Dal mio verziere/Alberto Cantoni
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un re umorista1
Diciamolo, via: ci vuol un po’ di coraggio a questi lumi di luna!... Non parlo, beninteso, del re, ma dell’autore, che ha scritto quelle tre parole in fronte al suo volume prima di mandarlo per il mondo. Corrono tempi così permalosi, è così accanita la rabbia di questo scorcio di secolo, come ebbe a chiamarla argutamente il Bonghi, che non mi meraviglierei punto se un dì o l’altro saltasse fuori qualche nuova cima d’ingegno con la scoperta peregrina che quel libro è una satira e l’autore un politicone della tempra più sottile. E allora, povero signore! avrebbe un bell’arrabbattarsi con le opere e con le parole per dimostrare il contrario; potrebbe magari morire per il trionfo della sua fede, non gli farebbero neanche la grazia di cinque minuti per ascoltarlo, ubriacati dall’ardore di procurargli a modo loro l’immortalità.
Ma Alberto Cantoni, avvezzo com’è ad anatomizzare i suoi polli prima di mangiarseli, dopo il titolo stuzzicante si trincera in un prologo poetico e forte come una rocca medioevale. Le memorie dell’incognito re gli sono promesse in un vagone di ferrovia cosmopolita e gli arrivano poi per la posta dall’Inghilterra ben suggellate e scritte in francese (perchè non in volapùk, la lingua universale?).
E lungo le memorie, divise in cinque fascicoli, non un raggio, non un filo, non la più piccola velleità d’una qualunque bandiera. Se l’intenzione della satira ci fosse, il Cantoni non avrebbe messo, mi pare, tanta cura per infiltrarci nella mente quasi a nostra insaputa la tranquilla persuasione che ciò non sia.
Un umorismo fine si diffonde per tutto il libro, a volte arguto, a volte un po’ dilavato, di buona lega sempre.
Leggendolo di seguito, me ne rimase l’impressione d’una di quelle polle d’acqua leggermente ferrugginosa sgorgante di continuo con un gorgoglio di dolcezza brontolona. Il sapore non piace a tutti, nè sempre; ma quando il palato ci si abitua, si prova un certo piacere ad affrontarlo. «Un re umorista» non è un romanzo nè un libro nato da un pensiero profondo; egli appartiene a una categoria assai scarsa in Italia, ma che non per questo ha la sua ragione di essere come altrove, specialmente poi se i mezzi adoperati sono sapienti, come ad esempio, qui, la snellezza dello stile di una prodigalità veramente toscana. Anzi qualchevolta se ne abusa, e allora l’agilità diventa acrobatismo, il quale, se da un certo punto di vista può costringere all’ammirazione, cessa in pari tempo d’esser arte vera.
Anche di quello spirito incisivo, motteggiatore, ch’è una delle attrattive del libro, il Cantoni si compiace troppo, di quando in quando a danno dell’efficacia, della finezza e delle linee generali del lavoro. Talora si stempera in tutta la vanità delle Storielle di Camillo Boito, tal’altra si condensa invece nell’essenza saporosa dei Paradossi di Nordau. Nè intendo con questo di sminuire la sua personalità di scrittore che si delinea spiccata come poche — tanto spiccata da impedirgli perfino di modificarla, quando entrano in ballo altri personaggi che a rigor di legge non sarebbe troppo verosimile trovare tutti, e sempre, in vena di far dell’umorismo come il protagonista o come lui. Per esempio, quella cortigiana d’ordine molto inferiore, che il re per un caso fortuito rapisce di notte dalla via, si esprime come la regina e come il presidente del consiglio: i due interlocutori che parlano di più. E dallo spunto dei discorsi di quelli che parlano di meno, si capisce che, se la loro loquacità fosse maggiore, manifesterebbero il loro pensiero allo stesso modo, che è quello del re. Ciò dà al volume una tinta di monotonia e un’intonazione di leggerezza che logorano la trama già lieve della narrazione.
Vero è che essendo memorie scritte da una persona sola, questa avrebbe potuto colorire del suo stile i discorsi che ripeteva; ma è verosimile che li infiorasse anche dei suoi sinonimi, dei suoi paragoni, dei suoi tratti di spirito?
Scoglio rude, questo del soggettivismo; contro il quale è così facile urtare specialmente nel dialogo — dramma o romanzo che sia — scoglio che pochissimi evitano, perchè mentre quasi tutti si occupano a donare ad ognuna delle proprie creature intellettuali una fisonomia propria, un’individualità, un tipo insomma, pochissimi si curano di darle anche una sfumatura di linguaggio proprio e distinto, come ognuno di noi ha nella vita a complemento e ad affermazione di sè. In questo i francesi possono esserci maestri. Quante larve di Zola, di Daudet, del Flaubert, del povero Maupassant ci sono rimaste vive e nette nella memoria non tanto per quello che fanno per quello che pensano, quanto per un loro modo speciale di esprimersi: o un laconismo, o una parola insistente, o un giro di frasi, o un’esclamazione, o un vizio di pronuncia, che li rappresenta a noi autonomi e fuori affatto della lente dello scrittore! Qui in Italia, invece, sia per la difficoltà grande della lingua che si piega a stento ai capricci della nostra fantasia, o perchè l’idioma regionale non è ancor fuso in un disinvolto parlar italiano, nello scoglio danno anche i sommi — non eccettuato il D’Annunzio, il grande incantatore; e Matilde Serao, la fiamma viva.
Ma il «Re» mi aspetta, ed è proprio una cosa nuova far aspettare un re.
Bando dunque alle minuzie, tanto più che l’intento principale di Alberto Cantoni non fu di fare un romanzo, ma di guardare il mondo da un punto di vista diverso dal comune e con un paio di lenti lievemente affumicate. Molte cellule racchiudenti il germe dei grandi problemi della morale e della vita si susseguono sotto i suoi occhi: molte, non tutte; ed anche su queste indugia la lente più per afferrarne l’ironia e la vanità che per analizzarle o colmarle del suo pensiero. Raramente questo re espone un concetto suo, ben definito, e qui somiglio quell’amabile brontolone a certuni che non sanno che crollare il capo e sindacare e sofisticare colle mani alla cintola e col cervello soffuso di vaporosità inutili quanto leggiadre.
Condotta con arte delicata è la progressione di quel leggero pessimismo che forma il fondo dell’humor in generale e di queste regie memorie in particolare: appena trasparente dapprima, si addensa coll’ammonticchiarsi degli anni, degli avvenimenti, al ringagliardire del vento che spazza via i pètali della fiorita di rose, su cui camminano tutti a vent’anni — giovani re, e giovani popolani.
Fra i capitoli, il cui titolo è spesso d’un’originalità di dubbio gusto, ammiro quello dedicato al ballo «Flamenco» nel quale la vigoria è assai armoniosamente commista alla cesellatura e alla sobrietà. Fresche e malinconicamente vere, le pagine in cui passa una graziosa figurina di attrice che la lunga abitudine dell’artificio ha reso incapace di esprimere con naturalezza un sentimento sentito; — simpatica la scena, che già accennai, fra re e cortigiana, scena fuggevole d’una fantasia di ballata o di sogno; — drammatico, malgrado lo spumeggiare dello spirito che ne attenua la tragicità, l’episodio dell’attentato alla vita del re, arrischiato dalla bianca mano di Katie, la lettrice russa che quel capo ameno di sovrano si limita per il momento a legare per i polsi a uno stipo col fazzoletto, come un’Angelica.... vestita! È una pennellata carina, d’indole schiettamente francese, meno le conseguenze che possono essere, ahimè, di tutti i paesi... Il re è rimasto incolume, ma un sospetto postumo, abbastanza avvalorato, che Katie abbia tentato il colpo meno per ragioni politiche che per ragioni amorose, gli conficca nell’anima uno dei soliti dardi contro cui non v’ha scudo nè difesa; e la bellissima dagli occhi azzurri e dalla voce melodiosa è vendicata, almeno per qualche tempo, più raffinatamente che non lo avesse potuto fare con la piccola pallina di piombo mirata al cuore.
Nel capitolo delle «Esposizioni» v’hanno osservazioni e definizioni sottili, fra cui questa che meriterebbe di essere stampata in fronte al volumetto non comune:
«L’umorismo è l’arte di far sorridere melanconicamente le persone intelligenti».
«.... Anche l’umore è una gran forza» — scrive più innanzi a pagina 210 — «appena che sia ben diretta, e può talvolta arrivare dove non arriva la logica nel campo del pensiero, nè la esperienza nel campo dei fatti.
— In ogni modo, camicia di Nesso o nimbo leggiero che esso sia, non diventerà mai tale cosa da potersi levare e mettere come un abito di cerimonia e non importa nulla se guasterà talvolta le cose buone che non sono molte, perchè più sovente darà mano a sopportare le cattive che non sono poche».
Del resto l’osservazione minuta, esatta, non priva d’una certa arguzia, s’incontra sovente in queste memorie regali che hanno il pregio massimo di essere quelle d’un uomo sincero dotato del triste privilegio di conoscere e di analizzare sopratutto sè stesso spietatamente. Questo re psicologo ci dice il perchè di molte contraddizioni, di certe intime lotte che fanno sorridere gli uomini d’azione e che travagliano i delicati: le gesta dell’anima, ignorate, misteriose spesso per gli eroi medesimi costretti a pugnare nel laberinto contro un Minotauro invisibile.... Benvenuto dunque il serico filo che questo principe ci affida sorridendo!
Com’è vera nella sua complicazione l’analisi di quella «irritazione morale»: «.... si rivelava con dei rapidi passaggi dalla più febbrile allegria alla più depressa mestizia, con delle interruzioni di abbattimento e come di nausea dell’uno stato e dell’altro. A quest’ultima condizione ed anche alla tristezza, per quanto profonda, mi sapeva talvolta rassegnare, ma non mai, appena che ci pensassi un po’, alla troppa giocondità, perchè forse più morbosa degli altri stati, e perchè, quanto più essa dava segno di sè medesima, ed altrettanto io era sicuro di piombare più a fondo nell’estremo opposto».
Ed anche questa, acuta ed essenzialmente umana: «........ gli spasimi del dolor fisico, e non importa quali, possono avere benigna influenza sopra lo spirito, allo stesso modo come le angoscie del cuore possono avvalorarvi a sostenere le torture del corpo. Nient’altro. Dolor acerrimus farmacus».
È invecchiato il giovine re, che si compensava alla notte della rigida etichetta del giorno, galoppando sul suo cavallo alla ventura, proprio come un ardente principe delle novelline di fate. È invecchiato, immalinconito, ha la gotta, ed esagera i suoi scrupoli sino a tralasciare di scrivere le sue memorie, che gli pare debbano scemare l’ultima energia che vuol serbare al suo popolo.
«Povera umanità!» termina sospirando. «Ma più poveri di tutti coloro i quali si stillano continuamente il cervello per determinare, ciascuno alla sua maniera, le origini, i procedimenti e gli effetti del male in terra, senza tentare di reciderlo, almeno dentro di essi, e senza porre mente che se non ci fosse stato il male, via, siamo giusti, nemmeno si avrebbe mai saputo che cosa fosse il bene. Come siamo ridicoli e lagrimevoli insieme!»
Ecco, non c’è bisogno d’esser re per arrivare a questa conclusione.
Tutti, grandi e piccoli, maestri e discepoli, purchè portino in sè il germe dell’analisi — dello splendido fior velenoso — sono sicuri di rimanerne vittima pei primi. È una delle nostre grandi miserie questa voluttà insaziabile della vivisezione, che ci fa rialzare dissanguati, vacui, nauseati e sopratutto tristi della terribile tristezza dell’impotenza e della vanità. Almeno il male giovi, almeno le vittime ammonticchiate sugli altari servano a propiziare l’arte, la gran Dea.... Speriamo.
Ora ci dia un romanzo il Cantoni: un romanzo oggettivo. Sarà un romanzo psicologico, fine, elegante; questa, più che una speranza, è una fede.
Note
- ↑ Firenze; Barbèra, 1890.