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un fondo sfumato, quasi indistinto, ma d’un’armonia estetica grande, come la fusione smorta e sapiente negli arazzi antichi nei quali non si sa quasi dove il fondo finisca e dove la scena incomincia. Lo Stagno con le sue fantasie semplici e meste tramate d’oro, dà l’idea di uno di quelli arazzi meravigliosi, che paiono tessuti dalle fate nel paese dei Sogni.

Così passano i poeti nella prosa, elevandola fino ad essi per non scendere fino a lei: facendola evaporare tutta in una nebbia di profumo, in un’irradiazione di bellezza che serba della prosa la sincerità gentile, che ha della poesia lo splendore regale. Per questo, qualche volta, tutti intesi nella musicalità della loro sfera, i poeti non pensano che certi giri di frase, certi concetti, certi vocaboli possono parere artificiosi o insoliti troppo, a chi giudica dal punto di vista dell’idioma parlato: così anche nello «Stagno» per chi lo leggerà o lo giudicherà coi criteri soliti applicati ai romanzi, troverà qualche neo o nell’insistenza di qualche verbo tronco, in qualche inverosimiglianza nell’orditura dei fatti, in una certa compiacenza esagerata dei colori e dei profumi, compiacenza che diventa un po’ fissazione quando fa dire all’autore che la piccola Ifigenia aveva i capelli che odoravano di caprifoglio, e fatta donna, gli occhi, le pelliccie, i guanti, le scarpe, le calze violette... A costo di rovesciarmi addosso gli odi del poeta, mi appello a tutte le signore se è possibile una stranezza simile...

Chiudendo il libro che finisce con un’affermazione desolata dell’immensa vanità del tutto, questo libro non volgare scritto da un ingegno non comune, questo Stagno che fra le nebbie tacite e malsane