Consiglio politico finora inedito presentato al governo veneto nell'anno 1736/Parte prima
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PARTE PRIMA.
Si mostra, come per mantenersi liberi,
e dominanti, è necessario
crescer di forze.
La Politica è la Regina delle facoltà tutte, perchè niun’altra si aggira per circa un oggetto così nobile, e così grande, com’è il ben pubblico. Tanto è vero, ch’essa è superiore alle altre, quanto che ad essa spetta l’ammettere, e il promover le altre, o il rigettarle, o sbandirle; ma non è già la Politica quello, che volgarmente si pensa, nè consiste già, come taluno fece credere, in saper essere scellerati, quando in utile cio par che torni.
La Politica è Arte, o scienza, che vogliamo dire, di render felice uno Stato; siccome l’Economia fa render felice una Famiglia, e la Morale colui stesso che l’osserva. Così ne insegnarono que’ Saggi, che veramente meritarono tal nome.
Con tutto ciò esaminando bene, trovaremo, che con tal dottrina dissero bensì il vero; ma non dissero, che la metà del vero, perchè effettivamente uffizio, e scopo della Politica egli è, di rendere uno Stato non solo felice, ma forte. Se l’Universo non avesse, che un Popolo, o uno Stato solo, per ben reggerlo, basterebbe cercar di felicitarlo; ma poichè ve n’ha molti, e che l’un desidera di dominare, e di opprimer l’altro, per ben costituire uno Stato, ed anche per farlo felice, necessario è di renderlo sicuro; e non sarà mai sicuro esser forte. E perchè per le mutazioni, e novità, senza le quali col girar de’ Secoli nel Mondo avvengono, potrebbe darsi, che uno Stato reso dalla saggia condotta degli antepassati sicuro e forte, in progresso di tempo per la proporzione cambiata, rispetto agli altri, non potesse più dirsi tale; incombenza di chi regge si è di non aspettare i funesti effetti, cui tal cambiamento produr potrebbe, e di metter ogni studio per aumentare a misura del pericolo la forza.
Per imparare ad aumentar la forza, e a ben conoscere il pericolo, giova sopra tutto lo specchiarsi negli esempj, e l’indagar profondamente, e con sagacità gli avvenimenti passati. Di picciol giovamento è lo studio della Storia, se non ne riportiamo, ch’erudizione; ma di grandissimo, ed incomparabile sarà, se penetrando le cagioni di ciò, che avvenne, e scoprendo le nascoste radici dell’altrui rovina, e del decadimento di potentissimi Governi, documento ne traremo a preservazion nostra, e impareremo a prevenir col rimedio i mali.
Quanto differente fu mai la condizione degli Italiani, finchè l’Universal Repubblica di Roma durò (sia innanzi gl’Imperadori, sia dopo) da quella de’ medesimi, quando caduto l’Impero a terra, soffrirono di straniere genti il Dominio! Prima risplendevano in essi le dignità tutte e Militari, e Civili, e ad essi confluivano le ricchezze, le delizie, gli onori immediatamente; dippoi si trovarono poveri, abietti, oscuri, e desolati. Questo ci dee servire per piantare come prima e fondamental massima nella mente, che tra le cose umane quello che sopra tutto, anzi che unicamente importa, si è di mantenersi liberi, e dominanti.
Tal verità così patente, che inutile parrà a molti, e sovverchio lo spandervi parole; ma non è così, perchè la ricchezza abbaglia gli animi in guisa, che chi ne abbonda è in pericolo di non prendersi gran cura d’altro, e di credere ogni condizione felice, quando da ricchezza sia accompagnata, il che è falsissimo, poichè niente potrebbe mai compensare il rammarico di chi si trova in servitù, avendo idea della libertà. Aggiungasi, che svanirebbe tosto col Dominio la privata ricchezza ancora, perchè secondo i Filosofi le cose non si conservano, se non per quell’istessa virtù che le produsse. Giovi dunque il riandar con la mente talvolta le miserie, che accompagnano chi perde autorità, e comando, per consolidar sempre più il principio primo del non doversi rivolgere ad altro il pensiero che a mantenersi liberi.
Da questa a una seconda verità convien far passaggio, e a considerare come nella situazione presente delle cose d’Italia, e di Europa, per mantenersi è necessario crescer di forze. Tre sono le ragioni che rendono evidente tale necessità.
La prima è l’indebolimento nostro. Non dee dispiacere il sentirci ricordare i mali, quando vien fatto a fine di superarli, e di risanare. Tristamente gli adulatori cuoprono quel che non può essere da medica mano curato, se non si scuopre. Abbiamo perduto Candia, la Morea, e tante Piazze qua e là nel Levante, che lo Stato n’è divenuto assai più ristretto, e da quella parte molto più esposto. Abbiam perduto quella miniera d’oro, che ci rendea potenti sopra ogni altro, cioè il Commercio: primieramente per la general disgrazia dell’Italia, provenuta dall’aver le merci dell’Oriente mutato cammino, e dall’essersi trasportate le fonti della ricchezza del Mediterraneo all’Oceano. In seguito per fatale abbandonamento del Mare, e pel disuso della Navigazione, dal quale n’è avvenuto, che il commercio del Mediterraneo stesso, ch’era, e che dovrebb’essere tutto nostro, vien ora quasi intieramente fatto dagl’Inglesi, Francesi, ed Olandesi. Si è aggiunto da venti o trent’anni in qua l’uso di mandar continuamente e quasi a gara l’incredibile quantità di danaro in Francia, ed in Inghilterra, che vuol dire in paesi, i quali non vogliono con noi commercio, se non per nostra parte passivo, per lo che quel danaro non ritorna mai più. Tanto basta per dare nel giro di 50 anni sbilancio mortale ad uno Stato; tanto basta ancora per far peggiorare ogni giorno, ed anche perder affatto quelle arti, che prima arricchivano Venezia. Anche il commercio colla Germania per l’Adige si trascura, ed ogni giorno scema.
L’impoverimento dell’universale, e la mancanza del danaro nella Nazione dai suddetti motivi prodotta, vien finalmente a ricader nel Principe. Sappiamo però qual sia lo stato del Pubblico Erario, che in altri tempi non vi era forse l’eguale in Europa. Al presente delli cinque milioni di Ducati effettivi ne vanno due per gl’interessi, che annualmente si pagano. Li tre non bastano alle ordinarie spese, talchè anco in tempo di pace in vece di migliorare si peggiora. Che sarà se sopraggiugne una guerra? E tanto più che il mettersi in punto per far la guerra costa a proporzione tre volte più alla Repubblica nostra, che agli altri Principi: l’ultima col Turco ne può far fede.
Niente meno che lo scemamento del danaro deboli ci rende la mancanza de’ soldati. L’avvilimento dell’ozio, e de’ piaceri, e l’impression comune che corre nello Stato: esser pazzia il volersi far ammazzare per altri, ed il menar vita misera e dura, perchè altri domini e goda, fa, che molto difficilmente si trovi, chi voglia arrolarsi. Il solo nome di Dalmazia, e Levante mette spavento. Siamo però costretti nelle occasioni a proccurare truppe straniere; con qual profusion di danaro, con qual tardanza, e difficoltà, quanto difficili, e quanto fredde nel servizio è abbastanza noto.
Ancora più che l’indebolimento nostro ci mette in necessità di proccurar nuove forze il grande accrescimento di potenza dell’altre Corone. L’Europa da 50 anni in qua è in ciò trasformata mirabilmente. Il Re di Francia a tanti doppj ha moltiplicate le sue rendite, che arrivano ora a 200 milioni di Franchi, sono 400 milioni delle nostre lire; e in tempo di guerra con somma facilità le fa montare a 60 milioni di più, come ne’ due passati anni ha fatto; il che viene a produrre la prodigiosą Summa di 26 milioni di Zecchini.
Per dare un saggio di quanto diversa fosse la rendita qualche tempo fa, si può per cagion d’esempio dire, che sotto Enrico IV. la Provincia di Linguadocca contribuiva diecimila Scudi di gratuito dono, il qual dono monta ora a quattro milioni di Franchi per lo meno, e alle volte più. A quel Regno più Provincie con piazze forti, ed importantissime si sono accresciute sotto Luigi XIV., e la Lorena si aggiugne ora, che rende presso a sei milioni, e che somministra gente, e nobiltà per la guerra in abbondanza.
L’Imperatore, che in tempo di Leopoldo padre del regnante non ebbe mai di che pagar le sue poche Truppe, talchè viveano del quartier d’Inverno, ha pagato sinora regolarmente le Armate, che in diverse parti mantiene. La sua entrata si calcola ora a 52 milioni di Fiorini. In quest’ultima si sono fatti grossi debiti; ma con miglior regola degli anteriori, cioè assegnando rendite, che bastino a pagar l’interesse, ed insieme ad estinguere nello spazio di tanti anni anche il Capitale. Questo Monarca non è più ristretto nelle vecchie Provincie, ma possiede di più il Tirolo per l’estinzione della linea degli Arciduchi; tutto il Regno d’Ungheria con gran parte della Servia, della Transilvania, e della Valacchia, e co’ due grandi, e lontanissimi antemurali di Temiswar, e Belgrado; laddove nel 1683 il Turco principiò la guerra con assediar Vienna. È Signore de’ Paesi-Bassi, cioè del Brabante, Fiandra, Namur, e Ducato di Lucemburgo. Nell’Agosto dell’anno corrente 1736 ha domandato ed ottenuto subito quattrocento mila Fiorini di estraordinario dalla Città di Brusseles, il che può servir per saggio di que’ paesi. In Italia il danno della passata guerra gli è stato compensato dalla pace. Ei tiene lo Stato di Milano, il Ducato di Mantova, e quello di Parma, che tutti insieme formano una miniera d’oro, ed è fatto inoltre Sovrano, ed arbitro della Toscana.
Il Duca di Savoja ora Re di Sardegna ha parimenti raddoppiato, perch’è venuto a sedici milioni di lire Piemontesi di rendita, che fanno un milione di Doppie di Spagna, raccolte, e distribuite son somma regola prescritta da Vittorio Amadeo, quasi unico tra Principi d’Europa in non aver fatto mai debiti. Si computa, che altre cento mila doppie daranno ora a quel Principe i nuovi Stați, che in questa Pace acquista.
L’altro Re, che d’improvviso è sorto in Italia, trovò veramente in Napoli la maggior parte delle Pubbliche rendite o alienate, o impegnate; ma con tutto ciò ritrae più di tre milioni di Ducati napolitani, ch’è maggior Summa di quella che i passati Re di Napoli avessero. In Sicilia ricava un milion di Piastre dai tredeci donativi, che formano l’entrata Regia. Vero è, che con essi deve mantenere i Magistrati e gli Ufficj; ma col tempo sarà trovato compenso al tutto, e frattanto di potenza illimitata possiamo considerare un Principe, che ha l’oro della Spagna in suo sussidio.
Poco sarebbe l’aumento di ricchezza nei Re, se non fosse accompagnato dal moderno uso d’impiegarla in Truppe. Che strana mutazione hanno fatta a’ giorni nostri le armate nell’eccesso, a cui sono venute di numero, e apparato? Nel Secolo del 1400, quando l’Italia essendo tutta sotto Principi suoi proprj, si trovava piena di ricchezze e di credito, e florida sopra ogni altro paese negli Studj, e nelle Arti; nuova e misera serie di cose principiò in essa Carlo VIII., il quale chiamato, ed ajutato da Lodovico Sforza passò l’Alpi con esercito. Potente era quel Re molto più de’ suoi Antecessori, per essersi unite sotto di lui le Provincie di Francia che prima eran divise; con tutto ciò non gli fu possibile di muoversi per tal’espedizione, se lo Sforza non gli prestò 200 mile scudi. Ei venne con esercito degno allora di un tanto Re, eppure non oltrepassò il numero di dodici mila Fanti, e 1600 Uomini d’Arme, che venivano a fare quattro mila Cavalli in circa, e 200 Gentiluomini di sua Guardia, come si può vedere nel primo libro del Guicciardini. Non fu però difficile ad alcuni Principi Italiani d’incontrarlo nel suo ritorno da Napoli, e di combatter con lui. Alla battaglia di Giara d’Adda nel 1509 il Re di Francia trasse seco tutto il suo sforzo, per eseguire contro la Repubblica Veneta il concertato nella Lega di Cambrai; con tutto ciò non ebbe più di diciotto mila Fanti, e due mila Lancie sotto l’insegne, onde, non fu difficile a’ Veneziani, che possedevano allora uno Stato anche in Italia molto più ampio, di farsegli incontro con forze non solamente eguali, ma superiori. Nella guerra medesima l’Imperator Massimiliano venne in persona ad assediar Padova con tutta la sua armata, ed unitamente con gli ajuti de’ Collegati; non pertanto furono tutti insieme più di trentadue mila Fanti, e 1700 Uomini d’Arme per l’assedio, e per tener la campagna; perlochè non riuscì impossibile il difendersi in modo, che bastò a farlo ritirare. Nel gran fatto d’armi tra Carlo V. e Francesco I. non furono in armi più di vent’otto mila Uomini in circa da una parte, e numero poco diverso dall’altra. Nel secolo passato famosa impresa fu quella degl’Imperiali, venuti in più corpi in Italia per far l’assedio di Mantova a dispetto de’ Francesi; con tutto ciò il Collalto, che le comandava non contò più di ventidue mila Fanti, e 3500 Cavalli, come abbiamo distintamente dai racconti Storici in lingua latina di Giuseppe Riccio Bresciano. È noto a tutti, quanto picciole armate fossero quelle, che agirono nelle guerre succedute dappoi in Piemonte; e quelle altresì, che poneva insieme la Spagna in que’ tempi, e le altre non che si videro in Germania a tempo dei famosi Generali Montecuccoli, e Turrena. Contro Turchi ancora, che venivano in grandissimo numero, non altro che piccioli eserciti opponevansi in Ungheria! Abbiamo dal Montecuccoli stesso nelle sue Memorie, che l’anno 1663, essendo già in mossa al fine di Aprile il Gran Visir, le Truppe Imperiali consistevano in 6000 Uomini tra infanteria, e cavalleria: numero il quale durante tutte la Campagna in questi termini all’incirca sempre rimase.
Ora quale strano cambiamento è mai a’ giorni nostri avvenuto? Gli apparati di guerra pajon quelli di Dario, e di Serse. Luigi XIV. fu il primo autore di tanta mutazione. Re potente e dispotico crebbe a dismisura i gravami sopra de’ Suddiți, e con la quantità, e prontezza del danaro mise insieme un numero di Truppe non più veduto fra Cristiani da molti Secoli. Non gli fu difficile il continuar sempre su l’istesso piede, perchè da una parte col far fiorire le arti, e le scienze nel suo Regno, attirò il danaro da ogni banda, e dall’altra con le paghe a tanta quantità di Truppe, e con quelle di molti e varj impieghi ed Ufficj, e con quantità di pensioni rendeva ogni anno il danaro a quegli stessi, da’ quali l’esigeva; onde formandosi un circolo, lo Stato rimaneva nell’esser suo. Quel Re arrivò (alcuni anni dopo nelle guerre per la successione di Spagna, e più nell’anteriore, quando armò anche per mare) ad avere 400 mila Uomini a suoi stipendj. L’uso suo mise in necessità l’altre Potenze di fare a proporzione altrettanto. Videsi però in Fiandra per più anni armate di cento, e cento e trenta mille per parte. Nella guerra per la successione di Spagna fino a 142 mila Uomini si sono veduti insieme parimenti nella Fiandra. Quel Principe, il quale confina con noi quasi da ogni parte, e che in altri tempi non poteva tenere 25 mila Uomini, nell’anterior guerra, e dopo la pace ad essa susseguita n’ha tenuto sopra 120 mila, anzi il piede era, ed è di 180 mila.
Rimanendo dunque noi, come siamo, senza cercar qualche mezzo per fortificarsi, non si può egli dire, che il nostro essere dall’arbitrio altrui, e dall’altrui discrezione dipenda? L’anno 1730, quando tutta l’Europa era in pace, quella Corte, perchè sospettò della Spagna, mandò in pochi mesi, e durante l’inverno nell’Italia da’ 70 agli 80 mila Uomini. Quali argini opporre a così forti inondazioni? Aggiungasi l’uso pure a’ nostri tempi introdotto di tener in piedi anche nella pace le stesse armate, che in tempo di guerra. Non si vide da più secoli nelle guerre maggiori la quantità di Truppe, che la Corona di Francia, l’Imperatore, e così altri Principi hanno tenuto in tutto il tempo corso dalla pace del 1714 in qua. L’Olanda, la quale non vuol altro che pace, ha mantenuto da quel tempo, e benchè fuori di ogni sospetto mantiene tuttavia 50 mila Uomini effettivamente esistenti. Nasce da questa nuova usanza, che possono venire le invasioni da un momento all’altro, perchè ora il muover la guerra poco altro costa, che mandar ordine di marciare alle Truppe.
Al numero della gente che le nuove ricchezze delle Corone hanno prodotto, corrisponde la non prima veduta moltiplicazione di Artiglieria, e di quanto ad essa si annette. Altre volte i Veneziani sorpassarono in questo tutte le altre Potenze; ora dopo la gran perdita di cannone fatta a Napoli di Romania, a proporzion delle piazze non ne siamo provveduti abbastanza. All’incontro quali masse ne vediamo negli altri Paesi? S’incominciò sotto Luigi XIV. a mettere negli assedj cento, e cento venti pezzi di cannon grosso in batteria, ed a far piover le bombe con 30, 40, e con 50 mortari. Così fu fatto da lui, quando prese Namur, e così dagli Alleati, quando lo ripresero, e così in più altri assedj in Fiandra, ed altrove. Con tale sforzo di spesa incredibile, e di continuo fuoco, si manderebbe in polvere una Montagna. Chi potrebbe pensarsi qual numero di Artiglierie possedano a cagion d’esempio gli Olandesi? Tutte le loro Città e Fortezze, che risguardano i confini, ne sono provvedute abbondantemente; con tutto ciò in Amsterdam fuori di un bastione si veggono d’intorno intorno smontati, e collocati a venti a venti come in deposito, niente meno di 4600 pezzi, la maggior parte di palla; e tutto questo è niente, perchè chi potrebbe dire qual numero ne sia sopra i loro Vascelli?
E poichè de’ Vascelli è caduta menzione, qual trasformazione non ha fatto da cento anni in qua anche il Mare? Le Navi sono divenute Città e Fortezze mobili. Se ne fabbrica di 100, 100, e 120 cannoni, quali sono il Gran Guglielmo a Porstmouth in Inghilterra; l’Arlem, e l’Amsterdam in Olanda; il Reale Luigi, ed alcun altro in Francia. Le Navi di 30, di 40, e di 50 pezzi si contano ora a migliaja: così possono fare gl’Inglesi, e gli Olandesi. In Olanda presso a 300 sono quelle destinate al Nort per la sola pesca delle Balene; assai più ne ha la Compagnia dell’Indie Orientali, e bene armate. Vi è poi quella delle Occidentali. Vi sono le destinate al Mediterraneo, e vi sono le Navi, o Legni da Guerra della Repubblica. Gl’Inglesi affermano d’averne numero assai maggiore. Il Tamigi d’Inverno ne rimane coperto per alcune miglia; aggiungasi la gran perizia del Mare, per cui non v’è ora Promontorio, o Capo, che non si trapassi; nè banchi, nè secche, o distorti canali, per cui non si transiti. Abbiamo più volte veduto Navigli Inglesi venir nel nostro Porto francamente da sè senza guida, e senza Peota. La Francia che avanti Luigi XIV. non aveva forze Navali, e non conosceva il Mare, per valor di un Ministro in poco tempo si rese forte a segno da tener fronte agli Olandesi, e a qualunque altra Potenza. Al presente il suo ordine di marina merita di essere imitato da qualunque Principe, singolarmente per tenervisi in rolo una quantità grandissima di Marinaj, che in tempo di pace non costano niente al Re, e in occasione di guerra si rendono prontamente al servizio. Ma quello, che più rileva per noi si è, che i Turchi ancora sono fatti terribili in mare. Non ebbero essi per gran tempo, come non l’hanno gli altri Barbari, l’arte di costruire, e di maneggiare Navi grandi all’uso di Europa. Non l’avrebbero neppur ora, se i Francesi, e gl’Inglesi non l’avessero loro insegnata. Vent’anni con somma gloria si contrastò per Candia, e si bilanciò la Veneta con tutta la Potenza Turchesca; ma ciò perchè i Turchi non avevano armata di mare, che potesse competere con la nostra, e non avevan legni, che tenessero fronte a’ nostri. Ora troppo sono cambiate le cose, dopo che si presentano con 60 grandi Sultane armate, e servite quanto qualunque altra Nazione aver possa.
Nell’osservazione, che facciamo della Potenza accresciuta ne’ Principi, molto è da considerare la diversità, che abbiamo al presente in quelli d’Italia. Il Gran Vittorio Amadeo accrebbe i suoi Stati della metà. Lasciamo la Sardegna, che non corrisponde al suo titolo; ma egli acquistò il Monferrato, la Lomellina, e Città, e Piazze di tal considerazione, che gli fecero cambiar figura. Il Figliuolo acquista ora Novarra, Tortona, e le Langhe. Le due Città, quali sono anche Fortezze serviranno dalla parte d’Italia di grande antemurale a suoi Stati, come dalla parte di Francia sopra Susa si è fatta con grandissima spesa la Brunetta, ch'è Fortezza incomparabile. Quel Principe dopo l’anterior guerra ha sempre mantenuti 18 mila Uomini di fiorite Truppe, ed otto mila Cernide reggimentate, e disciplinate con buoni Uffiziali, e con picciola paga; talchè alle occasioni sono Soldati come gli altri, e così sono in Francia, come si è veduto ne’ due anni scorsi, molti essendone stati mandati in Italia. In quest’ultima guerra comprese le suddette Cernide ha mantenuto, e pagato 42 mila Uomini del suo, perchè la promessa pensione di Spagna non fu corrisposta che il primo Mese. Vero è, che in tal tempo godea la metà delle rendite dello Stato di Milano, le quali si dividevano con la Francia. La quantità, l’assortimento della sua Artiglieria non si crederebbe di leggieri. Se l’improvvisa ed impensata pace non avesse cambiate le cose egli restava molto più potente, e ci restava confinante per lungo tratto, giacchè nella Lega con la Francia gli era stipulato, e patuito il Dominio di tutto lo Stato di Milano, con che in una conferenza di poche ore ci era nato in Italia un Re di Lombardia. Con quella parte, che tuttavia ne acquista viene a riuscire non più di 30 miglia lontano dal nostro confine: tanto corre dal Novarese al Cremasco; e ciò che questa volta non è riuscito in tutto, potrebbe riuscirgli un’altra; essendo che il raro valor militare, la finezza della condotta, e la positura delle cose d’Europa possono far credere non lontane nuove occasioni, e non possono far sospettar lentezza nell’abbracciarle. Quella Casa, se mai mancasse la discendenza del Re presente, è chiamata anche alla Monarchia di Spagna dal Testamento di Filippo IV., e le Potenze d’Europa in questi anni prossimi hanno riconosciuto, e confermato con atti pubblici un tale diritto: anche questo merita riflessione. Ragion particolare pretende ancora sopra lo Stato di Milano, perchè Carlo V. ne investì il Figliuolo Filippo II., e successivamente i Primogeniti, chiamando e sostituendo in mancanza di maschi la propria figliuola Caterina, e suoi primogeniti in infinito. L’ultimo discendente di Filippo fu Carlo II. Re di Spagna il quale essendo morto senza maschi, e senza femine, par manifesto che debba succedere la linea Regnante di Savoja, che discende da Caterina figliuola di Carlo V. e moglie di Carlo Emanuele I. sorella del primo investito, e chiamato nell’investitura. L’altro Re, che nuovamente è nato in Italia, non merita punto minor osservazione dalla parte di mare, di quello che il primo dalla parte di terra; e non è da meno temerlo per l’unione con la Spagna, di quello che sia, l’altro per l’unione con la Francia.
Queste considerazioni pur troppo evidenti rendono la necessità di migliorar condizione anche dalla nostra parte, e di crescer di forze per assicurarci; ma ce n’è una terza, che non è punto inferiore, e che non è per certo di minor momento: questa è l’ammirabil facilità, che si è a’ giorni nostri introdotta, d’arbitrare degli altrui Stati, e di far cambiare l’antica condizione a’ Principi.
Lo specioso pretesto dell’equilibrio tra le Case d’Austria, e di Francia cominciò a far credere, che a tal riguardo ogni Legge dovesse cedere, e che da esso nascesse la più forte giurisdizione assoluta sopra la roba altrui. Si principiò nella tenera età di Carlo II. per la sua fragile, e debole costituzione, che lo faceva credere di brevissima durata, a progettare un’arbitraria divisione della sua Monarchia. Il trattato si fece in Parigi tra quel Ministro e le due Potenze marittime; ma fu occultissimo, ed ai pubblicatori degli Atti politici rimase ignoto. Nel 1698 vivo e sano essendo il Re fu pubblicata un’altra reale divisione di tutti i suoi Stati. Seguì appresso il Testamento di Carlo II., e la gran guerra, e lo sconvolgimento d’Europa. In tutte le disposizioni che di là e di qua furon fatte dei gius, e del consenso de’ Paesi, e delle Genti, non si prese mai cura alcuna, nè fu considerato mai, che i popoli non sono armenti, e che la traslazion di Dominio sopra di essi non deve andar del pari con quello delle cose inanimate; anzi che secondo i principj della Giurisprudenza non solo, ma della natura, mancando la schiatta Dominante, il diritto di eleggersi un altro Principe, o di formarsi un altro Governo ricade negli stessi Popoli, o in chi gli rappresenta.
Nella guerra e nella pace, che succedette in Lombardia restò spogliata del suo antico Dominio la Casa Pico, che niuna relazione aveva con la gran lite, che si agitava, ed il cui Principe era allora in età minore e pupillare. Restò spogliata dello Stato di Mantova la Casa Gonzaga; benchè il Duca di Guastalla, cui non fu imputato reato alcuno, ne fosse prossimo ed indubitato Erede. È notabile, che gli Stati d’Italia, che si pretendono Feudi Imperiali, per grandi che siano, non hanno voti in Dieta, nè si vogliono membri dell’Impero, ma puramente Vassalli; di modo che un Principe di Germania, benchè non avesse che quattro Villaggi, è parte di quella Repubblica, ed ha voto; ma il Duca di Milano non già. Vi ha voto il Duca di Savoja, ma perchè la Savoja si considera, come parte dell’antico Regno di Borgogna, e non già d’Italia. Tutto ciò ch’ora è compreso nel Regno Italico, si chiama terren soggiogato, e i suoi Principi si vogliono meramente sudditi. Vittorio Amadeo per esser Principe Italiano non potè mai a nessun patto conseguire l’ultima Arciduchessa in matrimonio al figliuolo, benchè avesse con tanto rischio arrestate le vittorie della Francia, e rimesse le cose dell’Imperatore affatto precipitate in Italia. Per darla a un Tedesco la diedero piuttosto nella Casa di Baviera, che poco innanzi era stata in punto di condur i Francesi a Vienna.
Accostiamoci, ancor più a’ presenti giorni. Nell’anno 1718 si fece in Londra una specie di Congresso, che fu detto Quadruplice Alleanza, perchè vi convenero insieme i Ministri dell’Imperatore, della Francia, dell’Inghilterrà, e dell’Olanda, le quali Potenze si strinsero in lega, determinando le condizioni, con le quali si dovesse dalla Spagna accettar la pace. Vi si decretò, che il Duca di Savoja cedesse all’Imperatore la Sicilia; che l’Imperatore consegnasse al Duca di Savoja la Sardegna ceduta già dalla Spagna; e che il Re Filippo rinunziasse ogni pretensione sopra gli Stati d’Italia, posseduti allora dall’Imperatore; nonostante la qual rinunzia l’Armi Spagnuole hanno assalito il Regno di Napoli, subito che se n’è aperto l’adito; ma quel ch’è più singolare, si ordinò in questo Congresso, che gli Stati del Gran-Duca di Toscana, e del Duca di Parma debbano essere Feudi Imperiali mascolini, e che alla morte de’ loro Principi senza maschi l’Imperatore ne dia l’investitura all’Infante di Spagna primogenito della Farnese: conventum fuit, che quei Stati, habeantur pro indubitatis S. R. Imp. Feudis Masculinis.
Firenze fu già Repubblica indipendente. Decio, e più altri Giureconsulti del Secolo XIV. trattando la questione se un popolo possa far guerra contro l’Imperatore, risposero di sì, se quel Popolo sarà intieramente libero, sicuti, per esempio, sunt Veneti et Florentini. La Casa Medici ne occupò la Signoria. In tempo di essa Carlo V. diede dei Diplomi, ne’ quali par, che si arroghi, o supponga qualche Sovranità sopra Firenze. Anni sono uscì da quella Città un’allegazione in Stampa, nella quale chiaramente mostrano la loro libertà, e indipendenza. Mentre la lite pendeva, eccola ad un tratto, come abbiam detto, nell’estremità dell’Europa decisa, senza udirvi la Parte, e senza pur chiamarla ad intervenire.
Parma è sempre stata Feudo della Chiesa, quando nel Secolo XIV. ne fu occupato il Dominio dalli Scaligeri, e per averne un giusto titolo spedirono ambasciata al Papa, dimandandone l’Investitura. Paolo III. la smembrò dalla Chiesa, e ne investì i Farnesi, al che la Corte Imperiale punto non contraddisse. Hanno continuato sempre i Papi a darne di mano in mano a ciascun Duca l’Investitura non mai contrastata, nè contraddetta da chi che sia. Ora i Ministri Stranieri diffiniscono essere indubitatamente Feudo Imperiale Mascolino senza udire, e senza darne avviso alla Parte. Questa è l’aria, che corre in oggi. Niuna Potenza da noi remota avrà mai difficoltà per promovere alcun suo vantaggio di accordare altrui la roba d’altri. Convenesi nello stesso tempo, che Livorno fosse per sempre Porto-Franco; il che molto giova agl’Inglesi, ed agli Olandesi; anzi poi si è parlato di smembrarlo dallo Stato della Toscana, e di farlo Città libera, affinchè vi concorrano d’ora innanzi gl’Inglesi. Tanto basta, perchè poca cura si prendano del rimanente, e di quello in che non hanno interesse.
Restò ancor stabilito in quel Congresso di metter subito presidio in Livorno, ed altri luoghi di Toscana, e di Parma, e Piacenza, acciocchè venendo il caso della morte de’ Padroni, quei Paesi si consegnassero, a chi si era deliberato di darli. Ecco occupata l’eredità prima della morte del Possessore. Ecco que’ Principi fatti in certo modo prigioni. Ecco le Fortezze da lor fabbricate, e le loro Artiglierie fatte istromento della loro servitù.
Altra pace fu stipulata in Vienna nel 1725; base della quale fu il Trattato di Londra. Altri Atti furono fatti posteriormente, ne’ quali le suddette Potenze si obbligarono di serio manutenere et Feudum Cæsari et Imperio supre præfatos Ducatus constitutum, et illi totum conservare. Non essendosi poi eseguito il progetto di por presidio nelle Piazze, l’anno 1728, fu spedito da Vienna al Co: Carlo Borromeo Diploma di Plenipotenza con ordine, che qualora venisse agli estremi di sua vita il Gran-Duca, debba subito andare con Truppe ad impossessarsi del suo Stato; e perchè il Gran-Duca Cosimo, Padre del Regnante, avea col consenso del Senato Fiorentino sostituita solennemente la figliuola Vedova dell’Elettor Palatino, onde fu dato a Firenze in conformità di ciò il giuramento: Stà nella suddetta Plenipotenza l’autorità di dichiarar nulla tal disposizione, ed assolver tutti dal giuramento dato: ab omni juramento; et obligationis vinculis absolvere. L’Atto è stampato nel Corpo Diplomatico.
In quest’ultima non ancor pubblicata pace, o inviluppo che sia, si è arbitrato di tutto da due Potenze sole. Si è convenuto di dare alla Francia la Lorena, nella quale non vi ha immaginabil ragione, e perchè con ciò la Casa di Lorena resta priva del suo antico Stato, si è pensato di non dar più la Toscana all’Infante discendente per la Farnese da una Medici, ma di darla al Fratello del Duca di Lorena, che tanta relazione vi ha come il Re del Congo. Quando si divulgò in Parigi l’avviso di questa nuova disposizione, parlandosi di ciò una sera nella visita d’un Personaggio, il Marchese di Torcy; ch’è uno de’ più Saggi, e degni Soggetti di quel Paese, e che fu Ministro di Stato in tempo di Luigi XIV., non potè contenersi di non esclamare: oh questo veramente non si era veduto mai più. Nulla rileva, che sia vivo, e sano il Gran-Duca, il quale quando volesse non può disporre del suo, e col suo Consiglio, e col consenso de’ suoi Popoli determinar del suo Successore, adottando per cagion d’esempio il Principe d’Attajano, ch’è della stessa Casa Medici, ovvero rimettendo Firenze nella sua libertà; e nello Stato in cui Cosimo, e Lorenzo la ritrovarono: tutte le Leggi Umane e Divine stanno per lui. In questa pace colla Francia si danno al Re di Sardegna alcune grosse Terre nelle Langhe, che sono Beni Patrimoniali della Repubblica di Genova, e ne’ quali non ha mai preteso ragione alcuna l’Impero.
Tutte queste cose non è stato inutile di andar rappresentando, perchè si conosca bene qual modo di procedere si sia preso in oggi nelle materie politiche; e con quanta facilità si cambii ora il destino de’ Principi Italiani, e delle Provincie. Ove dell’Italia si tratti, vien deliberato de’ suoi Popoli, come si farebbe di branchi di pecore, o di altri vili animali. Ne’ generali Congressi di pace o non si ammettono più Ambasciatori Italiani, o si fanno fare trista, e miserabil figura. Se per questa pace si fosse tenuto Congresso, era già fermato di non ammettere i Ministri di Venezia, nè del Papa, nè di Toscana, col pretesto di non ammettervi se non quelli dei Principi guerreggianti. A questo segno siamo giunti, quando in altri tempi il Senato Veneto si prendeva per arbitro delle differenze tra Principi, e quando fin nelle Paci del prossimo passato Secolo gli Ambasciatori di Venezia vi tennero così onorevole luogo, e furono più di una volta tra le maggiori Potenze li Mediatori.
Noi abbiamo veduto poco fa, anzi veggiamo tuttavia, come sia trattato il Papa, e i suoi Stati dai Tedeschi, e dai Spagnuoli, perchè non vi sono Truppe a difesa. Accade, a chi viaggia di là da’ Monti, di udir spesso amene disposizioni e gioconde idee. Si sentono persone anche attualmente in pubblico impiego ragionare della disposizione, e della ripartizione, che per ben dell’Europa a prima occasione degli Stati della Chiesa, e della Repubblica di Venezia in Italia si faranno. Trovano di ciò ragioni, convenienze, titoli, e fondamenti mirabili. Lo Stato Veneto, se ne stiamo a loro, appartiene chiaramente ed indubitatamente all’Impero, che chiamano Romano Germanico. Cotali sentimenti fanno intendere a buona volontà, e l’amorevole disposizione, che regna negli Oltramontani verso l’Italia, e verso questa Repubblica. Non si sarebbe forse senza pericoli, e senz’affanni, se in qualche rivoluzione dell’Europa, ed in pericolosi, e difficili contrasti qualche moderno Politico intavolasse d’accomodar tutto, coll’usurpare, e dividere le Città Venete della Terra-Ferma.
Nella presente positura delle cose molto è da ponderare ancora l’imminente estinzione della Casa d’Austria. Due gran considerazioni cadono su questo caso. L’una che pare poter difficilmente la prudenza umana stabilir le cose in guisa, che aspre guerre non siano per seguirne, e sconvolgimento forse non dissimile da quel che nacque per l’estinzione della linea di Spagna; molte essendo le pretese di varj Principi, e più disegni covando in alcune Corti riserbati a quella congiuntura; ed essendo la Francia per prendere allora quel partito, che il suo interesse le suggerirà. L’altra riflessione ancor più grave si è, che non sappiamo, se il nuovo Sangue, che succederà sia per avere la stessa moderazione, e lo stesso spirito di Giustizia e di quiete, che la Casa d’Austria ha sempre dimostrato, spezialmente con la Repubblica. Rara cosa è il veder tanto spirito di Religione, e tanto complesso di virtù, come in quell’Augusta Famiglia. Se dobbiamo fare pronostico dall’uso della maggior parte de’ Principi, e coll’osservazione de’ presenti costumi, saremo assai più proclivi al timore, che alla speranza. Attorniati come siamo dagli Stati Imperiali, senza Fortezze, e se alcuna ci è, v’ha fuori di luogo, quando spirito di conquista si risvegliasse, rimanendo noi come siamo, in qual modo far fronte? Quali amicizie ci difenderanno? La Francia, che sola giovar ci potrebbe, è lontana; e quanto fondamento nella sua Alleanza fare si possa, quest’ultima guerra ce lo insegna. In somma egli è pur troppo chiaro e manifesto, che le novità a’ nostri giorni avvenute, e l’esuberanza, a cui è giunta la potenza delle altre Corone, congiunta con l’aria dispotica sopra i Principi più deboli, e con la facilità (ove si tratti dell’Italia) di occupare, e di trasferire in un momento i Dominj e gli Stati, mette la Repubblica nostra in necessità indispensabile di fortificarsi in qualche modo, e di crescere di forze, per non rimanere a discrezione altrui.
Fine della Prima Parte.