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Chi lo avesse visto, quella notte di aprile, scendere cautamente nel giardino dietro la sua palazzina, con qualcosa sottobraccio; chi avesse assistito al suo lavoro di escavazione del terreno, a piè d’un grand’albero di arancio, non avrebbe mai immaginato che la urnetta di bronzo, deposta nella piccola fossa profondamente scavata, contenesse il manoscritto della sua Chimera, come aveva voluto intitolarlo prima di farvelo saldare dentro col malinconico motto:
Vivit sub pectore vulnus!