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Come ho detto, tranne la prima scena efficacissima e l’incontro di Massimo con Marcella dipinto con delicata maestria e rara chiaroveggenza femminile, questo racconto non lo direi una perfezione. Si legge tutto, però, avidamente.
Se lo spazio non incalzasse, indugierei con diletto su gli altri scritti, ognuno dei quali ha più di un pregio o di analisi o di osservazione o di forma, ma non posso raccoglierli tutti in uno spazio così ristretto: li sgualcirei. Così scelgo: Padron Paolo, Settembre, La giornata di Andrea.
Non si può quasi rilevare l’azione del primo, tanto è semplice. La figlia di padron Paolo, un agiato campagnuolo, ha troppo amato un famiglio; e padron Paolo li discaccia entrambi, li manda in una bicocca isolata e malsana alla miseria, verosimilmente alla morte. La penna della Gianelli, già sintetica e vigorosa come poche penne femminili, ha qui raggiunto il massimo della sintesi, della vigoria. Ho letto poche cose così pietose, così tristi, della tristezza ineffabile dello sfrondamento assoluto, eterno. Paolina non ha più un’illusione per il suo amore che le grava solamente come un’espiazione nel momento in cui ne avrebbe bisogno come di una fortezza e di una difesa. Ella subisce il suo destino con la passività delle anime rozze, ma ne risente tutta la desolazione. Vorrei potere trascrivere la pagina in cui è dipinto il piccolo e dolente convoglio all’atto della partenza; un carretto carico di misere masserizie, e su quelle, all’uscire di chiesa dove s’erano uniti in matrimonio, da una parte la sposa dall’altra lo sposo «che volgeva il dorso, la testa giù, il collo seppellito nelle spalle, nell’attitudine di un vecchietto immiserito» già quasi estranei l’uno