Cortona convertita/Canto primo

Canto primo

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Cortona convertita Canto secondo


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CANTO PRIMO


ARGOMENTO.


Il sito, la Città, costumi, e vanti
     Dei Cortonesi, e un Missionario eletto
     Che l’Umbria tutta avea ridotta in pianti,
     A Cortona chiamato a questo effetto;
     Monaci, Religiosi, e Mendicanti,
     E Gesuiti per altrui diletto
     Con il lor operar, nè più nè meno,
     In questo Canto son descritti appieno.


I.


Canto le pompe, i fasti, e l’ambizione,
     Gli odj, gli sdegni estinti in un momento,
     E gli Uomini di mala inclinazione
     Con Prediche ridotti al pentimento,
     Nel tempo che seguì la gran Missione
     D’un certo Padre alla salute intento,
     Che indusse nel Paese di Cortona
     A darsi al ben oprar gente non buona.

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II.


O Febo tu, che di bugiardi accenti
     L’orecchie empisti a Popoli Minchioni,
     Dando pastura a curiose genti
     Di sognate menzogne, e d’invenzioni;
     Sprona la Musa mia con argomenti,
     Tanto ch’io possa metter in canzoni,
     E col favor, che a me darà Talìa,
     In versi raccontar l’altrui pazzìa.

III.


Ma voi, Corvi di veste, e di coscienza,
     Che il suol di Cristo di zizanie empite,
     Ed ognor con avara impertinenza
     E testamenti, e borse ripulite;
     Mentre in fatti ribaldi, alla apparenza
     Vita mostrate ed esemplare e mite;
     Lasciando agli altri il predicare Dio,
     Volgete il collo torto al Canto mio.

IV.


Posta è Cortona sopra un alto monte,
     A cui s’ascende per sassoso calle,
     E rivoltata all’Austro, erge la fronte
     Al vago sito d’un’amena valle.
     Se dell’antichità si cerca il fonte,
     Molti secoli porta su le spalle;
     E per quanto ne scrivono gli Autori,
     Edificata fu da’ Muratori.

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V.


Son per lo più le fabbriche all’antica
     Con poco buon disegno, e mal’intese,
     E condannolle la montagna aprica
     A mantener i venti a proprie spese:
     La squadra fu d’ogni angolo nemica
     Negli edifizi; e così bel Paese
     Forma il ritratto in ogni sua struttura
     Del vituperio dell’architettura.
     

VI.


Ripiena ell’è di molti abitatori,
     Poveri, ricchi, dotti ed ignoranti,
     Di bugiardi Mercanti, e di Dottori,
     Di maligni Usurai, e di Furfanti,
     D’ingegni sciocchi, e dolci, e di Sartori,
     Che con la lingua fan giubboni, e manti;
     Di Nobili, Plebei, e mal creati,
     D’uomini oziosi, e d’Asini togati.
     

VII.


Cittadini vi son di bassa mano,
     Ch’hanno gran fumo in testa e poco arrosto,
     Stimando il sangue lor, sangue Troiano,
     E di razza più nobile composto:
     Trattano poi con atti da villano
     Chi dello stato lor non gode il posto;
     E se son de’ Priori, e del Consiglio,
     Portan con borsa asciutta, altero il ciglio.

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VIII.


Sopra de’ fatti altrui han per usanza
     Il far su le botteghe esperienza,
     Ed i Frati imitar dell’Osservanza,
     Col darci spesso ancor qualche sentenza;
     E con estratti d’anima in sostanza
     Fanno de’ vizi altrui la quintessenza;
     E spie vi sono ancora in scritto, e in voce
     Fin tra color, ch’han sul gabban la Croce.
     

IX.


Sono per vanità così ambiziosi
     Gli Uomini, e Donne nel seguir l’usanza,
     Che molti fanno per vestir pomposi
     In debiti cangiare ogni sostanza:
     Si scorgon quivi pur certi fumosi
     Ricchi di roba, e scarsi di creanza
     Pavoneggiarsi con la nera cappa;
     E poco fu, che abbandonar la zappa.
     

X.


Alcuni poi tra’ Cittadini eletti
     Dalla fortuna, senza discrezione
     Danno agli Artieri come a lor soggetti
     Il titol di canaglia, e di barone;
     E v’è chi con eretici concetti
     In mente ancora ha tal proposizione;
     Che dal Plebeo il Nobile diviso
     Abbi luogo più degno in Paradiso.

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XI.


La superbia, l’invidia e detrazioni,
     La crapula, gli stupri, e gli adulteri,
     L’usure, le vendette sono azioni
     Da Nobili par loro, e Cavalieri;
     Contro natura poi l’inclinazioni
     Stiman vizzj galanti, e assai leggieri;
     E che tra i predicabili peccati
     Sia questa proprietà di Preti, e Frati.
     

XII.


Distinguono il peccato in loro essenza
     Tra rustico, plebeo, e cittadino;
     Chiaman tra loro casi di coscienza
     Solo chi ruba un porco, o un asinino:
     E lo stracciar talora la pazienza
     Vizio da mulattiere, o vetturino:
     Tra’ peccati però non trovan loco
     Al più grosso tra lor, ch’è il creder poco.
     

XIII.


Vanno a sentir la Messa, e i Vespri in Chiesa
     Con la mente dal Ciel sempre divisa,
     Poco devota, e solamente accesa
     D’amor lascivo, e tra le ciarle, e risa;
     Rimirando or la Nina, ed or la Besa,
     Or la Bita, or la Checca, ed or la Lisa:
     Voltan mentre si canta Eleisonne
     Le spalle a Dio per vagheggiar le Donne.

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XIV.


Vi son cervelli d’avarizia tinti,
     Che pensando a lor grasce il prezzo alzare
     Mandano il grano in piazza; e poi con finti
     Rigiri per mezzani il fan comprare:
     Altri vi son, che dal bisogno spinti
     Capital dell’altrui sanno ben fare;
     Ma i debiti pagare al creditore
     Stimano gran vergogna e disonore.

XV.


Altri vi sono poi, ch’han del baggiano,
     Persone tanto nobili, che basse;
     E gli farebbe ancora un Ciarlatano
     Creder insin che un asino volasse:
     Molti ingegni tra gli altri han buona mano
     Nel giocar d’invenzion se bisognasse;
     E con lettere cieche soglion dare
     Lo scacco matto a chi fanno il Compare.

XVI.


Nel tempo che a regnare in Vaticano
     L’Undecimo Innocenzo cominciava,
     Ne’ confini dell’Umbria, e del Toscano
     Un Padre di gran fama predicava;
     Che con licenza del Pastor Sovrano
     Di Missionario il titolo portava;
     E all’abito che avea di Religione
     Pareva proprio un sacco di carbone.

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XVII.


Magro egli era di corpo, e viso asciutto,
     Pallido in volto, e basso di statura,
     Un scheletro, o cadavere distrutto
     Pareva uscito d’una sepoltura;
     Porco non era da cavarne strutto,
     Che a vederlo sembrava all’ossatura,
     E membra sol di pelle ricoperte
     Un gatto che ha mangiato le lucerte.

XVIII.


Si pubblicò che avesse convertito
     Uomini, e Donne d’ogni condizione,
     Ed al retto sentier da lor smarrito
     Gli riducesse dall’ostinazione,
     Che d’ogni vizio in essi inchancherito
     Facesse far palese Confessione,
     E chi della vendetta era tenace
     Col nemico tornasse in santa pace.

XIX.


Donna vendicativa essersi resa
     A questo sì buon Padre alfin placata,
     Mentre egli fè miracolosa impresa
     Sopra di una camicia insanguinata,
     Alla vendetta di mortale offesa
     Del Consorte, da lei già conservata,
     Col far, perchè costei si confondesse,
     Star quel lin nelle fiamme, e non ardesse.

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XX.


Di questa, e d’altre ciarle ed invenzioni
     In quei luoghi vicini trasportate
     S’empivan le botteghe ed i cantoni,
     E i circoli di genti sfaccendate;
     E con le prodigiose operazioni
     Su l’orecchie del volgo seminate
     Volò fama veloce, e senza ostacoli,
     D’un Padre Santo, che facea miracoli.
     

XXI.


Or tal novella, che per quei confini
     Già s’era sparsa come la semenza,
     A certi Cortonosi Cittadini
     Fe’ che nacque nel cuor grand’appetenza
     Della Mission per lor secreti fini
     Speculativi dell’altrui coscienza;
     E scrisser a quel Padre, che in Cortona
     Assai bramata era la sua persona.
     

XXII.


Illustrissimi, e cari miei Signori
     Compiti, e generosi Cavalieri,
     (Rispose il Padre) è ben dover che onori
     Voi altri tanto amici a’ Forestieri:
     Terminati quì dunque i miei sudori
     Quanto prima verrò ben volentieri,
     Se Dio me lo permette, e ’l tempo bello
     A servirvi di coppa, e di coltello.

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XXIII.


Ma sento ormai l’orecchie stuzzicarmi
     Da curiose lingue, e da persone,
     Che già pronte ritrovo a domandarmi
     Chi fosse il Padre, e di qual Religione:
     Prego dunque ciascuno a perdonarmi,
     Se di lui l’Istituto, e Professione
     Non ho detto fin’ora, e palesato,
     Nè pensin già, ch’io me ne sia scordato.
     

XXIV.


Dico dunque ch’egli era un Religioso,
     Uomo da bene, e d’Instituto santo:
     Non già di quei, che con il piè calloso
     Calcano il Mondo, e portan bigio manto;
     E nell’andar con passo strepitoso
     Par che pestin le corna a Radamanto,
     Dando in scarpe di legno al piede il moto
     Ed in piene scodelle han fatto voto.
     

XXV.


Di quelli certamente egli non era,
     Che buona vita fan da Mendicante,
     E son eletti fra cornuta schiera
     Cornette della Chiesa Militante;
     Con lunga barba, e faccia assai severa
     Vanno alle case, e con parole sante
     Barattano per pan, come lor torna,
     Bietole, cavoli, insalata, e corna.

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XXVI.


Ne meno di color, che da Nembrotte,
     Per poter arrivar sino alle Stelle,
     Furo invitati con le pietre cotte
     A fabbricar la Torre di Babelle;
     E si diedero poi la buona notte
     Con varietà di lingue e di favelle:
     Dico di quelli, che in virtù d’Elia
     Si stimano Priori anche al Messia.
     

XXVII.


Nè di color, che d’asinin colore
     Portan la cappa con il becco al petto;
     Nè di quei, che di carne il buon sapore
     Pittagorici nuovi hanno in dispetto;
     Nè di quei, che il silenzio a tutte l’ore
     In selvaggio tugurio han per precetto,
     Col fuggir le grandezze, e pompe vane,
     Stan come gli orsi ad abitar le tane.
     

XXVIII.


Ne men di quei, che su l’Ispane arene
     Trasser da nobil Padre i lor natali,
     Per cui la Santa Chiesa oggi ritiene
     Sommo decoro in faccia a’ suoi rivali;
     Superbi avanzi dell’antica Atene,
     Sacri Dottori, e specchio de’ mortali;
     E per la fedeltà verso il Pastore
     Posson chiamarsi Cani del Signore.

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XXIX.


Non era di que’ dotti Formalisti,
     Che distinguono il grosso dal sottile,
     E per accrescer numero a’ Sofisti
     Alla scuola vicino hanno il fenile,
     Governandosi quivi alcuni tristi,
     Che invidiano la fune al campanile;
     Ma se la sottigliezza non gli guasta
     Gnocchi si fanno poi di buona pasta.
     

XXX.


Nè dirò già, che fosse di quei Frati,
     Che con qualche apparente repugnanza
     Son col nome di Servi disegnati,
     Mentre padroni sono alla sostanza;
     Ne meno di quei capi delicati,
     Che monasticamente in adunanza
     Ritengono col nome, e professione
     Diminutiva la Benedizione.
     

XXXI.


Non già di quei, che portan la gran cappa
     Sterminio della fava cotta asciutta,
     Che dalla carità tuttora strappa
     La caritade istessa; onde ridutta
     La carne anche a mangiar fuor della Frappa
     In casa d’altri; a dirla chiara, e tutta
     Un epilogo son di poco buoni
     Mentre antepongon carne, e buon bocconi.

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XXXII.


Nè di coloro fu, che son Fratelli
     Di quel che fe’ la tara a’ Sacramenti,
     E nella Chiesa poi tanti ribelli
     Fece in virtù di suoi bugiardi accenti;
     Ne men ascritto era costui tra quegli,
     Che dal chieder lontani, ed astinenti
     Son rettorici bravi, e con pazienza
     Aspettano da Dio la provvidenza.
     

XXXIII.


Ma dirò ben, ch’egli era d’una setta,
     Che col Demonio in furberia l’impatta:
     E come appunto intorno al topo affretta
     L’unghie rapaci la golosa gatta:
     Di ricchi infermi intorno al letto aspetta
     L’eredità con pio pretesto estratta;
     E la roba tirando in morte, e in vita
     Del secolo di ferro è calamita.
     

XXXIV.


Il Padre era chiamato il Petraccioli,
     Già fatto alunno d’uomini sì buoni,
     Che in odio hanno le rape, ed i fagioli,
     Ed amano le starne; ed i capponi;
     Fabbricano palazzi, ed alte moli,
     E secondano in lor l’inclinazioni;
     Altri alla Chiesa, altri alle scuole attende,
     Ed altri in piazza i falli altrui riprende.

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XXXV.


Della da loro ambita precedenza
     Una mal concepita pretensione
     Pose nel capo lor gran renitenza
     Di trovarsi col Clero in processione:
     Così schivando entrare in competenza
     Fanno tra loro singolar funzione;
     E per non star soggetti anche a San Pietro
     Stiman lor proprietà l’andar di dietro.
     

XXXVI.


Dotati d’astutissima prudenza
     Il primato pretendon per giustizia,
     Amano le ricchezze, e la potenza,
     E poveri si fanno per malizia,
     Professori d’ogni arte, e d’ogni scienza,
     Sol per aver la Nobiltà propizia;
     La bella gioventù per lor s’impiega
     Dall’Alpha ad imparar sin all’Omega.
     

XXXVII.


In ogni profession sono ben pratici,
     E nelle scuole ancor peripatetici,
     Rettorici, dialettici, e grammatici,
     Astrologi, geometri, e arimmetici,
     Teologi, legisti, e matematici,
     Scrittori in belle lettere, e poetici,
     Dotti sommisti, ed etici, e politici,
     E dell’azioni altrui esperti critici.

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XXXVIII.


Le corti poi dei Grandi, e dei Potenti
     Frequentar molto spesso han per usanza,
     Ove di quelli i più segreti intenti
     Ciascun di loro in penetrar s’avanza;
     Nelle sostanze altrui con modi urgenti
     Fonda il lor desiderio alta speranza;
     Imbrogliata si scorge, e cavillosa
     Fede in costoro, e carità pelosa.
     

XXXIX.


Se un moribondo vanno a confessare
     Gli parlano con simile tenore:
     Fratello, voi dovete già passare,
     Rimettetevi dunque nel Signore;
     Nè vi scordate per Gesù lasciare
     Il Mondo, ed alla Terra di buon cuore;
     Lasciate il corpo, e i membri infraciditi,
     L’anima a Dio, la roba a’ Gesuiti.
     

XL.


Noi siamo padri assai zelanti, e buoni,
     E l’altrui ben ci sta nel cuore impresso,
     Con devoti esercizj, e confessioni
     Cerchiam tirarci tutto il Mondo appresso:
     Nel ritorre all’Inferno gli epuloni
     Usiam ogn’arte; e perchè poi l’ingresso
     Abbian l’anime loro al Ciel condotte,
     Più case abbiamo in povertà ridotte.

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XLI.


Sono in somma costor gente sì lesta,
     Che a se tirano il Mondo a poco a poco;
     Sono ne’ beni altrui una tempesta,
     Entrano com’il vento in ogni loco,
     Dove soffiano lor, poco vi resta,
     Dove giungono fan peggio del foco;
     Da cui già prese nome il Padre loro,
     Premio che a tali statuisce il Foro.

XLII.


Il Nibbio un Pipistrel, conforme ho letto,
     Parendoli un uccel, mangiar volea;
     Ma il pipistrel volgendo l’ali al petto
     Mostrò di topo il muso, e gli dicea:
     Non son uccel; ma poi dal Gatto astretto
     Nascose il muso, e l’ali distendea;
     Onde con accortissimo consiglio
     Liberossi dall’unghie, e dall’artiglio.

XLIII.


Così costor non son Preti, nè Frati,
     E pur son mezzi Frati, e mezzi Preti;
     Il coro non li fa Preti, nè Frati
     Ma per la mensa poi son Frati, e Preti;
     Se si aggravano i Preti, essi son Frati,
     Se va mal per i Frati, essi son Preti;
     E fanno appunto come il Pipistrello,
     Or figura di topo, ed or d’uccello.

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XLIV.


O benedetti Padri Gesuiti
     Che vi venga la rabbia a quanti siete;
     Non già per convertire i Niniviti
     Talora in piazza il Giona far solete,
     Ma sol de’ fatti altrui costumi, e riti,
     Alla pesca nel Mondo oggi attendete;
     Per procacciarvi un dì la Monarchia
     Con la vostra monella Ipocrisia.

XLV.


Ma parmi aver fin quì detto abbastanza
     Già di costor col mio cantar molesto;
     Però prendo licenza per creanza,
     E non tediarvi, or quì le rime arresto;
     E mentre ora vi lascio con speranza
     Di farvi udire un’altra volta il resto,
     La pace sia con voi; e a loro intanto
     Un corno dietro, e fine al primo Canto.