, di un’eloquenza indicibile. La Gianelli ha portato il suo sassolino all’edificio pericolante ancora del divorzio, forse inconsciamente: ma è una conclusione che si può dedurre, che si deduce dalla logica implacabile dei fatti e... basta.
Un’altra figura ben delineata e viva è quella di Marcella Sanvillari nello stesso Incontro; la figlia dignitosa ed onesta, quasi austera, della madre sgualdrina, antica amante e cattivo genio del conte.
L’incontro è quello di Marcella con Massimo: i figli innocenti. A Massimo dapprima fa orrore il progetto di sposare la figlia della ganza di suo padre che gli renderebbe in dote la sostanza ignominiosamente sottratta alla sua casa impoverita; ma poi, quando conosce la fanciulla, non più giovane nè bella, ma fatta forte e degna dal dolore, se ne innamora nel senso più alto e più nobile della parola, rinunzia alla dote e si sposano, poveri.
Come ho detto, tranne la prima scena efficacissima e l’incontro di Massimo con Marcella dipinto con delicata maestria e rara chiaroveggenza femminile, questo racconto non lo direi una perfezione. Si legge tutto, però, avidamente.
Se lo spazio non incalzasse, indugierei con diletto su gli altri scritti, ognuno dei quali ha più di un pregio o di analisi o di osservazione o di forma, ma non posso raccoglierli tutti in uno spazio così ristretto: li sgualcirei. Così scelgo: Padron Paolo, Settembre, La giornata di Andrea.
Non si può quasi rilevare l’azione del primo, tanto è semplice. La figlia di padron Paolo, un agiato campagnuolo, ha troppo amato un famiglio; e padron Paolo li discaccia entrambi, li manda in una bicocca isolata e malsana alla miseria, verosimilmente alla morte. La penna della Gianelli, già sintetica e vigorosa come poche penne femminili, ha qui raggiunto il massimo della sintesi, della vigoria. Ho letto poche cose così pietose, così tristi, della tristezza ineffabile dello sfrondamento assoluto, eterno. Paolina non ha più un’illusione per il suo amore che le grava solamente come un’espiazione nel momento in cui ne avrebbe bisogno come di una fortezza e di una difesa. Ella subisce il suo destino con la passività delle anime rozze, ma ne risente tutta la desolazione. Vorrei potere trascrivere la pagina in cui è dipinto il piccolo e dolente convoglio all’atto della partenza; un carretto carico di misere masserizie, e su quelle, all’uscire di chiesa dove s’erano uniti in matrimonio, da una parte la sposa dall’altra lo sposo «che volgeva il dorso, la testa giù, il collo seppellito nelle spalle, nell’attitudine di un vecchietto immiserito» già quasi estranei l’uno all’altra, al sole levante, nella solitudine fredda ancora, dinanzi alla pianura che «si apriva come un deserto.» Una pagina per sobrietà, per colorito, per naturalezza non indegna dei nostri ultimi immortali del Grossi o del Manzoni.
La giornata di Andrea è più importante come svolgimento; è un vero racconto, ben proporzionato, questo, fortemente concepito ma un po’ nebulosamente tradotto. Mi pare che la Gianelli abbia inteso di dipingere la giornata della caduta, della fine di un ingegno, ma le intenzioni dell’autrice attraverso il cervello bizzarro e guasto del protagonista restano un poco nell’ombra. Pure, appunto per il suo carattere eminentemente oggettivo che dà molto rilievo alla figura di Andrea e molta verità alle altre, che accenna con garbo un gracile episodio d’amore, La giornata di Andrea rimane un quadro dipinto alla brava, un quadro d’impressioni vive ed ardite.
Ma la più bella pagina del libro, secondo il mio gusto e il mio parere, è Settembre. C’è tutto; delicatezza, poesia, acutezza, pensiero. Mi pare Bourget, l’inarrivabile. È un’idealità raggiunta, un’illusione fermata con uno spillo d’oro. Qui bisogna proprio rileggere e tacere...
«Lasciatemi sbizzarrire, diceva lo spirito del poeta, lasciatemi piangere la melanconia sottile delle cose belle che passano, quella profonda delle cose tristi che arrivano.
«.... Vedete il settembre, il bel settembre dal verde intatto, dagli alberi onusti, dal cielo di cobalto e il sol d’oro che non brucia più, dai tramonti magnifici, dalla luna stupefacente, a cui il detto popolare vuole che sette lune si inchinino. È la bellezza il settembre, la bellezza perfetta nella sua maturità sfolgorante, il trionfo della vita, il compimento delle promesse di un anno intero.
«Lo salutano ricchi e poveri, giovani e vecchi. Egli è buono con tutti. Aprile promette, settembre ottiene. Le rondini si accingono alla partenza, i fidanzati al viaggio di nozze. Le une e gli altri ritardano ancora qualche poco. Il sole arriva caldo ancora alle note grondaie; settembre, il bel settembre dei nostri climi non ha fretta. È come una dolce sosta nel tempo.»
Qualcuno ha tacciato Elda Gianelli di cercare lo strano, il bizzarro.
Veramente per muovere con fondamento questa accusa nell’atmosfera in cui oggi ci si agita e si scrive è necessario, mi sembra, di riscontrare anomalie tali da impensierire seriamente sullo stato mentale dell’autore. Non si richiede niente di meno in quest’anno letterario mille ottocento novantadue... Oppure dobbiamo credere che il diapason dell’originalità stramba si sia spostato al punto da esser caduto al luogo della verità che si trova troppo verosimile per esser vera?...
La Gianelli osserva e raccoglie nella vita anche troppo, anche a costo di apparir di quando in quando umile e pedestre. La sua arte è equilibrata, determinata, sincera, onesta. Ella non ama le raffinatezze morbose, le voluttuose descrizioni, le cincischiature, il dettaglio. Ella non ama neanche la vaporosità di cui qualche volta i genietti alati della poesia paiono avvolgerla a tradimento, e di quel nimbo la sua geniale figura si illeggiadrisce come un giovane viso di un velo. Ma se ne libera presto, poichè ella non vuole pigliar abbaglio sul proprio cammino e tiene a guidare con mano sicura e sapiente la propria fantasia nelle vie stellate, infinite. La moralità, il patetico, il soave, il bello, scaturiscono nelle sue creazioni dall’esposizione limpida e semplice dei sentimenti, dei fatti, come i fiori delle acque. Ella parrebbe estranea all’opera sua se un sottile profumo non rivelasse la sua presenza vigile e invisibile; l’alito della creazione.
Dolce fatica quando Amore spira! più che dolce quando per una condizione morale ribelle o dolorosa o insolita, viene cercata come un sollievo all’abbondanza del cuore! L’ispirazione fluisce come il canto dalla gola dell’usignolo, la mente tutta vibrante per la presenza del Dio dà scintille e bagliori poc’anzi sconosciuti, si tracciano parole meccanicamente, tutti assorti nella voce che detta dentro che non è la nostra ma che si identifica così deliziosamente con noi. Mi pare (sono illusa o indovina?) mi pare che Incontro sia stato scritto appunto così, nella fluttuazione nova d’una nova vita, scritto senza pena, lagrimando o sorridendo, ma dolcemente, tanto vi scorre fresca l’ispirazione, idealizzata ancora da un non so che di tenero, di sommesso, di appassionato, di avvolgente... Un libro scritto in tono minore; un libro scritto, direbbe il D’Annunzio, con la Grazia...
II.
Cosimo Giorgieri-Contri: Lo Stagno
Quando, parecchi mesi or sono, mi piacque occuparmi dell’arte elegante e finissima del Giorgieri Contri, il quale (noncuranza piuttosto unica che rara in questa fiera delle vanità) non ha ancora raccolto i suoi bei versi2, accennai pure al romanzo futuro che era appena, allora, una promessa. Ora il volume è uscito nella classica bianca veste battesimale dalla più solerte casa editrice d’Italia, ma ciò che è meglio, ha realizzato quasi interamente quello che ci si attendeva da lui.
Nella prima pagina, nell’atrio, troviamo l’autore fra un gruppo d’amici che ci mette in guardia contro questo «povero libro ineguale, scritto a diversi intervalli di tempo: la prima parte nella giovinezza che spera e sogna ancora, la seconda nella giovinezza che muove già alla quiete, donde non vengono più luci di speranze o di sogni.» «I critici, ci avverte ancora, lo troveranno troppo slegato e i dilettanti troppo semplice...» Ma noi gli sorrideremo e passeremo oltre senza dargli retta.
Sono quasi trecento pagine d’una colorita delicatezza, che si suggono dolcemente, si respirano, se ne resta intrisi. Tutto diafano e molle e suggestivo come in una notte plenilunare; tutto di una poetica tenuità di sogno, d’una semplicità malinconica di vita vera, seducente il nostro spirito col fascino dei libri pieni di pensiero, più sottile, più penetrante di quello dei libri pieni d’azione. In queste pagine, raccolte sotto il titolo simbolico e a parer mio non troppo esatto di «Stagno», si svolge la storia di un’anima troppo delicata che non trovando o non avendo la forza di cercare appoggi nell’amore, nell’arte, nell’amicizia, nel lavoro, si ripiega miseramente su sè stessa medicando le sue ferite con una filosofia desolata.
Con la mano abile e leggiera, usa a determinare le sfumature senza toglier nulla della loro vaporosità, il Giorgieri-Contri ci fa sfilare dinanzi visioni penetranti di paesaggi, di figure eleganti e tranquille, di idilli leggiadri o mesti, analizzando aspetti, anime, cose, con intuizione profonda, cui l’esattezza non toglie una vaga tinta di originalità che rivela la tempra dello scrittore. Nè alcun mezzo volgare, nessuna tragicità, facilitano col rilievo la descrizione. Non c’è neppure il forte dramma intimo che oramai nella produzione romantica ha preso il posto del frettoloso e ingenuo movimento dei romanzi d’un giorno. Null’altro che le nebbie, il tedio, i languori di qualche inverno malsano dell’anima come su noi tutti, fioritura estrema del secolo, n’è passato qualcuno: condizione spirituale che, essendo la più penosamente sconsolata, è pure la più difficile per l’arte che deve essere profonda e squisita. In questo grigio velario fluttuano bensì sogni di rosa e di viola, aspirazioni, promesse, forse, ma indeterminate e lontane.
Così a questo Filippo che non sa che passeggiare in campagna e in città, solo o più o meno bene accompagnato, verrebbe voglia d’augurare ciò che un giovane di mia conoscenza, un po’ intinto della stessa pece, si augurava come ricostituente: un gran viaggio, una gran malattia o un grande amore. Filippo Albio ama, ma questo amore è una fiamma di candela, oscillante, debole, che non illumina nè riscalda, che la lontananza assopisce, gli ostacoli esauriscono, la fatalità vince quasi senza lotta, che la morte stessa dell’amata non fa che tingere di romanticheria. Triste amore di tempi tristi, nel quale c’è più egoismo che passione, più irresolutezza che delicatezza — che si fa una barriera morale di una fisima sentimentale o che passa poi senza scrupoli attraverso all’olocausto d’un’illibatezza immeritata. Egli per salvare Ifigenia da un esempio triste malvagio d’amore, vi rinunzia e la lascia sposare dolente ad un uomo che non ama e che non l’ama — ma ne accetta poi la dedizione come la cosa più naturale del mondo quando ella tradita, disillusa, viene a gettarglisi tra le braccia, due povere braccia che non hanno nemmeno la forza di custodirsi quella dolcezza per sempre.
La figurina di Ifigenia è dipinta con un tocco elegante, leggiero, sapiente. In lei tutto è impulso, sincerità. Una vera bambina, una vera giovinetta, una vera donna, di quelle che la maggioranza maschile ama:
bella e ignorante, debole e dolce, con un po’ di grazia che nasconde la banalità, fatta più per le carezze che per l’amore. Nè la fanciulla, vittima delle sofisticherie sentimentali dell’innamorato, nè la donna vittima dell’egoismo dell’amante, giungono a destarci una compassione profonda — poichè la fanciulla non ha saputo che rassegnarsi e la donna non ha saputo che cedere, rassegnazione e dedizione nè elevata nè intera.
Questa signorina che sa muoversi, vestirsi, passeggiare, pregare, guardar la luna e aver l’emicrania così leggiadramente, non sente le complicazioni dolorose di quel povero cuore malato che le batte vicino, non posa mai la sua mano bianca sul braccio del suo compagno per dirgli, con la voce dolce che pareva venire di lontano, una di quelle parole che l’amore sa trovare e che non si dimenticano più. E la donna che in uno slancio più inconsulto che generoso viene a domandar conforto a lui che pareva averla dimenticata, non sa poi affermare coraggiosamente il suo amore, reagire contro la fine del suo sogno, contro le fosche malinconie dell’amato, farsi la sua salvezza, il suo angelo custode per sempre.
Rientrando sotto il tetto coniugale, vilmente, presso l’uomo che non stima più, che non ama, che ha ingannato, il soffio di passione che poteva essere grandioso se non puro, si spenge nell’adulterio volgare.
Una pena trista pare incombere su questa coppia gentile ed amante dal principio del libro sino alla fine, quella di amarsi per lasciarsi, per dimostrare non la fugacità ma l’inutilità dell’amore...
Una figura di secondo ordine, ma vigorosa e simpatica è quella di Giacomo, l’amico di Filippo, che ha delle teorie tutte sue, originali e profonde, sulla vita e sull’amore: «Niente riempie più nobilmente la vita che pensare all’impossibile, — dice una volta, — c’è qualche cosa di grande in questo pensiero che ti occupa, qualche cosa di orgoglioso nel dire a te stesso che la tua vita non ha una meta uguale a quella di tutti gli uomini, ma una meta che non raggiungerai mai e che pure preferisci ad ogni altra più certa e più ridente, forse.»
E un’altra volta: «Nella vita tutto quanto non è stoltezza è volgarità: amo meglio esser stolto che volgare.» Ecco un’individualista convinto!
Ma un giorno questo uomo che ci appare sereno e qualchevolta eletto nel dolore, sopraffatto dalla sua tortura morale si uccide. Questo l’arte non rendeva necessario e il libro ha una vena malsana di più... Squisito libro però, malgrado quel po’ di sconnessione che l’autore stesso riconosce e giustifica; d’una squisitezza di pensiero, d’una vaporosità di forma, d’una semplicità di stile come, pur troppo, in Italia non siamo avvezzi a riscontrare. La prosa di questo poeta fa pensare a quella di Bourget e di Loti, gl’indimenticabili: al primo, per la percezione netta di qualche lato più complesso e più oscuro dell’anima; al secondo, per quell’indefinibile senso che ha della nostalgia la mestizia assorbente, dolce, languidamente gravosa, e che li tiene non solo quando parlano del passato che spiega per essi tutto il suo fascino di leggenda e di storia, ma anche quando sorridono, quando si dicono felici. Paiono fiori cresciuti all’ombra e imploranti sempre, anche inconsciamente, la carezza fulgida, vivificante del sole.
Trascrivo una pittura stupenda:
«Quella sera rimanemmo a lungo, ricordo, mia madre ed io seduti davanti alla casa. La notte era profonda e splendida; i tre re brillavano netti sul cielo d’un fulgor di mosaico e tutto il cielo pareva cosparso di una polvere fina, come sabbia d’argento. La valle taceva immersa nel buio; ne saliva appena il trillare dei grilli d’una cadenza lenta e dolce. Accanto a noi qualche foglia muoveva nel vento, un grosso pino fletteva la punta, a tratti, e a tratti pure la sabbia del viale scricchiolava. C’era nella notte un fascino acuto; tutto pareva vegliasse e dormisse nel medesimo tempo: una impressione strana, ma decisa. Tutto pareva attendesse qualche cosa, sospirasse, invocasse, sperasse. E quella strana impressione si faceva pure su me.»
Ma tutta la soave magia dell’Autore si effonde quando comincia a parlar del passato. E non per ricordare o rimpiangere, non un passato, ma tutto il passato in astratto, tutta la sterminata immensità sbarrata dall’ieri inesorabilmente. Questo amore delle cose perdute, delle cose morte, sembra il più grande amore della sua vita, la sua idealità più gentile, il suo sogno più caro; è certo la nota fondamentale di tutta l’opera del giovine poeta, un ritornello triste, ma d’un incanto irresistibile. È il Giorgieri che parla per bocca del suo personaggio, qui:
«C’è, nel dire che una persona e un ricordo non tornerà più, qualche cosa di così acutamente dolente che riesce certe volte per fino a dolcezza. Non tornando più, quel ricordo o quella persona si manterranno sempre come noi li abbiamo nel cuore, puri, incontaminati, sereni.»
E ancora: «C’è, in questo ritorno dell’anima alle cose dilette e perdute, una tristezza così dolce che vince perfino il pensiero amaro della vanità del ritorno. Vivere o pensare di vivere non è la stessa cosa in fondo?»
E più in là: «Io sentivo in me come aperto un abisso dove sarebbero andati a finire tutti i desideri realizzati d’un giorno; io vedevo, io prevedevo la vanità e la meschinità delle cose desiderate, e pure il desiderio restava, reso anzi più acuto da quella grande idea della fine che passava dietro di lui.»
Infine questa riflessione così giusta e così sottile;
«Pare quasi che il rimpianto sparga sul cuore qualche cosa di così perfidamente dolce che ogni altra dolcezza non possa superarlo.»
Queste osservazioni penetranti e delicate che incontriamo quasi ad ogni pagina, fanno ai personaggi un fondo sfumato, quasi indistinto, ma d’un’armonia estetica grande, come la fusione smorta e sapiente negli arazzi antichi nei quali non si sa quasi dove il fondo finisca e dove la scena incomincia. Lo Stagno con le sue fantasie semplici e meste tramate d’oro, dà l’idea di uno di quelli arazzi meravigliosi, che paiono tessuti dalle fate nel paese dei Sogni.
Così passano i poeti nella prosa, elevandola fino ad essi per non scendere fino a lei: facendola evaporare tutta in una nebbia di profumo, in un’irradiazione di bellezza che serba della prosa la sincerità gentile, che ha della poesia lo splendore regale. Per questo, qualche volta, tutti intesi nella musicalità della loro sfera, i poeti non pensano che certi giri di frase, certi concetti, certi vocaboli possono parere artificiosi o insoliti troppo, a chi giudica dal punto di vista dell’idioma parlato: così anche nello «Stagno» per chi lo leggerà o lo giudicherà coi criteri soliti applicati ai romanzi, troverà qualche neo o nell’insistenza di qualche verbo tronco, in qualche inverosimiglianza nell’orditura dei fatti, in una certa compiacenza esagerata dei colori e dei profumi, compiacenza che diventa un po’ fissazione quando fa dire all’autore che la piccola Ifigenia aveva i capelli che odoravano di caprifoglio, e fatta donna, gli occhi, le pelliccie, i guanti, le scarpe, le calze violette... A costo di rovesciarmi addosso gli odi del poeta, mi appello a tutte le signore se è possibile una stranezza simile...
Chiudendo il libro che finisce con un’affermazione desolata dell’immensa vanità del tutto, questo libro non volgare scritto da un ingegno non comune, questo Stagno che fra le nebbie tacite e malsane ha i margini fioriti di tutti i fiori di primavera — queste pagine quasi tutte d’amore, veramente sentite, veramente sofferte, forse; mi sono trovata a ripetere fra me le recenti parole d’un valente scrittore francese e le ho ridette, malinconicamente: «La vie active avec ses promesses et ses triomphes, vaut elle qu’on lui sacrifie l’amour?... L’amour, de son côté, mérite-t-il les privations, les regrets, les remordes qu’on endure pour lui quand on a trop écouté sa voix?... Tout passe, tout coule, tout s’effondre: il faudrait un point fixe, au-dessus de la vie, au-dessus de l’amour...»