Chi l'ha detto?/Parte prima/8
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§ 8.
Bellezza e bruttezza. Doti del corpo
Che cos’è la bellezza?
141. Il bello è lo splendore del vero.
secondo la celebre definizione attribuita volgarmente a Platone, ma che certamente non è di lui e forse neppure di nessun platonico, poichè non solo non si appoggia a nessun testo, ma non è nemmeno l’espressione esatta della dottrina platonica. Infatti Platone, benchè accoppiasse il vero col bello come due idee assolutamente inseparabili, pure non considerava il vero come la bellezza per eccellenza, anzi in un luogo della Repubblica (ed. Steph., 508. E) dice formalmente che il bene è superiore in bellezza alla scienza e alla verità: quindi più conforme allo spirito, se non alla lettera della dottrina platonica, sarebbe di dire che il bello è lo splendore del bene. Si consulti: Levêque, La science du beau, 2me éd., Paris, 1872, to. II, pag. 320; Fouillée, La philosophie de Platon, Paris, 1860, to. I, pag. 352.
La bellezza sia delle persone, sia delle cose, è in molti casi dote affatto relativa, come ben giudicava il Metastasio:
142. Sembra gentile
Nel verno un fiore,
Che in sen d’aprile
Si disprezzò.
Fra l’ombra è bella
L’istessa stella
Che in faccia al Sole
Non si mirò.
Anche le cose belle possono stancare chi ne è circondato e le ammira, come accadde al poeta, che per altro era
143. Stanco già di mirar, non sazio ancora.
In tutte le cose e in ogni persona è la bellezza qualità essenziale e del più alto pregio, nelle donne massimamente, che sembrano create allo scopo di piacere altrui. Perciò, ove la natura non sia stata sufficiente, ripara l’arte, la quale è pure chiamata a fornire quegli abili sussidj
144. Dont elle eut soin de peindre et d’orner son visage,
Pour réparer des ans l’irréparable outrage.1
Ma la bellezza non è tutto, e non basta nè a supplire l’assenza di altre doti, meno appariscenti, ma più importanti, nè a dare di per sè stessa la felicità; lo dice una vecchia opera comica:
145. Esser bella a che dunque mi giova,
Se ogni pace vien tolta al mio cuor?
Scendendo al particolare, vediamo che ad uomo realmente brutto possono applicarsi i versi di un satirico aretino:
146. Uno scherzo di natura,
Un uom senza architettura.
il poeta medesimo che difese la piccolezza della statura e il naso grosso dalla taccia di coefficienti di bruttezza. Per la prima disse:
147. Signora, se l’essere
Piccina d’aspetto
Vi sembra difetto,
Difetto non è.
Per l’altro:
148. ....Indizio è un naso maestoso e bello
Di gran.... e di gran che? — di gran cervello.
149. Os homini sublime dedit, cœlumque tueri
Jussit et erectos ad sidera tollere vultus.2
La difesa del colorito fosco era stata fatta dal Tasso:
150. ....Il bruno il bel non toglie.
ricordando forse il biblico:
151. Nigra sum, sed formosa.3
detto della sposa del Libano; come per il biondo è facile di ricordare il dantesco:
152. Biondo era e bello e di gentile aspetto.
che Dante dice a proposito di re Manfredi.
Ma dove più rifulge la bellezza, è negli occhi, poiché in essi la materialità della forma si sposa al fascino spirituale dell’intelligenza. Perciò ogni innamorato loda per prima cosa gli occhi della sua fiamma, e molti vorrebbero dire come il Paggio Fernando:
153. Io ti guardo negli occhi che sono tanto belli.
frase divenuta più che popolare dal giorno in cui la Partita a scacchi del povero Giuseppe Giacosa (ove essa è più volte ripetuta), forma la delizia dei filodrammatici d’Italia.
Gran parte della bellezza degli occhi sta nella grandezza loro. Bene la lodò Ugo Foscolo nel carme Le Grazie, (secondo il testo edito dal Chiarini, inno III, v. 276-277):
154. ....Tornino i grandi
Occhi fatali al lor natio sorriso.
155. Fiorir sul caro viso
Veggo la rosa; tornano
I grandi occhi al sorriso
Insidïando.
Questi grandi occhi erano quelli della bella contessa Antonietta Arese, che Foscolo amò in Milano fra il 1801 e il 1804; come la donna dai grandi occhi fatali intorno alla quale il poeta invoca aleggino le Grazie, sembra fosse quella Maddalena Bignami, nata Marliani, una delle più belle donne del suo tempo, che Napoleone I, in una festa da ballo offertagli dai commercianti milanesi al teatro della Canobbiana nel gennaio del 1808, proclamò la plus belle parmi tant de belles.
Basta talora a fare belli gli occhi la dolcezza del sorriso, quale sarebbe stato quello di Eleonora:
156. Il balen del suo sorriso
D’una stella vince il raggio.
A conforto degli uomini brutti ricorderò finalmente l’aneddoto che corre sulle bocche di tutti, del famoso tenore Nicola Tacchinardi, di Livorno (morto nel 1859), di cui si narra che fosse gobbo, e che una sera, chi dice alla Pergola di Firenze, chi a un teatro di Roma, mentre il pubblico, vistolo apparire sul palcoscenico, insolentiva contro la deformità di lui, esclamasse:
157. Son qui per farmi udire, non per farmi vedere!
Il pubblico stette a sentirlo, e dopo lo spettacolo, vinto dall’entusiasmo, lo accompagnò a casa in trionfo.
L’aneddoto sarebbe bellissimo.... se fosse vero. Lo stesso Tacchinardi soleva smentirlo: e lo smentiva poi la sua persona. Egli non era gobbo, aveva anzi le spalle molto diritte: bensì era piuttosto tozzo di corporatura, e di torace largo e corto. Però sulla scena era attore inarrivabile, e aveva avuto da Canova stesso, che gli era molto amico, e gli aveva anche fatto un busto, lezioni sul modo di drappeggiarsi artisticamente, e di gestire (Jarro, Memorie di un impresario fiorentino, pag. 122).
A persona bella si può applicare quel che dice l’Ariosto di Zerbino, il bellissimo figlio del Re di Scozia (Orlando furioso, c. X, ott. 84):
158. Natura il fece, e poi roppe la stampa.