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nessione che l’autore stesso riconosce e giustifica; d’una squisitezza di pensiero, d’una vaporosità di forma, d’una semplicità di stile come, pur troppo, in Italia non siamo avvezzi a riscontrare. La prosa di questo poeta fa pensare a quella di Bourget e di Loti, gl’indimenticabili: al primo, per la percezione netta di qualche lato più complesso e più oscuro dell’anima; al secondo, per quell’indefinibile senso che ha della nostalgia la mestizia assorbente, dolce, languidamente gravosa, e che li tiene non solo quando parlano del passato che spiega per essi tutto il suo fascino di leggenda e di storia, ma anche quando sorridono, quando si dicono felici. Paiono fiori cresciuti all’ombra e imploranti sempre, anche inconsciamente, la carezza fulgida, vivificante del sole.

Trascrivo una pittura stupenda:

«Quella sera rimanemmo a lungo, ricordo, mia madre ed io seduti davanti alla casa. La notte era profonda e splendida; i tre re brillavano netti sul cielo d’un fulgor di mosaico e tutto il cielo pareva cosparso di una polvere fina, come sabbia d’argento. La valle taceva immersa nel buio; ne saliva appena il trillare dei grilli d’una cadenza lenta e dolce. Accanto a noi qualche foglia muoveva nel vento, un grosso pino fletteva la punta, a tratti, e a tratti pure la sabbia del viale scricchiolava. C’era nella notte un fascino acuto; tutto pareva vegliasse e dormisse nel medesimo tempo: una impressione strana, ma decisa. Tutto pareva attendesse qualche cosa, sospirasse, invocasse, sperasse. E quella strana impressione si faceva pure su me.»

Ma tutta la soave magia dell’Autore si effonde quando comincia a parlar del passato. E non per