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gere di romanticheria. Triste amore di tempi tristi, nel quale c’è più egoismo che passione, più irresolutezza che delicatezza — che si fa una barriera morale di una fisima sentimentale o che passa poi senza scrupoli attraverso all’olocausto d’un’illibatezza immeritata. Egli per salvare Ifigenia da un esempio triste malvagio d’amore, vi rinunzia e la lascia sposare dolente ad un uomo che non ama e che non l’ama — ma ne accetta poi la dedizione come la cosa più naturale del mondo quando ella tradita, disillusa, viene a gettarglisi tra le braccia, due povere braccia che non hanno nemmeno la forza di custodirsi quella dolcezza per sempre.
La figurina di Ifigenia è dipinta con un tocco elegante, leggiero, sapiente. In lei tutto è impulso, sincerità. Una vera bambina, una vera giovinetta, una vera donna, di quelle che la maggioranza maschile ama:
bella e ignorante, debole e dolce, con un po’ di grazia che nasconde la banalità, fatta più per le carezze che per l’amore. Nè la fanciulla, vittima delle sofisticherie sentimentali dell’innamorato, nè la donna vittima dell’egoismo dell’amante, giungono a destarci una compassione profonda — poichè la fanciulla non ha saputo che rassegnarsi e la donna non ha saputo che cedere, rassegnazione e dedizione nè elevata nè intera.
Questa signorina che sa muoversi, vestirsi, passeggiare, pregare, guardar la luna e aver l’emicrania così leggiadramente, non sente le complicazioni dolorose di quel povero cuore malato che le batte vicino, non posa mai la sua mano bianca sul braccio del suo compagno per dirgli, con la voce dolce che pareva venire di lontano, una di quelle parole che l’amore sa trovare e che non si dimenticano