Come l'onda/XI
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L’OSTACOLO.
XI.
Si era ridotto ad abitare, come un eremita, in cima a quella collina, e da mesi non vedeva nessuno all’infuori del vecchio contadino che gli aveva ceduto la sua casetta terrena di due stanze, col tetto a travi e incannicciata, e le imposte delle finestre con due soli vetri.
Un tavolino, una grossa valigia, un mucchio di libri addossati al muro, tre seggiole impagliate, formavano l’arredamento della seconda stanza destinata a studio e a scrittoio.
S’indovinava dalle molte carte confusamente ammonticchiate in un lato del tavolino e dal calamaio di cristallo, da tre portapenne e dal tagliacarte giapponese che occupavano l’altro lato, con la pipa di terracotta e una borsetta di cuoio pel tabacco.
Nella prima stanza, dietro una tenda formata con un vecchio tappeto teso su una cordicella, era il lettino con alto pagliericcio e coperta di lana a colori vivaci. Di faccia, un treppiedi di ferro per la catinella, e, accanto, su breve tavola fissata al muro come mensola, una spazzola, due pettini, un paio di forbicine, un nettaunghie e una spugna. Il vecchio contadino, antico fittaiolo della famiglia Cellini, lo aveva conosciuto ragazzetto, quando i Cellini erano in auge; e ne ricordava sempre con vivo piacere le visite allorchè, nel maggio e nel settembre, la famiglia dei suoi padroni veniva a villeggiare nella bella proprietà di Ripasseti, in mezzo alla pianura, laggiù, e il signorino si arrampicava quasi tutti i giorni proprio in cima alla collina, vi rimaneva fino a tardi, e spesso toccava al vecchio di accompagnarlo, perchè il buio della sera metteva paura al ragazzo.
Poi, per parecchi anni, non ne aveva saputo più niente. Ripasseti, con la villa, col vigneto, con i campi di seminati era stato spartito tra i creditori del signor Cellini, e lui fittaiolo, coi suoi risparmi, aveva acquistato la collina dov’era cresciuto e vissuto, e che, dopo tanti anni di fitto, gli pareva quasi casa sua.
Era rimasto solo. Sua moglie morta da un pezzo; il figlio, tentando di far fortuna in Germania, era perito in un disastro ferroviario; la figlia aveva preso marito ma abitava lontana con la famiglia di lui, e gli avea mandato un ragazzino di dieci anni, forse per fargli prendere anticipatamente possesso dell’eredità e fargli apprendere ad amare quei luoghi, che poi avrebbe dovuto coltivare.
E perciò, una mattina, il vecchio contadino parve uscito fuori di sè dalla gioia quando vide arrivare lassù quel giovane alto, magro, barbuto, e sentì dirgli:
— Non mi riconoscete? Sono Renzo Cellini.
Aveva esitato un istante, poi gli era saltato al collo abbracciandolo e baciandolo intanto che gli ripeteva:
— Scusi.... mi perdoni, padroncino mio! — come se Renzo Cellini fosse rimasto per lui il signorino di una volta.
Non osava di domandargli perchè mai fosse andato a trovarlo. Credeva che non avesse dovuto bastargli l’animo di affacciarsi da quelle parti dopo il disastro della sua famiglia, e temeva che ogni parola potesse aggiungere strazio allo strazio che il signorino doveva sentire alla vista di quei cari luoghi della sua fanciullezza, resi quasi irriconoscibili dai nuovi possessori.
— Son venuto a chiedervi ospitalità per qualche tempo — disse Cellini. — Ho bisogno di raccoglimento, di solitudine. Mi si son ridestate nel cuore le dolci sensazioni di una volta, quando venivo quassù a inebriarmi di aria, di luce, di colori, e stavo ore e ore immobile, sdraiato su l’erba, come un animalino, davanti allo spettacolo della pianura sottostante, dei monti lontani e di quella striscia di mare che brulica là, in fondo, e sembra una cintura di oro vivo nelle ore del tramonto....
— Si figuri! Si figuri! Tutto quel che comanda! — rispondeva il vecchio. — Ora sono solo: ho un nipotino con me; lo metterò al suo servizio. Dovrà però adattarsi. Posso lasciarle libera la casetta, così com’è.
— Farò i patti io.
— Ma che patti!... Per me.... è ancora il padrone!
Così, due giorni dopo, Renzo Cellini si trovava istallato lassù, tra cielo e terra, diceva esagerando un po’ da quel gran fantasticatore, da quell’impenitente idealista quale la sua indole e gli avvenimenti della sua vita lo avevano ridotto.
Era entrato da poco nei sedici anni, quando una mattina suo padre, pallidissimo, visibilmente agitato, gli aveva detto: — Ti ho fatto chiamare per comunicarti io stesso la nostra irrimediabile rovina, per farti coraggio ad affrontare con animo sereno l’avvenire. Dovremo, da domani in poi, lavorare per vivere. Io solo, non credo di poter bastare.
— Non so far niente — rispose il giovinetto, sbalordito.
— Hai studiato, hai molto ingegno; troveremo una via. Sii forte.
— Sarò forte; vedrai, babbo!
— Ricordati, in ogni circostanza, queste mie parole: Sii forte.
Renzo capì il vero significato di quel: Ricordati! dopo ch’egli vide il cadavere di suo padre, con la tempia forata da una palla e una gota solcata da un rivoletto di sangue.
Il signor Cellini non avea saputo adattarsi alla forzata rinunzia dell’agiatezza, di tante piccole sodisfazioni della vita, che gli erano divenute indispensabili; non aveva saputo resistere al triste spettacolo di veder soffrire le due persone più care al suo cuore, la moglie e il figliuolo, e con facilmente esplicabile contradizione, pur ripetendo in una breve lettera al figlio: Sii forte! gli aveva dato l’esempio di una gran debolezza.
⁂
Il giovanetto, però, crescendo era stato forte davvero.
E quella prima serata lassù, dove gli pareva di aver ritrovato intatte le serene sensazioni della sua fanciullezza, egli vedeva ripassarsi confusamente quasi davanti agli occhi tutti gli avvenimenti dei suoi ultimi dieci anni, durante i quali gli si era irresistibilmente sviluppata la passione della poesia non tanto come arte della parola, quanto come nobilissimo elemento della vita reale.
La serata era calma. Salivano da ogni parte lievi continui rumori simili al lento respiro di persona addormentata. Al fioco lume della luna nuova, la pianura, i monti lontani apparivano velati da una luce grigia, che ne attenuava le linee, i contorni; certe ondulazioni di terreni, invece, si accentuavano, le macchie estese degli alberi annerivano indistinte qua e là, e il biancore delle casette rustiche, il cinereo serpeggiare delle strade rurali segnavano punti quasi luminosi, strane linee appena tracciate, che qualche mano capricciosa forse avrebbe da un momento all’altro scancellati.
Di tratto in tratto, arrivavano gli stridori dei carri, che attraversavano lo stradale più vicino; arrivava acutissimo il fischio di un treno, che stava per sparire dentro la gola di un traforo; e poi, di nuovo, quel silenzio formato da mille piccoli rumori, che l’orecchio percepiva confusamente e che sembravano di essere tutt’una cosa con la tinta quasi uniforme del paesaggio.
Renzo Cellini si era abbandonato a quella ch’egli soleva chiamare la voluttà del silenzio; che gli sarebbe parsa, pensava, anche più dolce nello sfolgorare della luce del giorno, tra la maravigliosa varietà dei colori della campagna e l’azzurro del cielo.
Quell’anno, dopo la morte della madre, realizzata la piccola rendita di un censo dotale, unica cosa sfuggita, non si sapeva come, al gran disastro della famiglia, egli si era proposto di non disperdere, in fuggevoli saggi, la matura attività della sua immaginazione. Da qualche tempo in qua mulinava un lavoro serio, elevato, al quale avrebbe desiderato di consacrare tutta la sua forza creativa. Non avrebbe voluto, però, distrazioni di sorta alcuna; e, fino allora, dalle urgenze della vita, poche, sì, ma imperiose, non gli era stato consentito neppure qualche settimana d’isolamento.
Aveva bisogno di vivere interiormente, immerso nella più riposta intimità del suo spirito, quella creazione che doveva poi prendere l’alata forma del verso, non libero, come altri l’intendevano, ma liberato da ogni impaccio di pedantesca tradizione. Ne aveva una intuizione poco chiara, non dubitava, però, che nel punto dell’attuazione non avrebbe incontrato gravi difficoltà, e che certamente le avrebbe, senza molto stento, superate.
Un poema lirico? Una serie connessa di liriche? Non avrebbe saputo spiegarlo neppur lui. Tutto quel che aveva tentato finora e che aveva avuto l’orgoglio di lasciare inedito perchè non sodisfaceva pienamente la sua coscienza di artista, doveva fondersi, sparire, divenire il germe del definitivo lavoro; assumere una caratteristica personale e nello stesso tempo essere una rivelazione così intimamente umana da trovar un’eco in tutti i cuori, da sodisfare la gran sete d’ideale che affaticava la maggioranza degli spiriti viventi del suo tempo.
Egli soleva dire: — Vi sono spiriti dormenti, quasi morti, che niente riesce a scuotere, e che passano senza accorgersene da quella morte apparente alla morte definitiva; spiriti così immersi nella materia che sono peggiori dei dormenti, e non sapranno mai uscire dalla sfera animale; e spiriti viventi pei quali la realtà è semplicemente un’occasione, un pretesto ad elaborare l’ideale, cioè la realtà vera, in continuo movimento di creazione. Quando egli, nell’intimità di una conversazione, manifestava queste sue idee, i pochi giovani amici che discutevano d’arte con lui gli rispondevano che con tali fantasticaggini non si rinnova la società.
— Il mondo — gli diceva Rubini — non sarà mai interamente popolato da quelli che tu chiami spiriti viventi. Di essi ce n’è appena uno tra dieci milioni di spiriti ordinari, e mi paiono anche troppi. E tu vorresti ficcare l’Ideale fin nell’Architettura!
— Da per tutto. L’Umanità deve arrivare a questo: di non vedere quel che è, e di vedere unicamente quel che apparentemente non è, cioè la sua creazione, il suo Ideale!
— Belle frasi, che si possono barattare, a quattr’occhi, tra amici intimi, i quali sanno qual valore attribuire ad esse e riderne anche, senza nessuna malignità. Ma parlarne seriamente....
— Io ne parlo seriamente.
Capiva di esagerare un po’, ma era convinto che soltanto esagerando si poteva arrivare ad ottenere di raggiungere qualcosa.
Capiva per ciò che quella sua segregazione, quel gran bisogno di silenzio erano un po’ eccessivi per intraprendere e compire il lavoro divenuto, specialmente da due anni, la sua Chimera. Come c’erano stati però grandi poeti che avevano chiesto al vino, all’alcool, all’oppio, alla morfina, l’eccitamento per l’ispirazione, lui, più modesto, meno esigente, aveva bisogno dell’isolamento completo e del gran silenzio per interrogare la sua immaginazione e il suo cuore, per ricercare e ritrovare, come si esprimeva, se stesso.⁂
E si maravigliava che nei primi giorni, nelle prime sere, nelle prime notti, invece di provare quella specie di ebbrezza, di esaltazione venuta a cercare su la collina a lui cara sin dall’infanzia, si sentiva invadere da un senso di sgomento, quasi di smarrimento, e nessuna voce gli saliva dall’anima, per avvertirlo almeno che il gran fenomeno dell’ispirazione era vicino ad avverarsi.
Pensava:
— La Natura s’impone a noi violentemente. Ci si rivela di minuto in minuto sempre più varia, sempre più nuova; di giorno con lo sfolgorio della luce e dei colori, poi con la calma penombra della sera; poi con la grandiosa oscurità notturna vegliata da milioni di stelle; e noi dobbiamo fare uno sforzo per non lasciarci sopraffare, per opporre alle sensazioni le virtù della nostra intelligenza.
Infatti, quel lavoro che avrebbe dovuto venir fuori come un limpido zampillo, gli si agitava nella mente confuso, indistinto, e non riusciva a prender forma chiara, precisa neppure nelle sue linee principali.
— Ah! — esclamava. — C’è ancora troppo rumore dentro di me, troppo miserabile rumore della mia agitata esistenza di questi ultimi anni! Bisogna attendere; bisogna che il mio sangue, i miei nervi esauriscano quel che è stato trasfuso in essi da tante circostanze quasi brutali, delle quali, forse, non so rendermi piena ragione..... Bisogna attendere!
Aveva incaricato il suo amico Rubini di affacciarsi alla posta per lui.
— Non ho segreti da nascondere. Riceverò poche lettere; àprile, e se ce n’è qualcuna importante, urgente, fammi il piacere di mandarmela a questo indirizzo.
Il meno però che si attendeva era una lettera urgente. Non aveva lasciato un’amante, nè strozzini creditori. Ai pochi amici si era raccomandato: «Dispensatevi, vi prego, di scrivermi. Non voglio farmi vivo con nessuno finchè starò lassù».
— Ti annoierai, presto. Che vai a fare in quella specie di deserto?
— Voglio diventare.... un vegetale.
— Un vegetariano, vuoi dire.
— No, un vegetale; è qualcosa di meglio.
Ed era stata l’ultima parola di scherzo che gli era uscita di bocca.
Bisogna attendere! E aveva atteso, con fede, per parecchie settimane.
L’unico suo svago era d’intrattenersi qualche ora della sera col vecchio fittaiolo e col suo nipotino, seduto davanti a la porta insieme con essi, mentre arrivavano lassù gli ultimi suoni, gli ultimi rumori delle cose e degli esseri, uomini e animali, che si preparavano al riposo.
Una sera il vecchio gli disse:
— Sa, signorino? Il ragazzo mi ha domandato se lei ha, per caso, qualche bella fiaba da raccontargli.
— Certamente — rispose Renzo.
Quasi avesse ricevuto un colpo di sprone!
In quel momento però non ne ricordava nessuna di quelle udite e lette. Ma sentì venirsi su la punta della lingua il sacramentale «C’era una volta» ed ebbe un brivido udendolo pronunziare dalla sua voce come se venisse da un altro.
— C’era una volta..... Già c’era un Re, c’era una Reginetta cieca e muta.....
Chi gliela narrava dentro, senza ch’egli facesse nessuno sforzo, quella strana avventura, che per poco non sembrava maravigliosa realtà anche a lui stesso? Provava di mano in mano un’eccitazione, un entusiasmo nel vagare per quel mondo fantastico, dove le leggi della vita ordinaria erano abolite o invertite; dove si amava, si godeva, si soffriva con rigida fatalità, e dove gli sembrava che tutto si andasse formando e acquistasse vigore, consistenza nello stesso momento in cui gli fluiva dalle labbra, con sgorgo soavissimo, e che il vecchio beveva, a bocca aperta, sorridente, forse perchè si sentiva ridiventato fanciullo. Ma il ragazzo e il vecchio non compresero perchè Renzo, all’ultimo, terminata la fiaba, si era rizzato da sedere, pronunziando vivamente:
— Grazie! Grazie!
Oh! Quasi avesse ricevuto un colpo di sprone.
Quella notte non andò a letto. L’alba lo trovò che ancora scriveva scriveva. Era stupito che il verso investisse il sentimento lirico e lo rivelasse, ora con alata forza, ora con armoniosa semplicità, ora con tale onda di originale dolcezza, quale egli non aveva mai sospettato si potesse raggiungere coi ritmi usuali.
Così per parecchi giorni, ristorandosi un po’ dopo un frugalissimo pasto, nelle ore pomeridiane, con breve sonno; felice di non aver dubitato di sè, orgoglioso che la sua Chimera finalmente si fosse lasciata raggiungere e si concedesse come un’amante, che volesse compensare con la pienezza del passionale abbandono il troppo crudele capriccio del ritardo.
Lavorava febbrilmente da dieci giorni, senza rileggere nessuno dei lunghi fogli coperti della grossa scrittura, che pareva un po’ deformata dal frettoloso movimento della mano, quando una mattina, mentre fumava seduto su un masso proprio in cima alla collina, vide montare per la viottola serpeggiante sui fianchi di essa, una persona a cavallo a un mulo, dietro cui camminava un contadino, che lo stimolava con una verga nella ripida salita.
— Rubini! — egli esclamò, riconoscendolo.
— Che mai è accaduto?
E gli mosse incontro.
— Ah, caro mio! — disse Rubini, saltando giù da cavallo — certe notizie non si affidano alla glaciale indifferenza di un foglietto da lettera. Bisogna saper comunicarle con riguardose cautele; la gioia uccide più facilmente del dolore.
Renzo lo guardava, incerto se Rubini scherzasse o parlasse seriamente.
— Qui è delizioso! — riprese Rubini. E son contento di poter annunziarti davanti a tanta magnificenza di luce e di colori, davanti a quest’immenso spettacolo di campi, di monti e un po’ anche di mare; me ne accorgo in questo punto.....
— Senti — lo interruppe Cellini; — se tu credi di eccitare così la mia curiosità, t’inganni!
— Come sono ingrati gli uomini! — fece Rubini. — Ebbene; allora ti dirò a bruciapelo: sei diventato ricco, ricco di quasi mezzo milione! Ecco qui....
E gli porse una lettera, tirandola fuori dalla busta aperta.
Rubini era andato via maravigliato della fredda accoglienza del suo amico a quella inattesa notizia. Se non fosse stato convinto della sincerità di Renzo, avrebbe immaginato un gesto di posa per darsi l’aria di uomo superiore alle circostanze della fortuna.
Non poteva affatto supporre l’incredibile turbamento da cui Renzo Cellini si era sentito sconvolgere all’idea di poter essere costretto ad interrompere quel lavoro che gli vibrava dentro, ed era quasi il ritmo di una nuova sua giovinezza.
E per due giorni parve di scordare il profondo cambiamento che apportava nella sua vita quell’eredità di quasi mezzo milione lasciatagli da un ignorato parente materno, ch’egli non conosceva, vissuto sempre in un paesetto dell’Abruzzo, sperduto tra i monti e tra i boschi.
Aveva ripreso sùbito a lavorare, con nuova lena, con ansia, continuando a riempire fogli dietro fogli, senza mai rileggere, dopo un’interruzione, quel che aveva scritto; perchè anche durante il breve sonno e i brevissimi riposi, non cessava nel suo cervello il fecondo lavorio dell’immaginazione, con un lieve stato di quasi inconsapevolezza, che era, invece, latente operosità, la quale poi si trasformava in una specie di improvvisazione.
Dopo due giorni però.... come se qualcuno, di tratto in tratto gli arrestasse la mano; come se la Chimera, che prima gli volitava attorno, si dileguasse improvvisamente, inaridì quella ricchezza di sentimento, quegli splendori di immaginazione che formavano, da settimane, la intensa gioia di lui!
⁂
L’eredità! L’eredità!
Non avrebbe voluto occuparsene prima che non avesse scritto l’ultimo verso, l’ultima parola di quel poema lirico appena arrivato a metà; ed ecco che il pensiero di essa veniva a distrarlo, a insinuargli preoccupazioni delle quali non si era mai creduto capace. La lettera del notaio non specificava niente. Si trattava di contante, di rendita dello Stato, di crediti, di terreni? Faceva male a non informarsene. Forse era necessario, era urgente andare a sbrigar tutto di persona in pochi giorni, e tornarsene poi tranquillamente lassù a rivivere con la sua bella Chimera.
E, non sentendosi disposto a continuare, prese in mano le ultime cartelle e lesse, dapprima scorrendole con gli occhi, poi pronunziando sottovoce, poi declamando a voce spiegata. Gli parve che qualche maligno genio gliene alterasse la forma, il significato; e riprese a rileggere quello che era il decimo canto, la decima lirica, dove il concetto del lavoro cominciava a spiegarsi, ad elevarsi, ad assumere un’intonazione profetica.... Non ne fu pienamente sodisfatto.
Lavorò, a sbalzi, un’altra nottata perchè il silenzio di quelle ore gli sembrava più propizio all’ispirazione; ma quando l’aurora inondò lo studio con la sua rosea luce, lo trovò occupato a raccogliere, a sistemare le molte pagine ammucchiate su una seggiola e sul tavolino, a piegarle e ad avvolgerle accuratamente con l’evidente intenzione di non dover riprenderle presto.
Pure, attese un altro giorno. Forse si era lasciato illudere da una spiegabilissima stanchezza fisica; forse non aveva ben calcolate le forze della sua resistenza intellettuale.... No! No!.... Probabilmente era destino che la sua vita prendesse un nuovo indirizzo, suo malgrado. Poteva anche darsi ch’egli dovesse attuare l’Ideale, da lui tanto fantasticato, non nell’Arte, nella Poesia, ma in quella realtà tanto sdegnata e disprezzata quando egli era quasi povero, e doveva chiedere al lavoro giornaliero, nei quotidiani e nelle riviste, il meschino mantenimento per la sua santa Mamma e per sè. Non sapeva rassegnarsi. E nel prendere commiato dal vecchio fittaiolo, che aveva le lacrime agli occhi e ripeteva: — Non lo rivedrò più! Non lo rivedrò più! — per rassicurarlo, egli osò di fissare a un mese, a un mese e mezzo, al più tardi, il suo ritorno colà.
⁂
Immerso negli affari, costretto a frequenti viaggi, dopo due anni era ancora ossessionato, quantunque diversamente, dalla sua giovanile Chimera di sovrapporre l’Ideale alla Realtà; ma non trovava modo di attuare neppur dalla lontana quel vaporoso sogno che gli sembrava, forse, eccelsa cosa appunto perchè vaporoso.
Poi finì col cedere, con assaporare i frutti della ricchezza allo stesso modo di tanti altri, che non avevano mai chimerizzato come lui.
Talvolta, in certi momenti di nauseante sazietà, pensava, quasi come ad avvenimento fantastico, a quei giorni trascorsi su la collina di Ripasseti, nella casa terrena del vecchio fittaiolo, e a quel rotolo di manoscritto che, da allora in poi, non aveva più ripreso in mano e quasi non gli pareva più cosa sua.
Ma un giorno che aveva dovuto rimanere in casa per una lieve indisposizione, si ricordò di esso, lo ricercò, lo svolse e cominciò a leggere.
Gli sembrava di sentire una voce d’oltretomba!
Tutto quell’impeto lirico gli arrivava al cuore come un’amara irrisione. Ed era stato gran parte dell’Anima sua e del suo Spirito!
Un’idea gli attraversò il cervello. Si fermò a riflettere e si decise. Gli parve l’ultimo commosso omaggio alla parte più buona di sè stesso.
Chi lo avesse visto, quella notte di aprile, scendere cautamente nel giardino dietro la sua palazzina, con qualcosa sottobraccio; chi avesse assistito al suo lavoro di escavazione del terreno, a piè d’un grand’albero di arancio, non avrebbe mai immaginato che la urnetta di bronzo, deposta nella piccola fossa profondamente scavata, contenesse il manoscritto della sua Chimera, come aveva voluto intitolarlo prima di farvelo saldare dentro col malinconico motto:
Vivit sub pectore vulnus!