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se Renzo Cellini fosse rimasto per lui il signorino di una volta.

Non osava di domandargli perchè mai fosse andato a trovarlo. Credeva che non avesse dovuto bastargli l’animo di affacciarsi da quelle parti dopo il disastro della sua famiglia, e temeva che ogni parola potesse aggiungere strazio allo strazio che il signorino doveva sentire alla vista di quei cari luoghi della sua fanciullezza, resi quasi irriconoscibili dai nuovi possessori.

— Son venuto a chiedervi ospitalità per qualche tempo — disse Cellini. — Ho bisogno di raccoglimento, di solitudine. Mi si son ridestate nel cuore le dolci sensazioni di una volta, quando venivo quassù a inebriarmi di aria, di luce, di colori, e stavo ore e ore immobile, sdraiato su l’erba, come un animalino, davanti allo spettacolo della pianura sottostante, dei monti lontani e di quella striscia di mare che brulica là, in fondo, e sembra una cintura di oro vivo nelle ore del tramonto....

— Si figuri! Si figuri! Tutto quel che comanda! — rispondeva il vecchio. — Ora sono solo: ho un nipotino con me; lo metterò al suo servizio. Dovrà però adattarsi. Posso lasciarle libera la casetta, così com’è.

— Farò i patti io.

— Ma che patti!... Per me.... è ancora il padrone!

Così, due giorni dopo, Renzo Cellini si trovava istallato lassù, tra cielo e terra, diceva esagerando un po’ da quel gran fantasticatore, da quell’impenitente idealista quale la sua indole e gli avvenimenti della sua vita lo avevano ridotto.

Era entrato da poco nei sedici anni, quando una mattina suo padre, pallidissimo, visibilmente agitato, gli aveva detto: