Le Metamorfosi/Libro Primo

Libro Primo

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Tavola Libro Secondo
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DELLE

METAMORFOSI

D'OVIDIO,

Al Christianissimo Re di Francia

HENRICO SECONDO,

Di Giovanni Andrea dell'Anguillara,

LIBRO PRIMO.

L
e forme in novi corpi trasformate

     Gran desio di cantar m’infiamma il petto,
     Da i tempi primi à la felice etate,
     Che fu capo à l’imperio Augusto eletto.
     Dei c’havete non pur quelle cangiate,
     Ma tolto à voi piu volte il proprio aspetto,
     Porgete à tanta impresa tale aita,
     C’habbiano i versi miei perpetua vita.

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E tu, se ben tutto hai l’animo intento
     Invittissimo henrico al fero Marte,
     Mentr’io sotto il tuo nome ardisco, e tento
     Di figurar sì bei concetti in carte,
     Fammi del favor tuo tal’hor contento,
     Che le tue gratie à noi largo comparte:
     Che s’esser grato à te vedrò il mio carme,
     Farò cantar le Muse al suon de l’arme.

Pria che ’l ciel fosse, il mar, la terra, e ’l foco;
     Era il foco, la terra, il cielo, e ’l mare:
     Ma ’l mar rendeva il ciel, la terra, e ’l foco,
     Deforme il foco, il ciel, la terra, e ’l mare.
     Che ivi era e terra, e cielo, e mare, e foco;
     Dove era e cielo, e terra, e foco, e mare:
     La terra, il foco, e ’l mare era nel cielo;
     Nel mar, nel foco, e ne la terra il cielo,

Non v’era chi portasse il novo giorno
     Col maggior lume in Oriente acceso.
     Ne rinovava mai la Luna il corno,
     Ne l’altre stelle havean lor corso preso.
     Ne pendea la terra intorno intorno
     Librata in aere dal suo propio peso.
     Ne ’l mare havea col suo perpetuo grido
     Fatto intorno à la terra il vario lido.

Quindi nascea, che stando in un composto
     Confuso il cielo, e gli elementi insieme,
     Faceano un corpo infermo, e mal disposto
     Per donar forma al mal locato seme:
     Anzi era l’un contrario à l’altro opposto
     Per le parti di mezzo, e per l’estreme.
     Fea guerra il leve al grave, il molle al saldo,
     Contra il secco l’humor, co’l freddo il caldo.

Ma quel, che ha cura di tutte le cose,
     La Natura migliore, e ’l vero Dio
     Tutti quei corpi al suo luogo dispose
     Secondo il proprio lor primo desio.
     D’ intorno il cielo, e nel suo centro pose
     La terra, indi dal mar la dipartio;
     E ’l passo aperto , onde essalasse il foco,
     Se ne volò nel piu sublime loco.

Prossimo à lui s’avicinò primiero
     L’aer de gli altri piu veloce, e leve,
     Che quanto è il mar piu del terren leggiero,
     Tanto ei del foco è piu tardo, e piu greve.
     Quindi nel centro il suo piu proprio, e vero
     Luogo la terra piu densa riceve.
     L’ultima parte, che resta, è de l’onda,
     Che d’intorno il terren bagna, e circonda.

E dove fur ne l’union nemici,
     E cercar farsi sempre oltraggio, e scorno;
     Ne la disunion restaro amici,
     Poi ch’ognun fu nel suo proprio soggiorno,
     E partorir quell’opre alme, e felici,
     Onde il mondo veggiam sì bello, e adorno,
     Et à far sì bei parti et infiniti,
     Sol la disunion gli fece uniti.

Poi che ’l tutto dispose à parte à parte,
     Qual fosse de gli Dei quel, che v’intese,
     Acciò che fosse uguale in ogni parte,
     La terra in forma d’una palla rese.
     Poi fe, che l’acque fur diffuse, e sparte
     D’intorno, e dentro, per ogni paese,
     Lasciando isole, e terre, e quinci, e quindi
     A gli Sciti, à gl’Iberi, à gl’Afri, e à gli Indi.

E di ridurla in miglior forma vago,
     La terra ornò di mille cose belle,
     Quinci un gran stagno, e quindi un chiaro lago,
     Là selve ombrose, e quà piante novelle.
     Fe correr piu d’un fiume errante, e vago
     Fra torte ripe in queste parti, e ’n quelle;
     Tanto che giunto in più libero nido,
     Percote in vece delle ripe, il lido.

Fece i morbidi prati ornati, e belli
     D’herbe, e di fiori, e bianchi, e rossi, e gialli;
     I freschi chiari, e limpidi ruscelli
     Gire irrigando le feconde valli;
     I colli ameni di varij arbuscelli
     Fregiati d’erti, e poco usati calli;
     E sorger gli alti e faticosi monti,
     Quel nudo, e questo pien d’arbori, e fonti.

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Cingono cinque cerchi il ciel superno,
     Uno nel mezzo, e due per ogni lato.
     Cosi voll’ei, che questo mondo interno
     Fosse da cinque cerchi circondato.
     Senton gli estremi insopportabil verno,
     Quel del mezzo è dal Sol troppo infocato,
     Due fra gli estremi, e ’l mezzo stanno in loco;
     Che son temprati e dal freddo, e dal foco.

Soprastà l’aere à quei cerchi terreni
     D’ogni peso terren libero, e scarco,
     Ma tal’hor pien di tuoni, e di baleni,
     Tal’hor di nubi, e nebbie, e pioggie carco.
     Pose ivi i venti torbidi, e i sereni,
     Si pronti à farsi l’uno à l’altro incarco,
     Che à pena ostar si puote à la lor guerra,
     Che non distrugga il mar, l’aere, e la terra.

Euro verso l’Aurora il regno tolse,
     Che al raggio matutin si sottopone.
     Favonio ne l’Occaso il seggio volse,
     Opposto al ricco albergo di Titone.
     Ver la fredda, e crudel Scithia si volse
     L’horribil Borea, nel settentrione.
     Tenne l’Austro la terra à lui contraria,
     Che di nubi, e di pioggie ingombra l’aria.

Tra lor divisi à pena havea gli honori
     Con si mirabil magistero, et arte,
     Che si mostrar le vaghe stelle fuori
     Nel bel manto del ciel distinte, e sparte.
     Poi, dando à tutti i loro habitatori,
     Locò Venere in ciel, Saturno, e Marte.
     A le fiere il terren donar li piacque,
     A i vaghi augelli l’aere, à i pesci l’acque.

Fra gli animali il più santo, e ’l piu eletto
     Mancava anchor, c’havesse arte, e pensiero,
     Ilqual col piu purgato alto intelletto
     In tutte l’altre cose havesse impero.
     Generò l’huom fra tutti il piu perfetto
     Quel, che formò l’uno, e l’altro hemispero,
     O pur la nova terra di quel seme,
     Che ’l ciel gl’infuse mentre furo insieme.

Tutti l’huom superò gli altri mortali
     Per l’elevato suo valore interno:
     Nè prono il fe come gli altri animali,
     Che guardan sempre mai verso l’inferno:
     Perche mirasse le cose immortali,
     L’alzò co’l grave aspetto al ciel superno,
     E per farlo piu amabile, e piu pio,
     L’ornò de l’alma imagine di Dio.

O che cosi Prometeo il componesse
     Di terra schietta, e d’acqua viva, e pura.
     Poi col foco del ciel l’alma li desse,
     Ó pur che fosse la miglior natura;
     Con questa venerabil forma resse
     L’huom su la terra ogn’altra creatura.
     E, dato fine à si nobil lavoro
     S’incominciò la bella età de l’oro.

Questo un secolo fu purgato, e netto,
     D’ogni malvagio, e perfido pensiero,
     Un proceder leal, libero, e schietto,
     Servando ogn’un la fe, dicendo il vero.
     Non v’era chi temesse il fiero aspetto
     Del giudice implacabile, e severo;
     Ma giusti essendo allhor, semplici, e puri,
     Vivean senz’altro giudice securi.

Sceso dal monte anchor non era il pino
     Per trovar nove genti à solcar l’onde;
     Ne sapeano i mortali altro confino,
     Che i proprij liti lor, le proprie sponde;
     Ne curavan cercare altro camino
     Per riportarvi ricche merci altronde.
     Non si trovava allhor città, che fosse
     D’argini cinta, e di profonde fosse.

Non era stato anchora il ferro duro
     Tirato al foco in forma, ch’offendesse,
     Nè bisognava à l’huom metallo, ò muro
     Che dall’altrui perfidie il difendesse.
     Tromba non era anchor, corno, ò tamburo,
     Che al fiero Marte gli animi accendesse;
     Ma sotto un faggio l’huomo, ò sotto un cerro
     E da l’huomo securo era, e dal ferro.

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Senza esser rotto, e lacerato tutto
     Dal vomero, dal rastro, e dal bidente,
     Ogni soave, e delicato frutto
     Dava il grato terren liberamente.
     E quale egli venia da lui produtto,
     Tal se ’l godea la fortunata gente,
     Che spregiando condir le lor vivande
     Mangiavan corne, e more, e fraghe, e ghiande.

Febo sempre più lieto il suo viaggio
     Facea, girando la superna sfera,
     E con fecondo, e temperato raggio
     Recava al mondo eterna primavera.
     Zefiro i fior d’Aprile, e i fior di Maggio
     Nutria con aura tepida, e leggiera.
     Stillava il mel da gli Elci, e da gli Olivi.
     Correan nettare, e latte i fiumi, e i rivi.

O fortunata età, felice gente,
     Che ti trovasti in così nobili anni,
     C’havesti il corpo libero, e la mente
     Questa da rei pensier, quel da tiranni:
     Dove era almen securo l’innocente
     Da gli odij, da l’invidie, e da gl’inganni.
     Beato, e veramente secol d’oro,
     Dove senza alcun mal tutti i ben foro.

Poi che al piu vecchio Dio noioso, e lento
     Dal suo maggior figliuol fu tolto il regno,
     Seguì il secondo secol de l’argento
     Men buon del primo, e del terzo piu degno;
     Che fu quel viver lieto in parte spento,
     Ch’à l’huom convenne usar l’arte, e l’ingegno,
     Servar modi, costumi, e leggi nove,
     Sì come piacque al suo tiranno Giove.

Egli quel dolce tempo, ch’era eterno,
     Fece parte de l’anno molto breve,
     Aggiungendovi state, autunno, e verno,
     Foco empio, acuti morbi, e fredda neve.
     S’hebber gli huomini allhor qualche governo
     Nel mangiar, nel vestire, hor grave, hor leve,
     S’accommodaro al variar del giorno
     Secondo ch’era ò in Cancro, ò in Capricorno.

Già Tirsi, e Mopso il fier giuvenco atterra
     Per porlo al giogo, ond’ei ne mugghia, e geme.
     Già il rozzo agricoltor fere la terra
     Col crudo aratro, e poi vi sparge il seme.
     Ne le grotte al coperto ogn’un si serra,
     Overo arbori, e frasche intesse insieme.
     E questo, e quel si fa capanna, ò loggia
     Per fuggir sole, e neve, e vento, e pioggia.

Dal metallo, che fuso in varie forme
     Rende adorno il Tarpeio, e ’l Vaticano,
     Sortì la terza età nome conforme
     À quel, che trovò poi l’ingegno humano,
     Che nacque à l’huom si vario, e si difforme.
     Che li fece venir con l’arme in mano
     L’un contra l’altro impetuosi, e fieri
     I lor discordi, ostinati pareri.

À l’huom, che già vivea del suo sudore
     S’aggiunse noia, incomodo et affanno
     Pericol nella vita, e ne l’honore,
     E spesso in ambedue vergogna, e danno;
     Ma se ben v’era rissa, odio, e rancore,
     Non v’era falsità, non v’era inganno:
     Come fur ne la quarta età più dura,
     Che dal ferro pigliò nome, e natura.

Il ver, la fede, e ogni bontà del mondo
     Fuggiro, e verso il ciel spiegaro l’ali:
     E ’n terra usciro dal tartareo fondo
     La menzogna, la fraude, e tutti i mali.
     Ogni infame pensiero, ogni atto immondo
     Entrò ne crudi petti de mortali;
     E le pure virtù candide, e belle
     Giro à splender nel ciel fra l’altre stelle.

Un cieco, e vano amor d’honori, e regni
     Gli huomini indusse à diventar tiranni.
     Fer le ricchezze i già svegliati ingegni
     Darsi à i furti, à le forze, et à gl’inganni,
     A gli homicidij, et à mille atti indegni,
     Et à tante de l’huom ruine, e danni,
     Che, per ostare in parte à tanti mali,
     S’introdusser le leggi, e i tribunali.

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Ma quei ciechi desir non furo spenti,
     Ch’erano già ne gli huomini caduti.
     Die l’avaro nocchier la vela à i venti
     Prima, che ben gli havesse conosciuti.
     Gli arbori eccelsi ne’ monti eminenti
     Per forza da gli artefici abbattuti,
     E ridotti altri in asse, et altri in travi,
     Si fer Fuste, Galee, Caracche, e Navi.

Ne fur molto securi i naviganti,
     Ch’oltre l’orgoglio de’ venti, e de’ mari,
     Molti huomini importuni, et arroganti
     Sù varij legni diventar corsari.
     La terra, già comune à gli habitanti,
     Come son l’aure, e i bei raggi solari,
     Fu fatta in mille parti; e posto il segno
     Fra cittade, e città, fra regno, e regno.

Ne l’huom contento da la ricca terra
     Trar le biade, e le sue più care cose,
     Andando quanto più potea sotterra,
     Cercò s’haveva altre ricchezze ascose,
     E ritrovovvi il nervo de la guerra,
     E de l’arme più dure, e perigliose,
     lo dico il crudo ferro, e micidiale,
     E l’oro più, che ’l ferro, empio, e mortale.

Scorta che fu la più ricca miniera,
     E quel metallo poi purgato, e netto,
     Se n’invaghiro gli huomini in maniera,
     Che per lui fero ogni crudele effetto.
     Di tu tant’empie cose empia Megera,
     Falsa Erinni, Tesifone, et Aletto,
     Voi tutte furie del regno di Dite,
     Voi, che le ritrovaste, voi le dite.

Va ’l ricco peregrino al suo viaggio,
     Ecco un ladro il saluta, il bacia, e ride,
     E fingendo amistà, patria, e lignaggio
     l’invita seco à cena, poi l’uccide.
     Il cittadin, più cortese, che saggio,
     Alberga con amor persone infide,
     Che scannan poi per rubarlo nel letto
     Lui, che con tanto amor diè lor ricetto.

Vede il genero, grave essere il seno
     De la moglier, che sarà tosto madre;
     E dando al ricco socero il veleno,
     Toglie à la fida moglie il caro padre.
     Un’altro, la cui figlia il ventre ha pieno,
     Con le sue mani insidiose, e ladre,
     Dando al genero ricco occulta morte,
     Fa pianger à la figlia il suo consorte.

Tra fratelli ogni amor si vede estinto
     Nel partir la paterna facultade;
     Vien dal proprio interesse ogn’un sì vinto,
     Che spesso la dividon con le spade.
     La matrigna crudel con viso finto
     À l’incauto figliastro persuade
     Che per suo ben l’occulto tosco pigli
     Per veder poi più ricchi i proprij figli.

Chi potria dir l’ingiuriose note,
     Ch’ogni dì nascon tra marito, e moglie?
     Chi per goder la roba, e chi la dote
     Cercando van come l’un l’altro spoglie.
     Egli l’uccide il figlio, ella il nipote
     Ella à lui, egli à lei la vita toglie.
     Fa ricco ella il su’ amor d’ogni rapina,
     Ei de la dote altrui la concubina.

Per nutrire il buon padre il dolce figlio
     Fatica, e suda, e sforza la natura.
     Spesso la vita sua mette in periglio;
     Per dargli il pane, à la sua bocca il fura.
     Poi ricco il face il suo savio consiglio,
     E ’l figlio ingrato morte gli procura;
     O rimbambito il finge, e di se fuore
     Per goder senza lui del suo sudore.

S’accendon l’aspre, et horride giornate
     Piene di sanguinosi alti perigli,
     Che spingono à morir le genti armate
     Sotto l’offese de’ lor fieri artigli;
     Onde le donne afflitte, e sconsolate
     Piangono i morti lor mariti, e figli,
     E ’l fanciullin con l’angosciosa madre,
     Resta senza governo, e senza padre.

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Astrea, che con la libra, e con la spada
     Conosce di ciascun l’errore, e ’l merto;
     Poi che s’avide, che non v’era strada,
     Da giugner con la pena al grande merto,
     Se non rendeva per ogni contrada
     Il mondo à fatto inutile, e deserto,
     Pria che veder che ’l tutto si consumi,
     Ultima andò fra i più beati Numi.

Venner poscia i Giganti, al mal sì pronti,
     Che spregiando i bei doni de la terra,
     Vollon gustar gli alti nettarei fonti,
     E ’l maggior ben, che fra gli Dei si serra;
     Onde osar metter monti sopra monti,
     E farsi scala al ciel per far lor guerra,
     Ponendo con la lor mirabil possa
     L’un sopra l’altro Pelio, Olimpo, et Ossa.

Il figliuol di Saturno, che discorre
     Un sì nefando, e sì crudel disegno,
     E vedendo il pericolo, che corre
     L’alta rocca del cielo, e ’l suo bel regno,
     Al più dannoso fulmine ricorre,
     E folgorando in quel lavoro indegno,
     Fè, che quei monti equati à la pianura
     Fur di quegli empi e morte, e sepoltura.

Ma la natura pia, che non consente,
     Che quella stirpe sia stirpata à fatto,
     Fà germogliar di novo un’altra gente
     Del sangue loro in terra putrefatto,
     Che fu l’idea d’ogni perversa mente,
     E d’ogni opera ria norma, e ritratto;
     Di sangue nacque, e ne fu tanto ingorda,
     Che di sangue era ogn’hor macchiata, e lorda.

Ne fu contra gli Dei la più spietata,
     Ne che il lor culto in più dispregio havesse.
     Hor mentre il gran motor l’intende e guata
     Sdegno degno di Giove il cor gli oppresse,
     Et havendo la mensa scelerata,
     E mille ingiurie ne la mente impresse
     De l’empia Arcadia, con turbato ciglio
     Fe chiamar gli altri Dei tutti à consiglio.

Una splendida via nel ciel riluce,
     Candida sì, che dal latte s’appella;
     La nobiltà del ciel vi si riduce,
     La plebe alberga in questa parte, e ’n quella.
     Questa è la via, la qual dritto conduce
     À la corte real, superba, e bella.
     Per questa via con pompa, e con decoro,
     Gli Dei n’andaro al santo concistoro.

Assiso ogn’un nel suo bel seggio adorno,
     E ne l’alto regale il sommo Giove,
     Girando ei l’infiammate luci intorno
     Mostrò d’haver cose importanti, e nove;
     Crollando il capo altier, che d’ogn’intorno
     Il ciel, la terra, il mare, e i venti move;
     Per far noto à che fin tutti raccolse,
     La lingua irata in tai parole sciolse.

Non mi trovai più gravemente oppresso
     Per le cose del mondo dal pensiero,
     Nel tempo, che i Giganti sottomesso
     Haveano tutto l’Artico hemispero,
     E tutto il cielo in gran travaglio messo
     Cercando opprimer noi col nostro impero,
     Tentando con la forza, e con l’ingegno
     Dar fine al nostro sempiterno regno.

Che se ben era l’inimico acerbo
     Del corpo forte, e de l’animo insieme;
     Pur tutto quell’indegno atto, e superbo
     Nacque sol d’una origine, e d’un seme:
     Solo una coppia al mondo hor ne riserbo,
     Che la deità nostra adora, e teme;
     Ogni altro, ovunque il Sol luce, e le stelle,
     Per tutto il mondo à noi fatto è ribelle.

E per quell’acqua giuro, che m’astringe
     A dover osservar le mie parole,
     Per tutto, ovunque il mare abbraccia, e cinge,
     Voler tutta annullar l’humana prole;
     Che se necessitade à ciò ne spinge,
     Una piaga incurabil se ben dole,
     Con ferro, ò foco si recida, e netti,
     Perche la parte sana non infetti.

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Satiri, Semidei, Fauni, e Silvani
     Non degni anchor de l’alto honor del cielo,
     Fra spirti sì crudeli, e sì profani,
     Come vivran’ sotto ’l terrestre velo;
     Se me, che con le proprie invitte mani
     Lancio l’ardente, e spaventoso telo;
     Me, che dò legge à la celeste corte
     Ha cercato un mortal condurre a morte?

Gran mormorio fra lor, gran romor nacque
     Udita sì perversa intentione:
     E tanto à cieschedun dolse, e dispiacque,
     Ch’ogn’un cercò saperne la cagione,
     Chi sì ne le mal’opre si compiacque,
     Ch’osò d’usar sì gran prosuntione.
     E dimostraro tutti à più d’un segno
     Ver Giove gran pietà, ver lui gran sdegno.

Ma poi, ch’ei con la mano, e con la voce
     Comandò, che ciascun tacendo, udisse;
     Via più che mai terribile, e feroce
     Ruppe il novo silentio, e così disse.
     Lasciate andar, che del suo fallo atroce
     Volli, che degna pena ei ne patisse;
     Però, che li cangiai la forma, e ’l nome
     Per suo supplicio. Et udirete come.

Quando mi venne per sorte à l’orecchio
     L’horrenda che del mondo infamia suona;
     Dal ciel discendo, e cercar m’apparecchio,
     S’è ver tutto quel mal, che si ragiona.
     Prendo human volto, e ’l mio sembiante vecchio
     Lascio, e vò (non credendolo) in persona.
     Qui saria lungo à darne il conto intero,
     Che la fama trovai minor del vero.

Vidi cercando diversi paesi
     Regnar per tutto la forza, e l’inganno.
     Giunsi al fine in Arcadia, e quivi intesi,
     Che v’era un crudelissimo Tiranno.
     Ver le case spietate il camin presi,
     Per voler riparar à sì gran danno;
     Fei per gran segni noto al venir mio,
     Ch’io era in corpo human l’eterno Dio.

Gli spirti più sinceri, e più devoti
     Già per tutto venian per adorarmi,
     À mandar preghi, et à prometter voti
     Per segni, che vedean mirandi farmi.
     Nè far li potei mai sì chiari, e noti,
     Che fede Licaon volesse darmi,
     Anzi di me sì forte si ridea,
     Che s’adombrò ciascun, che mi credea.

Poi tra se disse. io mi son risoluto
     Voler di questo fatto esser più chiaro,
     Se questo è Dio, ò pur qualche huomo astuto,
     Che cerchi d’ingannare il vulgo ignaro:
     M’invita seco à cena. io non rifiuto.
     Perche ’l suo mal pensier gli costi caro,
     Ch’era di darmi in quello stante morte,
     Che ’l sonno à gli occhi miei chiudea le porte.

E non contento del mortal oltraggio,
     Che ne la mente sua tenea celato,
     Ucciso c’hebbe un’infelice ostaggio,
     Che pur dianzi i Molossi gli havean dato,
     O per assicurarlo de l’homaggio
     O per altro interesse del suo stato;
     E ’n varie foggie quel cotto, e condito
     L’appresentò nel funeral convito.

Io l’horrendo spettacolo vedendo,
     Tutta di foco quella casa sparsi,
     E gli Dei suoi familiari, essendo
     Degni di maggior pena, accesi, et arsi.
     Ond’egli sbigottito andò fuggendo
     Dove meglio pensò poter salvarsi;
     E dove il bosco ha più le parti ombrose
     Più tosto, che poteo, corse, e s’ascose.

E volendo parlar seco, e dolersi
     De la sua acerba, e meritata pena,
     Subito in ululato si converse
     La voce sua, d’ira, e di rabbia piena.
     L’humano aspetto tosto si disperse,
     Volse il corpo à la terra, al ciel la schena.
     Il volto human si fe ferina faccia,
     E piedi, e gambe, le mani, e le braccia.

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Si fe d’un huom’, un lupo empio, e rapace
     Servando l’uso de l’antica forma,
     Che l’human sangue più che mai li piace,
     De’ suoi vecchi desir seguendo l’orma.
     Hor, per empire il suo ventre vorace
     Serva nel gregge anchor la stessa norma,
     Gli occhi ha lucenti, e guardatura fera,
     La canicie, e ’l color come prim’era.

Solo una cosa ho spenta, hora à me pare,
     Che s’havriano à mandar le cose uguali.
     Perche per tutto, ove la terra appare,
     Han preso imperio le furie infernali,
     Pensate, che giurato habbian di fare
     Gli huomini tutti i piu nefandi mali,
     Si ch’io condanno ogni mortale à morte,
     Perche pari a l’error la pena porte.

La sentenza di Giove ogn’un conferma
     Altri con cenni, et altri con parole,
     E stan con fantasia stabile, e ferma,
     Che splender debbia à novo mondo il Sole.
     Pur’à ciascun, che ’n quel pensier si ferma,
     Sì general iattura incresce, e dole,
     Che san, che ’l mondo esser non può perfetto
     Privo de l’animal, c’ha l’intelletto.

Chi porterà (diceano) in nostro honore
     Ne’ sacri altari gli odorati incensi?
     S’han forse à dare in preda al gran furore
     Le città d’animali horrendi, e immensi?
     Lasciate andar, c’ho questa cosa à core,
     Rispose Giove, e non sia chi ci pensi,
     Con mirabile origine io fo stima
     Far gente assai dissimile à la prima.

Co’ suoi folgori ardenti allhora allhora
     Giove distrutta havria tutta la terra:
     Ma tanti fochi ben poteano anchora
     Ardere il cielo, e ruinarlo à terra.
     Sa ben, che ’l tempo ha da venire e l’hora,
     Che ’l foco à tutto ’l mondo ha da far guerra,
     E consumar con le sue fiamme ardenti
     La terra, il cielo, e tutti gli elementi.

Da parte tosto ogni pensier si mette,
     Che d’intorno à l’incendio il cielo havea,
     E si ripongon tutte le saette
     Che fa Vulcan ne la montagna Etnea.
     In quanto al modo, ogni Dio si rimette
     A quel, ch’occulto anchor Giove tenea,
     Che fu contrario al primo, e à tutti piacque
     Di nasconder la Terra sotto l’acque.

Fa dire ad Eolo la corte superna,
     Che vuol la terra à l’acqua sottoporre.
     Egli, che i venti à suo modo governa,
     E ch’à sua posta gli può dare, e torre,
     Rinchiude Borea in una sua caverna,
     Et ogni vento, che la pioggia abhorre,
     E l’Austral manda fuor, ch’è detto il Noto,
     Che per molti suoi segni à molti è noto.

Con l’ali humide sue per l’aria poggia;
     Gl’ingombra il volto molle, oscuro nembo.
     Dal dorso horrido suo scende tal pioggia,
     Che par, che tutto ’l mar tenga nel grembo.
     Piovon spesse acque in spaventosa foggia
     La barba, il crine, e ’l suo piumoso lembo.
     Le nebbie ha in fronte, i nuvoli à le bande
     Ovunque l’ali tenebrose spande.

Quando con l’ali egli dibatte, e scuote
     Le nubi intorno, e fra le palme preme,
     Un strepito, un romor l’aria percuote,
     Che par, che l’aria, e ’l ciel s’urtino insieme.
     Vien giù la pioggia più spessa che puote;
     L’aria percossa ne borbotta, e freme.
     Arbori spoglia, et herbe atterra, e biade
     Dove la pioggia ruinosa cade.

Il misero villan, ch’intorno mira
     Venir dal cielo il non pensato danno,
     Con intenso dolor piange, e sospira,
     Che perde il suo lavor di tutto l’anno.
     L’arco incurvato suo carica, e tira
     La nuntia di Giunon, che quando vanno
     L’aria offuscando i più torbidi venti,
     Porge à le nubi i debiti alimenti.

[p. 5r modifica]

E non bastando il mal, che à basso infonde
     Il ciel, continuo, ch’ogni cosa atterra,
     Nettuno con le sue mortifer’onde
     Contra il terren prepara un’altra guerra.
     Perche più facilmente lo sprofonde,
     Gli dei chiamò de l’acque de la terra,
     E lor disse in parlar rotto, et altero,
     Il giusto de gli Dei sdegno, e pensiero.

So ben, che non bisogna ch’io v’essorti
(Disse) ad empir la volontà di Dio,
     Che vuol, che tutti gli huomini sian morti
     Sotto il potente, et ampio imperio mio.
     Hor vi mostrate impetuosi, e forti
     A ruina del mondo infame, e rio;
     Hor vedrò, con che cor ciascun si move
     Per ubidire il suo signore, e Giove.

Com’egli ha detto, si torna ogni fiume,
     E rompe à l’acque ogni riparo, e bocca.
     Percote col tridente il marin Nume
     L’afflitta terra, et à pena la tocca,
     Che trema tanto fuor del suo costume,
     Ch’in sì gran moto il mar crudel l’imbocca,
     Trema, e par ben, che in precipitio cada,
     E d’inghiottirla al mar s’apre la strada.

Corrono al mar con furia i fiumi alteri
     Di tanta altezza lor gonfiati, et empi,
     E traggon seco imperiosi, e feri,
     Arbori, et animali, e case, e tempi.
     Ruinan’i palazzi interi interi,
     Quel che mai non poter tanti anni, e tempi,
     E s’alcun restò saldo come prima
     Gli coprì l’acqua l’elevata cima.

Questo e quel fiume tanto, e tanto ingrossa,
     Che al fin congiungon le parti supreme,
     E fanno di molt’acque un’acqua grossa
     Per gire in una massa unite insieme.
     Van con tanta arroganza e con tal possa,
     Che ’l mar sdegnato le ribatte, e preme.
     Esse con tal furor urtan, che pare
     C’habbian fatta una lega contra il mare.

Nel mare in quell’incontro entrano i fiumi
     Ne’ fiumi il mare, e rotta horrenda fassi,
     Prevale al fine il mare, onde i cacumi
     De gli alti monti ogni hor si fan più bassi.
     Escon le fere de gli hispidi dumi,
     E gli huomini di casa afflitti e lassi,
     E ’n cima al monte patrio se ne vanno,
     E ’ntorno intorno assediati stanno.

Stansi piangendo il lor crudel destino
     E l’acqua tuttavia cresce et abonda.
     Han grande invidia à l’Alpi, e à l’Apennino,
     Che par che poco anchor teman de l’onda.
     Superbo in tanto il gran furor marino
     Gli huomini, gli animali, e ’l monte affonda.
     Nuota il lupo fra capre, e fra montoni,
     E gli huomini fra tigri, e fra leoni.

Non vale à l’huomo il suo sublime ingegno,
     Nulla giova al leone esser feroce,
     Non à Signori haver’imperio, e regno,
     Poco rileva al cervo esser veloce,
     Che ’l furore implacabile, e lo sdegno
     Del mare à tutti parimente noce.
     Van fra gli arbori i pesci ne le selve,
     Già nidi, e tane d’augelli, e di belve.
     Molti fuggiti in qualche monte alpestre,

In torre, ò rocca van correndo à porsi,
     Cercando al mar con le lor proprie destre
     Con infiniti mezzi contraporsi.
     Rompe l’onda sdegnata usci, e fenestre,
     Ch’al fermo suo voler cercano opporsi;
     E batter quella rocca mai non cessa
     In fin che non l’ha presa, e sottomessa.
     L’afflitto montanar col figlio in braccio

Di casa fugge, e maggior monte sale:
     L’acqua l’incalza, e già v’è dentro un braccio.
     Sopra un’arbore monta, e si prevale:
     L’acqua ancho il giunge. ei si sostien col braccio
     Al più supremo ramo, e non gli vale,
     Che soverchiano al fin le tumide onde,
     Quel monte altier, quell’elevata fronde.

[p. 5v modifica]

Le navi, che solean per l’alto mare
     Andar solcando il lor noto viaggio,
     Hor sopra terra si veggon portare
     Sopra questa cittade, e quel villaggio:
     E non è lor possibile contrastare,
     À tanto, e non mai tal provato oltraggio;
     L’onda è si grossa, il vento è tanto grave,
     Che forza è, che perisca ogni gran nave.

Hor come dunque i miseri mortali
     Poteano in tanto mar notando aitarsi?
     Come poteano i più forti animali
     Varcar tant’alto pelago, e salvarsi?
     Si tenne un tempo il vago augel su l’ali
     Cercando arbore, ò terra ove posarsi,
     E stanco al fin lasciò nel mar cadersi,
     Che tutti altri animali havea sommersi.

Era gia ’l mare à tanta altezza giunto,
     Che superava ogni superbo monte:
     E per tutto era il mar col mar congiunto;
     Fatto era mare il lago, il fiume, e’l fonte.
     Il mar potea vedersi in ogni punto
     Bagnare intorno intorno ogni Orizonte.
     Tutto ’l mondo era mar per ogni sito,
     Ne’l mare havea da verun lato lito.

Se i nuvoli, e le nebbie folte, e nere,
     Non t’havesser celato Apollo il volto:
     Come havresti sofferto di vedere
     Il mondo, à cui tu splendi in mar sepolto?
     Havresti il pianto potuto tenere?
     Non haveresti il carro altrove volto?
     Ma tu, per non veder caso si duro,
     Ti velasti d’un nembo così scuro.

Ditemi, havete voi frenato il pianto
     Nereide, e voi maritimi divini,
     Vedendo l’human seme tutto quanto
     In bocca d’Orche, e di mostri marini?
     Et ogni luogo sacro, e tempio santo
     Ricetto di Balene, e di Delfini?
     Che dovea fare in voi vista si tetra,
     S’hor da chi non la vide, il pianto impetra?

Fra gli Attici, e gli Aonij un monte siede,
     Che con due sommità s’erge à le stelle,
     La cui cima à le nubi soprasiede,
     Ne teme l’oltraggiose lor procelle;
     Due quivi alme arrivar, d’amor, di fede,
     E d’ogni altra virtute ornate, e belle:
     Ch’in una piccioletta, e debil barca
     Scelse, e salvò fra tutti il gran Monarca.

Il figliuol di Prometheo, io dico quello,
     Che sol con la consorte era rimaso,
     Sommerso ogn’altro dal marin flagello
     Dal Borea à l’Austro, e da l’Orto à l’Occaso.
     Tosto, che s’accostò col suo battello
     À la cima del monte di Parnaso,
     Le Coricide Ninfe, e Themi adora,
     Che l’oracol tenea de’ fati allhora.

Più giusto huom mai non fu, ne più leale
     Di quel, che solo allhor fuggì la morte;
     Ne più religiosa, e spiritale
     Donna, de la prudente sua consorte.
     Giove, che dal celeste tribunale
     Scorse tutte le genti esser già morte,
     E ’l viver solo à due corpi permesso,
     Uno de l’un, l’altro de l’altro sesso;

Trovandogli ambo fidi, ambo innocenti,
     Ambo d’ogni virtù nobile ornati,
     Fè per l’aria soffiar gli Artici venti,
     Da cui fur tutti i nuvoli scacciati.
     Rasserenati tutti gli elementi,
     Ch’eran lunga stagion stati offuscati,
     Mostrò la terra al mondo de le stelle,
     Et à la terra le cose alte, e belle.

Il gran Rettor del pelago placato,
     L’ira del mare in un momento tronca,
     Fà, che ’l trombetta suo Triton dà fiato
     À la cava, sonora, e torta conca.
     Al suono altier da tal tromba spirato
     Non può risponder concavo, ò spelonca;
     Ma rompe in modo l’aria, e con tal volo,
     Che ne rimbomba l’uno, e l’altro polo.

[p. 6r modifica]

Sparto c’hebbe Triton l’horrendo suono,
     Che vuol, che à i luoghi lor ritornin l’acque,
     Ch’insieme, dolci, e salse unite sono,
     Fer tutti quel, che al Re de l’onde piacque.
     Si mise ogni acqua in corso, e in abbandono
     Fin, che nel primo suo letto si giacque.
     Già l’onda tuttavia manca, e discresce,
     E, secondo che manca, il terren cresce.

Il noto lito già percoton l’onde
     Del mar, che poco cura uscirne fuore.
     Ogni fiume ha da i lati argini, e sponde,
     Alte per l’ordinario suo furore.
     Se vivessero quei, che ’l mare asconde,
     Saria resa la terra al primo honore.
     Standosi adunque muta in ogni canto,
     Così l’huom ruppe l’aria, in voce, e ’n pianto.

O Pirra, ò mia sorella, ò mia consorte,
     O donna da gli Dei sola salvata,
     O sola à me di sangue, e d’un più forte
     Nodo d’affinità giunta, e legata,
     O sola, à cui m’unisce hor l’empia sorte,
     Ch’in noi l’humana spetie ha riservata,
     Ecco hor noi siam tutta l’humana prole,
     E dove nasce, e dove more il Sole.

Noi tutto ’l popol, noi tutta la gente,
     Di tutto ’l mondo siamo insieme unita,
     Ben che anchor l’aria mi turba la mente,
     Ne siam molto securi de la vita,
     Deh che faresti misera, e dolente,
     Se fossi senza me dal mar fuggita?
     Come sola il timor discacceresti?
     Chi ti consoleria? dove n’andresti?

Sappi pur certo compagnia diletta,
     Che se l’onda ver noi cruda, et avara,
     Havesse anchor di te fatto vendetta,
     E me lasciato in questa vita amara,
     lo ti seguiterei con quella fretta,
     Laqual ricercheria cosa sì cara,
     Anch’io mi gitterei nel mar profondo,
     Per non star sol nel desolato mondo.

Sapessi almen con la mirabil arte
     L’huom di terra formar, del padre mio,
     E dargli l’alma, e riparare in parte
     Quel, che morrà, se tu ti muori, et io.
     Hor siam de l’huomo essempio in ogni parte,
     A i monti, à i boschi, à gli elementi, e à Dio;
     Et odon solo i nostri alti lamenti,
     Le rive, i sassi, le campagne, e i venti.

Miseri, che farem noi soli in terra?
     Già non potremo habitar noi per tutto.
     Come empieremo il mondo, che la terra
     Non renda in vano il suo pregiato frutto?
     Come farassi, quando andrem sotterra,
     Ch’ella non resti desolata al tutto?
     Qual luogo habiteremo, ò quello, ò questo,
     Che non lasciam dishabitato il resto?

Voi, che non mai con mille, e mille ingegni
     Nel volere acquistar spuntaste avante,
     Voi, che per farvi ricchi, agiati, e degni,
     Vedeste hora il Ponente, hora il Levante,
     Voi, che per possedere imperij, e regni,
     Havete fatte tante guerre, e tante;
     Che fate, ahi lasso, perche non correte
     À farvi hor quella parte, che volete?

Fermò ’l parlare, havendo cosi detto,
     Ma non potè fermar l’immenso pianto;
     Straccia la Donna il crin, percote il petto,
     Di lagrime spargendo il viso, e’l manto:
     E s’è lo spirto in modo in lei ristretto,
     Che non puote formar parola intanto,
     Piange, e stà muta, e ’l fido sposo abbraccia,
     E non sà che si dica ò, che si faccia.

Conchiudono ambo al fin che si ricorra
     À l’oracol celeste per aiuto,
     Pregandol, che risponda, e lor discorra
     Come han da racquistar quel, ch’han perduto.
     Non havendo altra via, che à ciò soccorra,
     Se ne vanno al Cefiso, che venuto
     Se n’era già ne le sue note sponde,
     E di mondar ne l’anchor torbide onde.

[p. 6v modifica]

Sparti de l’acqua il capo, e ’l vestimento,
     Al tempio van de la divina Theme,
     Dove il loto ascondea di fuori e drento
     E le pareti, e le parti supreme.
     Stassi ne’ sacri altari il foco spento,
     Giunti ivi s’inchinaro à terra insieme,
     E poi c’hebber baciato il freddo sasso,
     Incominciar con suono afflitto, e lasso.

Se mai posson del ciel mitigar l’ira
     I giusti preghi de’ mortali in parte,
     Il modo in noi Themi fatale inspira
     Da riparar l’humana specie, e l’arte.
     A le cose del mondo attendi, e mira,
     Che son tutte sommerse in ogni parte.
     La Dea si mosse à la giusta proposta,
     Dando à l’intento lor questa risposta.

Del tempio uscite, e discinte c’havrete
     Le vesti intorno, le tempie velate;
     De la gran Madre poi l’ossa prendete,
     E quelle dietro à le spalle gittate.
     Stero un gran pezzo stupefatte, e chete
     Quell’anime trafitte, e sconsolate:
     Parla al fin Pirra, e nega che s’adempia
     La risposta fatal, crudele, et empia.

Perdonami, dicea, sublime, et alma,
     Immortal Dea, se ben non mi son mossa
     Ad ubidir, che temo offender l’alma
     De la gran madre mia gittando l’ossa.
     Pianger non cessa, e batter palma a palma,
     Ch’altro non sa che più giovar le possa.
     Pur ripensando al dir de gli alti Dei,
     Cosi Deucalion parlò con lei.

Pirra l’opinion tua di molt’erra,
     Se, che l’Oracol ne comandi, credi,
     Che con le putride ossa homai sotterra
     Crear dobbiamo al mondo i novi heredi.
     Io so che la gran madre è la gran terra;
     Son l’ossa sue le pietre, che tu vedi.
     Ne pensar posso, che l’Oracol falle,
     Se quest’ossa gittiam dietro à le spalle.

Ben che la donna confortasse alquanto
     Quel, che ’l marito suo detto l’havea,
     E se ben fu quel senso fido, e santo,
     Non però fermamente si credea:
     Pur s’accordaro di provarlo in tanto
     Ch’altro à la mente lor non occorrea.
     E se ben parea lor cosa alta, e nova:
     Che nocer potea lor farne la prova?

Escon del tempio, e si bendan la fronte,
     Indi ciascun di lor scinto, e disciolto,
     Gli spessi sassi, che produce il monte,
     Getta à la parte, ove non guarda il volto.
     Io dirò cose manifeste, e conte,
     Nè forse mi sarian credute molto,
     Dicendo quel, ch’ogni credenza eccede,
     Se non ne fesse il tempo antico fede.

I sassi sparti per piani, e per colli
     Secondo la fatal prefissa norma,
     Deposta la durezza, e fatti molli,
     Cominciaro à sortire un’altra forma.
     Già si scorgono e capi, e braccia, e colli,
     E d’huomini imperfetti una gran torma,
     Simili à i corpi ne i marmi scolpiti,
     I quai siano abbozzati, e non finiti.

L’humida herbosa lor parte terrena
     Cangiossi in carne, in sangue, in barbe, e ’n chiome.
     E quella, che ne’ sassi è detta vena,
     Tenne in quest’altra forma il proprio nome.
     Le parti di più nervo, e di più lena,
     Diventar nervi, et ossa, e non so come.
     Prese ogni sasso quel divino aspetto,
     C’ha il senso esteriore, e l’intelletto.

E come da gli Dei lor fu concesso,
     I sassi, che da l’huom furo gittati,
     Tutti sortir faccia virile, e sesso.
     Fur tutti gli altri in donne trasformati.
     Ben ne facciamo esperienza adesso,
     Da che duri principij siamo nati.
     Perciò siam forti à le fatiche, e pronti,
     Che siam nati di sassi in aspri monti.

[p. 7r modifica]

Cosi ripieno fu d’huomini il mondo,
     Che del loco natio fer poca stima:
     Girar fra i Poli, e l’Equinottio il tondo,
     Fin c’habitaro ogni paese, e clima.
     Al terren, più che mai lieto, e fecondo
     Mancava ogni animal, che v’era prima:
     E quelli ad uso de l’humana gente
     La terra partorì spontaneamente.

Che poi che riscaldò Febo il terreno,
     C’havea renduto dianzi humido il mare,
     E concepì nel suo fecondo seno
     La terra la virtù del generare:
     L’humido, e ’l caldo, temperate à pieno
     Le parti ove volean l’alme informare,
     Fer, che la terra parturì per tutto
     Questo, e quello animale, il bello, e ’l brutto.

Come quando le sette altere corna
     Unisce il Nilo, e ’l suo paese inonda,
     Tosto che nel suo letto antico torna
     E và lavando la sua ricca sponda:
     Fa d’animali assai se stessa adorna
     La terra, aitata dal Sole, e da l’onda,
     Ecco una fera intera, una imperfetta,
     Mezza n’è viva, e mezza è terra schietta.

E se ben l’acqua, e’l foco son discordi,
     Posson l’humido e ’l caldo unirsi insieme:
     E fatti amici, temprati, e concordi,
     Fan gravida la terra del lor seme.
     E se ben questo à quel par, che discordi,
     E sempre l’un l’altro contrario preme,
     Con la discorde lor concordia fanno,
     Che nascon gli animai, vivono, e vanno.

E non sol rinovò l’antiche sorti
     De gli animali à se stessa la terra,
     Ma spaventosi mostri, immensi, e forti,
     Ch’infinito animal cacciar sotterra;
     Ma più da te ne fur feriti, e morti,
     E n’hebbe tutto ’l mondo maggior guerra,
     Da te crudel Piton serpente ignoto
     Che quasi il mondo ritornasti voto.

Come una gran montagna era eminente,
     E nero d’un color, come d’inchiostro:
     Una grossa colonna era ogni dente,
     E n’havea tre corone intorno al rostro:
     Sembrava ogni occhio una fornace ardente
     Ogni membro, che havea, tenea del mostro.
     Febo al mondo levò sì grave incarco,
     Votando la faretra, oprando l’arco.

L’arco, che solo in cervi, in caprij, e ’n dame,
     Dal biondo Dio fu ne le caccie usato,
     Forò la pelle, e quelle dure squame,
     Onde il mostro crudel tutto era armato.
     E così Febo quella ingorda fame
     Spense, che ’l mondo havria tutto ingoiato.
     Et ucciso che l’hebbe, si disperse,
     E come prima in terra si converse.

E, perche ’l tempo ingordo non s’ingegni
     Tor la memoria di sì degna offesa;
     Più giochi instituì celebri, e degni,
     Per l’età giovenil nobil contesa.
     Chiamolli Pitij, e diè premij condegni
     Al vincitor d’ogni proposta impresa,
     Che per l’immense, e più lodate prove
     Si coronava de l’arbor di Giove.

Colui, che più veloce era nel corso,
     Il premio havea de l’arbore, e l’honore.
     E se col carro alcun meglio havea corso,
     Il medesmo ottenea pregio, e favore.
     Chi con più forza, destrezza, e discorso,
     Restava ne le lotte vincitore,
     Cingea di quelle frondi il capo à tondo,
     Ch’ancor non era il verde alloro al mondo.

Apollo allhor d’ogni arbor, d’ogni sorte
     Ornò le belle tempie, e ’l suo crin d’oro,
     Fin che ’l suo primo amor non fe di sorte,
     Che nacque al mondo il sempre verde alloro.
     E non fu l’empia, e dispietata sorte,
     Che ’l fece entrar ne l’amoroso choro;
     Ma sdegno, onde lo Dio d’amor s’accese,
     Per l’arroganza, che d’Apollo intese.

[p. 7v modifica]

Lieto Apollo sen’ gia, gonfio, e superbo,
     D’havere ucciso il mostro horrendo, e crudo,
     Et incontrato in quel garzone acerbo,
     Contra il cui stral non vale elmo, ne scudo,
     Vedendogli incurvar le corna, e ’l nerbo
     A l’arco, e gir con tanta audacia ignudo,
     Si tenne à grande ingiuria, à grande incarco,
     Che sì fiero, et altier portasse l’arco.

Et à lui disse. Lascivo fanciullo,
     Che vuoi tu fare ò di saette, ò d’archi?
     Che sei nel mondo un gioco, et un trastullo,
     A quei, che di pensier son voti, e scarchi.
     Io quello hor son, ch’ogni valore annullo
     A ciascun, che quest’arme adopri, e carchi,
     Ch’in altro spender sò le mie saette,
     Ch’in ferir garzoncelli, ò giovinette.

A me sta ben usar l’arco, e lo strale,
     Che so con esso far più certa guerra,
     Far piaga più secura, e più mortale,
     E cacciar l’aversario mio sotterra.
     Trovai pur dianzi il più fero animale,
     Che si vedesse mai sopra la terra.
     E fu quest’arco poderoso, e forte,
     Ch’à Febo diede fama, al mostro morte.

Leggier fanciul con la tua face attendi
     Ad infiammare i più lascivi cori,
     Con quella ne i tuoi servi imprimi, e accendi
     Non so che vani tuoi scherzi, et amori;
     De l’arco nulla, over poco t’intendi,
     Tutti i pregi son miei, tutti gli honori.
     Lo Dio d’Amor così punto, e schernito,
     Disse à lui, più che mai fiero et ardito.

Vaglia con fere pur l’arco, che mostri,
     Che ’l mio val contra te, contra ogni Dio,
     E quanto à gli alti Dei cedono i mostri,
     Tanto è minore il tuo valor, che ’l mio.
     Quest’arco, acciò che meglio io te ’l dimostri
     Farà di tanto ardir pagarti il fio.
     E spiegò ratto le veloci penne,
     E nel monte Parnaso il vol ritenne.

De la risposta sua maggior faretra
     Due strali sceglie di contrario effetto,
     Questo sprona ad amare, e quello arretra,
     Infiamma l’uno, e l’altro agghiaccia il petto.
     Questo fa l’huom di foco, e quel di pietra,
     Perc’hanno questo, e quel contrario obietto.
     È d’or quel, ch’ad amare inchina, e sforza;
     Di piombo quel, ch’ogni gran foco ammorza.

Torna con le nove armi à la vendetta,
     E trova il biondo Dio non meno altero.
     Tosto l’aurato stral tira, e saetta
     Il core al forte et oltraggioso arciero.
     Poi gli mostra una vaga giovinetta,
     Che gl’imprime nel cor novo pensiero:
     Lo stral di piombo allhor da l’arco scaccia,
     E ’l cor di quella ninfa indura, e agghiaccia.

Dafne, figlia à Peneo, fu l’alma, e bella
     Ninfa, che allhor solinga se ne giva,
     E cercando imitar Diana, anch’ella
     Fu de l’huom sempre mai nemica, e schiva.
     Molti, e molti cercar per moglie havella
     Per l’immensa beltà, che’n lei fioriva:
     Gli amori ella, e i connubij dispregiando,
     Sen’ giva à caccia per le selve errando.

Contenta hor questa, hor quella fera piglia
     Ne i boschi più selvaggi, e più remoti.
     Spesso il padre le disse, ò cara figlia
     Gia da te spero e genero, e nepoti.
     Proterva ella al contrario si consiglia
     Servare i casti suoi pensieri, e voti;
     Come fosse il connubio un grave eccesso,
     Conoscer non volea l’ignoto sesso.

Sparsa le guancie di color di rose,
     Il collo al padre dolcemente abbraccia,
     E con parole sante, e vergognose
     Disse. Deh padre mio dolce vi piaccia
     Che casta io possa per le selve ombrose
     De la triforme Dea seguir la traccia;
     E non vi paia tal richiesta strana,
     Che già il concesse il suo padre à Diana.

[p. 8r modifica]

Vivi pur figlia mia vergine, e casta,
     Le disse il padre; ma veggio in effetto,
     Che al desiderio, c’hai troppo contrasta
     Cotesto vago tuo leggiadro aspetto.
     Febo l’ama, e la mira, e non gli basta,
     Vorria sposarla, e far comune il letto,
     La spera, e ne compiace à i desir sui,
     Ma gli oracoli suoi mentono à lui.

Come l’arida stoppia accende il foco,
     Ó secca siepe, e manda in aria il vampo,
     Comincia in una parte, e à poco à poco
     Rinforza intorno, e rende maggior lampo;
     Si sparge al fin l’incendio in ogni loco,
     E tien tutta la siepe, e tutto ’l campo:
     Così il foco di Apollo al cor ridutto,
     Al fin si sparse, e l’infiammò, per tutto.

Vede à la Ninfa inculti i suoi crin d’oro,
     E che sarian (disse egli) essendo ornati,
     Raccolti in qualche vago, e bel lavoro,
     Fra gemme, et oro, in piu fogge intrecciati?
     Loda la maestà, loda il decoro,
     De’ santi modi suoi leggiadri, e grati,
     Ma più quel vago lume il tira, e alletta,
     Onde il folgora amor sempre, e saetta.

D’ogni parte del viso adorna, e piena
     Di gratia, e di beltà, diletto prende.
     Di speme il pasce l’aria sua serena,
     E la benignità, ch’ivi risplende.
     Loda la dolce bocca, e duolsi, e pena,
     Che i frutti suoi non prova, e non intende.
     Le braccia mezze ignude ammira, e quelle
     Parti, che ascose son, crede più belle.

Vede l’accorta Ninfa il bello Dio,
     Che così intento, e fiso la riguarda,
     E perche ha ’l cor contrario al suo desio,
     Prende una fuga subita, e gagliarda:
     Ma non sì tosto il corso i piedi aprio,
     Che la mossa di lui non fu men tarda.
     Fugge ella, ei segue, e ’n queste dolci note
     Le parla, nè perciò fermar la puote.

Deh non fuggir, vaga fanciulla, e bella
     Dal gaudio d’ambedue, dal piacer nostro,
     Come fugge colomba, ò tortorella
     De l’Aquila crudel, l’artiglio, e ’l rostro,
     Come dal lupo la timida agnella,
     Come si fugge un spaventoso mostro:
     Ben’e’l dover, se’l nemico si fugge,
     Ma non chi per amor segue e si strugge.

Guarda quei pruni, oime, ferma i tuoi passi,
     Che non t’involin l’aureo sparso crine.
     Oime s’in qualche tronco t’intoppassi
     Fra sì precipitose, alte ruine,
     Et io fossi cagion, che dirupassi,
     Per aspri scogli, e fra pungenti spine,
     Qual mal potrei trovar sì duro, e forte,
     Che potesse ad un Dio porger la morte?

Deh non gir sì veloce, et habbi mente
     Se qualche acuta spina in terra siede,
     Che con la punta sua dura, e pungente,
     Non fesse oltraggio al tuo tenero piede,
     Ó serpe, ò d’altro, insidioso dente,
     Che s’asconde fra l’herba, e non si vede.
     Và Ninfa và, con passo men gagliardo,
     Et anchor’io ti seguirò più tardo.

Cerca, e discorri, à cui non porti amore,
     Chi fuggi, e chi sia quel, di cui paventi.
     Io non son montanar, non son pastore,
     Non guardo rozzo qui gregge, od armenti:
     Deh volgi un poco à me la fronte, e ’l core,
     Tien nel mio volto i tuoi begli occhi intenti,
     Non sai stolta, non sai chi fuggi; e credi
     Forse molto veder, ma nulla vedi.

Huom terrestre io non son, ma dio del cielo,
     Ben che’n terra ho domino illustre, e raro;
     Che son signor di Tenedo, e di Delo,
     E di Delfo, e di Patara, e di Claro:
     Toglio à la notte il tenebroso velo,
     E rendo al mondo il dì splendido, e chiaro.
     Quel ch’è, ciò che già fu, quanto poi fia,
     Si può saper per la scientia mia.

[p. 8v modifica]

Io son figliuol del sommo Giove, e sono
     Quel, che incordando i nervi al cavo legno,
     Rendo col canto mio sì dolce tuono,
     Che rompo, e placo ogni rancore, e sdegno.
     E s’hora havessi il plettro, e al suo bel suono,
     Potessi ’l canto unir, forse che degno
     Faresti me, ch’io ti mirassi alquanto,
     Vinto dal vario suon, dal dolce canto.

Non si trova ferir più fermo, e vero
     De l’arco mio, ne più certa saetta.
     Anzi m’ha vinto un più sicuro arciero,
     Che da’ begli occhi tuoi fere, e saetta;
     Ho ne la medicina il sommo impero,
     La gran virtù de l’herbe è à me soggetta;
     Oime non vaglion’herbe à l’amor mio,
     Nè quel, che giova altrui, giova al suo Dio.

Che cosa più crudel, giovar mi puote
     Se ’l giusto priego mio non può fermarti?
     Non l’amor mio, non le dolenti note,
     Non mille, e mille mie lodate parti;
     Ma quanto più il mio duol l’aria percote,
     Tanto più fuggi, e men posso arrestarti.
     Nè giovar ponno à le mie piaghe acerbe
     Regni, fati, beltà, canto, arco, et herbe.

Al fin l’innamorato Dio s’accorge,
     Ch’ella non vuol, che ’l suo parlar conchiuda:
     Tace, e la mira, e più bella la scorge,
     Che ’l corso fa, ch’ella arrossisce, e suda:
     Gonfia il vento le vesti, e manca, e sorge,
     E mostra hor questa, hor quella parte ignuda.
     L’aura, che al corso suo contraria spira,
     La chioma alzata in aria apre, e raggira.

Visto che hor più vago il divo aspetto
     Cresce à la Ninfa, e ch’ascoltar non vuole,
     Non può soffrir l’acceso giovinetto
     Di gittar più lusinghe, e più parole:
     Il cuoce in modo il foco, c’ha nel petto,
     Che non par piu che corra, ma che vole;
     E per l’ultimo suo maggior soccorso,
     Come gli mostra Amor, ricorre al corso.

Tal, se tal’hor la lepre al veltro innanzi
     Si stende al corso in ben’aperto campo,
     Ch’ei corre ove correva ella pur dianzi,
     Co’ piè l’un cerca preda, l’altra scampo:
     E, perche l’aversario non l’avanzi,
     Questa, e quel passa ogni dubbioso inciampo,
     Già il can la piglia, e par che l’habbia in bocca
     Ella è in dubbio s’è presa, ei non la tocca.

Così Febo, e la vergine fugace,
     Fan, questo sprona amor, quella timore.
     Al fin chi segue tiranno, e rapace,
     Forse aiutato da l’ali d’Amore,
     Nel corso è più veloce, e pertinace.
     Gia il rispirar, che dal corso è maggiore,
     Soffia nel crin de la Ninfa già stanca,
     A cui la forza, e la prestezza manca.

Mirando sbigottita il patrio fiume
     Disse piangendo. Ó mio benigno padre,
     S’è ver, che i fiumi habbian potere, e nume,
     Toglimi tosto a le mani empie, e ladre.
     Terra, che tutto produci, e consume,
     Terra, ch’à tutti sei benigna madre,
     Questa, onde offesa son, bramata forma
     Inghiotti, ò in altro corpo la trasforma.

Volea più dir; ma di tacer la sforza
     Novo stupor, che tutto il corpo prende,
     E fallo un corpo immobil senza forza,
     Che non ode, non vede, e non intende.
     La cinge intorno una novella scorza,
     Che dal capo à le piante si distende.
     Crescon le braccia in rami, e’n verdi fronde
     Si spargon l’agitate chiome bionde.

Il piè veloce s’appiglia al terreno,
     E con radice immobil vi si caccia:
     La sommità del novo arbore ameno
     Tenne la grata sua leggiadra faccia.
     Servò sol lo splendore almo, e sereno,
     Che vuol, ch’à Febo anchor quest’arbor piaccia:
     Dubbioso il tocca, e trova con effetto,
     Tremar sott’altra scorza il vivo petto.

[p. 9r modifica]

E ’ncontrando le mani intorno al legno
     L’abbraccia come fosse un corpo humano,
     Il bacia, ma del bacio fugge il segno
     L’arbore, che ’l risolve, e ’l rende vano.
     Gli parla, e dice; Arbore eccelso, e degno
     Dapoi, che sposa io t’ho bramata in vano,
     Tu sarai l’arbor mio, tu la mia cetra,
     Tu la chioma ornerai, tu la faretra.

Tu cingerai l’invitto capo intorno
     A i sommi trionfanti Imperatori
     In quel festivo, e glorioso giorno,
     Che i merti mostrerà de i vincitori;
     E ’l Tarpeio vedrà superbo, e adorno
     Le ricche pompe, e trionfali honori.
     Le porte auguste ornerai di ghirlande
     Havendo incontro l’honorate ghiande.

Le bionde giovinil mie lunghe chiome
     Non mai da ferro, ò man tronche, ò scorciate,
     De le tue frondi, e del tuo laureo nome
     Andran mai sempre alteramente ornate.
     I sommi rami suoi fer cenno, come
     De l’arbor capo esser’accette, e grate
     Le sue larghe promesse più, che prima,
     Chinando spesso la cortese cima.

Ha l’Emonia una valle ampia, et amena,
     Cinta intorno di selve alte, et ombrose,
     Che è detta Tempe, dove in giro mena
     Il Peneo l’onde sue torte, e spumose;
     E di tal nebbia tien l’aria ripiena,
     Ch’avanza l’alte selve, e tienle ascose;
     E ’l suo gran mormorar tanto si stende,
     Ch’intorno più, che i suoi vicini offende.

Qui di spugnosi sassi è l’alta sede,
     E l’antro opaco del potente fiume:
     Dove à dar leggi à l’onde altier risiede,
     Et à le Ninfe, c’han l’onde per nume.
     Ogni fiume che à lui propinquo siede,
     Venne à servar l’antico suo costume,
     Dubbij tra lor di quel, c’haveano à farsi,
     O da dolersi seco, ò d’allegrarsi.

Fra l’adorne di pioppi ombrose sponde
     Vi vien lo Sperchio, e l’Enipeo inquieto,
     L’Apidan’ vecchio con le sue fredde onde,
     E l’Anfriso piacevole, e quieto;
     Et altri, et altri ne vennero altronde
     Per far quell’atto fra doglioso, e lieto.
     E fer con dignitade, e con decoro
     Quel, che s’apparteneva al caso, e loro.

Inaco sol restò, ch’ivi non venne,
     E mancò sol di quel, che far dovea:
     Onde imputato da qualch’un ne venne,
     Che ’l suo grande infortunio non sapea.
     Di far sì degno ufficio lui ritenne
     Una sua figlia che perduta havea,
     Per cui ne l’antro suo chiuso si giacque,
     Forze acquistando col suo pianto à l’acque.

Tien per trovarla ogni modo, ogni via,
     E più, che n’investiga, men ne sente;
     Ne può pensar, ch’in alcun luogo sia,
     Ne che dimori fra l’humana gente,
     Poi che luogo non trova dove stia,
     In qual si voglia Occaso, et Oriente.
     Io, nome havea la fanciulla, e per frodo,
     Fu trafugata al padre à questo modo.

La vide un dì partir dal patrio speco
     Giove, e disse ver lei con caldo affetto;
     O ben degna di me, chi fia, che teco,
     Vorrai bear nel tuo felice letto?
     Deh vienni ò Ninfa fra quest’ombre meco,
     Che fian hoggi per noi dolce ricetto,
     Mentre alto è ’l Sol, che ’l suo torrido raggio
     Non fesse à tal beltà noia, et oltraggio.

E se qualche animal nocivo, e strano
     Temi, che non t’offenda, ò ti spaventa,
     Non temer, che quel Dio vero, e soprano,
     C’ha lo scettro del Ciel, mai gliel consenta,
     Quel Dio, che con la sua sicura mano
     Il tremendo dal Ciel folgore aventa,
     Non fuggir Ninfa me, che son quell’io,
     Del Ciel signore, e folgorante Dio.

[p. 9v modifica]

Fugge la bella Ninfa, e non ascolta:
     Ma Giove, che d’haverla era disposto,
     Fe nascer una nebbia oscura, e folta,
     Che con la Ninfa il tenesse nascosto.
     Quì lei fermata, et à suoi prieghi volta,
     Non pensa di partirsi così tosto,
     Ma seco quel piacer sì grato prende,
     Che quel, ch’ama, e l’ottien, beato rende.

Gli occhi in tanto Giunon chinando à terra
     Vide la spessa nebbia in quel contorno,
     E che poco terren ricopre, e serra,
     E ch’in ogn’altra parte è chiaro il giorno.
     Vedendo, che ne i fiumi, ne la terra
     L’han generata, riguardando intorno,
     Del marito ha timor, che’n ciel non vede,
     E conosce i suoi furti, e la sua fede.

Nol ritrovando in cielo è più che certa,
     Che sian contra di se fraudi, et offese.
     Discende in terra, e quella nube aperta
     Non se le fe quel, che credea, palese.
     Giove, che tal venuta havea scoperta,
     Fe, che la donna un’altra forma prese;
     E fe la violata Ninfa bella
     Una matura, e candida Vitella.

Poi finse per diporto, e per ristoro
     Andar godendo il bel luogo, ove egli era.
     Giunon con gelosia, con gran martoro
     La giuvenca mirò sdegnata, e altera,
     Pur finge, e dice, ò ben felice Toro,
     Che goderà così leggiadra fera.
     Cerca saper qual sia, donde, e di cui,
     E di che armento, e chi l’ha data à lui.

Per troncar Giove ogni sospetto, e guerra,
     Che la gelosa già nel suo cor sente:
     Perche non ne cerchi altro, che la terra
     L’ha da se parturita, afferma, e mente.
     Ella, c’haver non vuol quel dubbio in terra,
     Cerca, che voglia à lei farne un presente.
     Che farai, Giove? a che risolvi il core?
     Quinci il dover ti sprona, e quindi amore.

Troppo è contra il suo fin, ch’egli si spoglie
     D’una vita sì dolce, e sì gioiosa;
     Ma se nega à la sua sorella, e moglie,
     Che sospetto darà, sì lieve cosa?
     Amor vuol, ch’ei compiaccia à le sue voglie,
     Ma non vuol già la sua moglie ritrosa,
     Al fin per torle allhor quel gran sospetto,
     Tolse à se stesso il suo maggior diletto.

Così la Dea ben curiosa ottiene
     Quel don, che tanto travagliata l’have,
     Ne però tolto quel timor le viene,
     Che l’imprime nel cor cura sì grave,
     Anzi tal gelosia nel cor ritiene,
     Che novi inganni, et novi furti pave,
     Onde diè il don, che sì l’accora, e ’nfesta,
     In guardia ad un, che havea cent’occhi in testa.

Argo havea nome il lucido pastore,
     Che le cose vedea per cento porte.
     Gli occhi in giro dormian le debite hore,
     E due per volta havean le luci morte.
     Gli altri spargendo il lor chiaro splendore
     Tra lor divisi fean diverse scorte.
     Altri havean l’occhio à la giuvenca bella,
     Altri intorno facean la sentinella.

Ovunque il bel pastor la faccia gira,
     C’ha di sì ricche gemme il capo adorno,
     A la giuvenca sua per forza mira,
     Perche egli scuopre anchor di dietro il giorno.
     Ne gliè d’huopo, s’altrove ella s’aggira,
     Voltar per ben vederla il capo attorno,
     Che se ben dietro à lui si parte, ò riede,
     Dinanzi à gli occhi suoi sempre la vede.

Lascia, che pasca il dì l’herbose sponde,
     Che sparte son nel suo bel patrio regno.
     Acque fangose, et herbe amare, e fronde,
     Le sue vivande sono, e ’l suo sostegno.
     Ma, come il Sol ne l’Ocean s’asconde,
     Argo le getta al collo il laccio indegno,
     E le sue piume son, dove la serra,
     La non ben sempre strameggiata terra.

[p. 10r modifica]

Tal volta l’infelice apre le braccia
     Per abbracciar il suo novo custode,
     Ma col piede bovin da se lo scaccia,
     Ne man può ritrovar’onde l’annode.
     Pregar il vuol, che d’ascoltar li piaccia,
     Ma come il suo muggire horribil’ode,
     Scorre di quà, di là tutto quel sito,
     Fuggendo se medesmo e ’l suo muggito.

Dove la guida il suo pastor, soggiorna,
     Pascendo l’herbe fresche, e tenerelle.
     A le paterne rive un dì ritorna
     Dove giucar solea con le sorelle,
     Ma come le sue nove altere corna
     Mira ne l’acque cristalline, e belle,
     S’adombra tutta, e si ritira, e mugge,
     E mille volte vi si specchia, e fugge.

Le Naiade non san, che la vitella,
     Che vuol giucar con loro, e le scompiglia,
     Sia la perduta lor cara sorella.
     Et Inaco non sa, che sia la figlia.
     Tutto quel, ch’esse fan, vuol fare anch’ella,
     Dando à tutti di se gran maraviglia.
     Toccar si lascia, e fugge, e torna à prova,
     Come fa il can, che ’l suo padron ritrova.

Mentre scherzando ella s’aggira, et erra,
     Il mesto padre suo grato, et humano,
     Svelle di propria man l’herba di terra,
     A lei la porge, e mostra di lontano.
     Ella s’accosta, e leggiermente afferra
     L’herba, e poi bacia la paterna mano.
     Dentro à se piange, e direbbe anche forte,
(Se potesse parlar) l’empia sua sorte.

Pur fa, che ’l padre (tanto, e tanto accenna)
     Seguendo lei nel nudo lito scende,
     Dove l’unghia sua fessa usa per penna
     Per far noto quel mal, che sì l’offende.
     Rompe col piede al lito la cotenna,
     Per dritto, per traverso, e ’n giro il fende,
     E tanto, e tanto fa, che mostra scritto
     Il suo caso infelice al padre afflitto.

Quando il misero padre in terra legge,
     Che la figlia da lui cercata tanto,
     È quella, che credeva esser del gregge
     Nascosta sotto à quel bovino manto,
     A pena in piè per lo dolor si regge,
     Raddopia il duol, la pena, il grido, e ’l pianto.
     Le nove corna à la sua figlia abbraccia,
     Baciando spesso la cangiata faccia.

Ó dolce figlia mia, che in ogni parte
     Da dove nasce il Sol fin à l’Occaso,
     Già ti cercai, ne mai potei trovarte,
     E finalmente hor t’ho trovato à caso.
     Figlia onde il cor per gran duol mi si parte,
     Mentre ch’io penso al tuo nefando caso,
     O dolce figlia mia, deh chi t’ha tolto
     Il tuo leggiadro, e delicato volto?

Deh perche col parlar non mi rispondi,
     Ma sol col tuo muggir ti duoli, e lagni?
     E ’l mio parlar col tuo muggir confondi?
     E col muggito il mio pianto accompagni?
     Tu sai dal mio parlar, che duol m’abondi;
     Veggo io dal tuo muggir, come tu piagni.
     Io parlo, e fo quel, che si dè fra noi,
     Ma tu sol muggi, e fai quel, che far puoi.

Oime che le tue nozze io preparava
     Far con pompa, con gaudio, e con decoro,
     Onde nepoti, e genero aspettava
     Per la mia vecchia età dolce ristoro.
     È questo dunque il ben, ch’io ne sperava?
     Dunque ho da darti hor per marito un toro?
     Dunque i vitelli al nostro ceppo ignoti
     I tuoi figli saranno, e i miei nepoti?

Potessi almen finir con la mia morte
     L’intenso, e dispietato dolor mio,
     Che à fin verrei di sì perversa sorte.
     Veggo hor quanto mi noccia essere Dio.
     Poi ch’al morir mi son chiuse le porte,
     Che posso altro per te, che dolermi io,
     E mentre rotan le celesti tempre,
     Il tristo caso tuo pianger mai sempre.

[p. 10v modifica]

Mentre il misero vecchio anchor si duole,
     E tutte le sue pene in un raccoglie,
     Lo stellato pastor, che la rivuole,
     Presente il padre la rilega, e toglie,
     E per diversi pascoli, ove suole
     Condurla spesso, la rimena, e scioglie.
     Egli in cima d’un colle fa soggiorno,
     Che scopre la foresta intorno intorno.

Giove non vuol, come ben grato amante,
     Ch’in sì gran mal l’amata sua s’invecchi,
     Onde al suo figlio, e nipote d’Atlante
     Commette, che contra Argo ir s’apparecchi,
     E, perche non sia più sì vigilante,
     Vegga di tor la luce à tanti specchi.
     Tosto ei la verga, e l’ali, e ’l pileo appresta
     A le mani, et à piedi, et à la testa.

Lasciata l’alta region celeste
     Ne la parte più bassa se ne venne,
     Dove giunto mutò sembiante, e veste,
     E lasciò il suo cappel, lasciò le penne;
     Per far dormir le tante luci deste,
     Sol la potente sua verga ritenne,
     E, dove è quel pastore, il camin prese,
     Che ’n capo tien tante facelle accese.

Come rozzo pastor gli erra da canto,
     Che à le fresche herbe il suo gregge ristora,
     E con le canne sue sì dolce canto
     Rende, che n’addolcisce il cielo, e l’ora.
     Hor l’occhiuto pastor, che l’ode intanto,
     Di sì soavi accenti s’innamora,
     E dice à lui, qui meco venir puoi,
     C’havrem grata herba, et ombra, il gregge, e noi.

Il cauto Dio fa tutto quel, che vuole
     L’aveduto custode, e circospetto,
     E col suon dolce, e le saggie parole
     Cerca addolcirgli il senso, e l’intelletto.
     D’Argo molti occhi han già perduto il Sole,
     E forza è, che stian chiusi à lor dispetto;
     Ma molti ei ne tien desti, e gli ritarda,
     E con quei vegghia, e la giuvenca guarda.

Mentre in parte discorre, in parte sogna,
     E non dà noia al discorso il sognare,
     Col pensier desto di sapere agogna,
     E ’l pastor prega, che voglia contare,
     Come fu ritrovata la sampogna,
     Che sì soavemente ei sa sonare.
     Disse quel Dio, cantando in dolce tuono,
     Facendo pausa al suo cantar col suono.

Ne i gelati d’Arcadia ombrosi monti
     Fra l’Amadriadi Nonacrine piacque
     Una, che Naiade era, che in quei fonti,
     Che surgon quivi, fe sua vita e nacque.
     Satiri e Fauni, e Dei più vaghi, e conti,
     Sempre scherniti havea; tanto le spiacque
     Il commercio d’Amor, quasi empio, e stolto,
     Per havere à Diana il suo cor volto.

Siringa nome havea la Ninfa bella,
     Che studiò d’imitar l’Ortigia Dea
     Con la virginità, con la gonnella,
     Con ogni cosa, ch’essa usar solea.
     Non si riconoscea questa da quella,
     Ch’in ambe ugual beltà si discernea.
     Nel l’arco sol disconvenner tra loro,
     Questa l’usò di corno, e quella d’oro.

Mentre ella un dì dal bel Liceo ritorna
     Casta nel cor, nel volto allegra, e vana,
     La vede un Dio, c’ha due caprigne corna,
     Co i piè di capra, e con sembianza humana:
     Com’ei la vede sì vaga, e sì adorna,
     Ne sa, che ’l cor sacrato habbia à Diana,
     Le dice, ò Ninfa, à i dolci voti attendi,
     E quel Dio, che ti vuol, marito prendi.

Havea molto che dir Mercurio intorno
     A quel, che à Pane in questo amore occorse,
     Il qual di Pino, e di corona adorno,
     In van pregolla, in van dietro le corse,
     E come corso havrian tutto quel giorno,
     Se non, che un fiume à lor venne ad opporse,
     Che ’l Ladon fiume il correre impedio
     A la gelata Ninfa, al caldo Dio.

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Là dove giunta pregò le sorelle,
     Che volesser salvarla in alcun modo,
     E s’appreser le piante tenerelle
     Al terren paduloso, e poco sodo,
     Che tutte l’ossa sue si fer cannelle,
     Ch’ogni giuntura sua si fece un nodo,
     Che gran foglie si fer le vesti tosto,
     E tutto ’l corpo suo tenner nascosto.

E che correndo Pane in abbandono
     Pensò tenerla, e sfogar la sua voglia,
     E che prese una canna, donde un tuono
     Flebile uscia, come d’huom, che si doglia,
     Che mentre ella spirò, rendè quel suono
     Il vento mosso in quella cava spoglia,
     E come Pan da tal dolceza preso;
     Disse; In van non havrò tal suono inteso.

E di non pari calami compose
     Con cera aggiunti il flebile istrumento.
     A cui poscia Siringa nome pose
     Dal nome suo, da quel dolce lamento.
     Dovea dir queste con molte altre cose
     Mercurio intorno à questo scambiamento,
     Ma perche gia tutte le luci chiuse
     In Argo scorse, il suo parlar conchiuse.

Da la sampogna il suono, e la favella
     Da la sua lingua subito disgiunge.
     Con maggior sonno poi gli occhi suggella,
     Che con la verga sua toccando aggiunge.
     Sfodra la spada sua lucida, e bella,
     E dove il capo al collo si congiunge,
     Fere, e tronca la spada empia, e superba,
     E macchia del suo sangue i fiori, e l’herba.

Argo tu giaci, e ’l gran lume, che havevi
     In tanti lumi, un sol colpo ti fura.
     Tanti occhi, onde vegghiar sempre solevi,
     Perpetuo sonno hor t’addormenta e tura.
     E ’l dì, che più d’ogn’un chiaro vedevi,
     Una infelice, e trista notte oscura.
     Solo una man con tuo gran danno, e scorno
     T’ha tolto i lumi, la vigilia, e ’l giorno.

Ma la gelosa Dea, che gli occhi à terra
     Chinava spesso al suo fido pastore,
     Quando il vide giacer disteso in terra,
     E ’l capo tronco senza il suo splendore,
     E ch’empia morte quei bei lumi serra,
     I quai soleano assicurarle il core,
     Dal morto capo quei cent’occhi svelle,
     E fa le penne al suo pavon più belle.

Empie di gioie la superba coda
     Del suo pavone, e gli occhi, che distacca
     Dal capo tronco, ivi gl’imprime, e ’nchioda,
     E con mirabil’arte ve gli attacca.
     Tutta arrabbiata poi la lingua snoda;
     Dunque, disse, debb’io per questa vacca
     Sempre star’in sospetto, in pene, e ’n guai,
     E non mi debbo risentir già mai?

Non pon già tempo in mezzo à la vendetta,
     Ma fa venire una furia infernale
     Contra la figlia d’Inaco, ristretta
     Dentro à la scorza d’un brutto animale.
     Là dove giunta il corpo, e l’alma infetta
     Di quella afflitta, e giunge male à male:
     E tal furor’à lei ne l’alma porse,
     Che tutto ’l mondo profuga trascorse.

La spiritata bestia scorre, e passa
     Dove il rabbioso suo furor la mena:
     E s’alcun le s’oppon, le corna abbassa,
     E ’l fa cader da l’aria in sù l’arena.
     Gli huomini, e gli animali urta, e fracassa,
     Che à tempo à lei non san voltar la schena.
     Tu solo altero Nil restavi in terra
     A veder la sua rabbia. e la sua guerra.

Là dove giunta prostrata su ’l lito
     Sol col volto, e con gli occhi al ciel s’eresse.
     E con un sospirar, con un muggito,
     Che veramente parea, che piangesse,
     Parea, che con Giunone, e col marito,
     De’ suoi strani accidenti si dolesse,
     E che chiedesse il fin come innocente
     Del suo doppio martir, che prova, e sente.

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Giove con grato modo, e caldo affetto
     Per ammorzare ogni rancore, e sdegno,
     Che rode à la gelosa moglie il petto,
     Per l’acque giura del Tartareo regno,
     Che mai più non havrà di lei sospetto,
     E tenga il giuramento Stigio in pegno:
     E prega, che placare homai si voglia,
     E torle quella rabbia, e quella spoglia.

Udito il giuramento allegra torna
     Giunon, et Io racquista il primo stato.
     Si fan due bionde treccie ambe le corna,
     Ogni altro pel da lei toglie commiato.
     L’occhio suo come pria picciol ritorna,
     Il volto è più che mai giocondo, e grato.
     E tornata che fu l’humana faccia,
     I piè dinanzi suoi si fer due braccia.

L’unghia sua fessa di novo si fende
     D’altri tre fessi, che fan cinque dita.
     La man già si disnoda, e già s’arrende,
     E torna più, che mai sciolta, e spedita.
     Tosto si leva, e in alto si distende,
     E ferma sù due piè tutta la vita.
     Mutata tutta in un punto si vede:
     E quanto più le par, men’ella il crede.

Volea parlar per veder s’era quella,
     Ch’esser solea, ma temea non muggire.
     Apre la bocca al dir, poi la suggella
     Per non udir quel, che fuggia d’udire.
     S’arrischia al fin, ma con rotta favella
     Tutta dubbiosa sotto voce a dire.
     E poi, che ’l caso suo conobbe espresso,
     Il Ciel ringratiò del buon successo.

A cui dapoi più d’un tempio s’eresse,
     E venerata fu fra gli altri Dei.
     Onde si tien, che di Giove nascesse
     E Pafo, un bel figliuol, ch’uscì di lei.
     Et in segno di ciò, par, ch’egli havesse
     Nel mondo tempij assai giunti à costei,
     D’animo, e d’anni uguale hebbe in quel tempo
     Un figliuol di colui, che tempra il tempo.

Fer sì la nobiltà, gli anni, e ’l valore,
     C’hebber contesa de la precedenza,
     Ch’esser questo di quel volea maggiore,
     Ciascun per la celeste discendenza.
     E stavan sì ne i punti de l’honore,
     Che ne fu gran querela, e differenza.
     Perche Fetonte il bel figliuol del Sole
     Disse un dì molto altier queste parole.

Qual più chiara progenie può trovarsi
     Di quella, che dal Sol chiaro discende?
     E se qualch’una illustre osa chiamarsi,
     Tanto illustre più fia, quanto più splende:
     Non so chi possa al mio padre aguagliarsi,
     Che vien da Giove; e sì gran lume rende,
     Che s’e’ ponesse à la sua luce il velo,
     Faria steril la terra, oscuro il cielo.

Non potè più patir quell’altro altiero
     Figliuol di Giove, e d’Inaco nepote,
     E disse à lui tutto alterato, e fiero
     Con queste acerbe, et orgogliose note.
     Come sai tu di questa historia il vero?
     Chi far del tuo parlar fede ci puote?
     Qual ragion, qual certezza à dir ti move,
     Che tu sia figlio al Sol, nepote à Giove?

Io ben con gran ragion posso vantarmi
     D’esser nato di quel, che regge il tutto.
     E di questo fan fede i tempij, e i marmi,
     Che à la mia madre son sacri per tutto.
     Ma tu per qual segnal puoi dimostrarmi,
     Che tanto illustre Dio t’habbia produtto?
     E quando anchor di ciò dessi alcun segno,
     Ti terrei forse ugual, ma non più degno.

Tu mostri ben poco sano discorso,
     Poi che ogni cosa à la tua madre credi:
     Pon per l’innanzi à la tua lingua il morso,
     Fin che maggior chiarezza non ne vedi.
     Fetonte allhor così sbattuto, e morso
     Subito mosse i suoi veloci piedi,
     E ver la madre Climene andò ratto,
     Per ritrovar il ver di questo fatto.

[p. 12r modifica]

Tosto la madre sua trova Fetonte
     Spinto da quel pensier, ch’entro il consuma,
     E prima, che ’l suo obbrobrio le racconte,
     Più volte fra se stesso il volve, e rmua:
     Madre mia, disse poi, non ho più fronte
     Farmi figliuol di quel, che ’l mondo alluma,
     Poi che non posso indubitata fede
     Farne à ciascun, che ’l nega, e non me’l crede.

E quì le raccontò tutto l’oltraggio,
     Ch’intorno à questo gli era stato opposto,
     E che per non poter del suo lignaggio
     Dar segno alcun, non havea mai risposto.
     E s’ella à lui non ne dava alcun saggio,
     Saria sempre à tal biasimo sottoposto;
     E saria sempre astretto di star cheto,
     Per non poterlo ributtare indrieto.

Hor se gliè ver, che di stirpe celeste
     Dal gran pianeta, che distingue l’hore,
     Io tragga questa mia corporea veste,
     A cui l’alma dà legge in mezzo al core,
     Se felice Himeneo le nozze appreste
     De le sorelle tue con ogni honore,
     Dammi quei segni, che figliuol mi fanno
     Di chi col suo camin pon meta à l’anno.

Non sò chi ne la donna habbia più forza,
     O ’l priego di Fetonte, ò la grand’ira:
     Che l’un, e l’altro à risponder la sforza
     Quel, che ’l temprato suo furor l’inspira.
     O figliuol, disse, ogni sospetto ammorza,
     Che sopra ciò t’affligge, e ti martira;
     Ch’à l’esser tuo vital diede la luce
     Il gran rettor de la superna luce.

E distendendo al cielo ambe le braccia
     Per fuggir tanta infamia, e tanto scorno,
     Disse; Sei figlio à quella allegra faccia,
     Che con bel variar dà luce al giorno,
     A quel splendor, che le tenebre scaccia
     Per tutto, ove apparisce intorno intorno,
     A quel, ch’apporta à questa nostra sfera
     Estate, Autunno, Verno, e Primavera.

Ti cinse l’alma di corporee fasce
     Quel, c’hor le luci abbaglia ad ambedue,
     Quel Dio, che sempre muore, e sempre nasce,
     Quel, che surgendo à noi, tramonta altrui,
     Quel, che convien, che trasportar si lasce
     Contra il suo fin da chi può più di lui.
     E se di quel bel Sol figliuol non sei,
     S’oscuri hoggi per sempre à gli occhi miei.

Ma, perche meglio in questo ti contenti,
     È ben, che da lui proprio te ne vadi,
     E che ’l tuo desiderio gli appresenti
     Di quel segnal, che par, che sì t’aggradi,
     Pur, che ’l lungo camin non ti spaventi,
     Che si scosta da noi novanta gradi.
     Fetonte à ciò s’attien con buon coraggio,
     E stima poco un sì lungo viaggio.

Ver l’orto Hiberno si drizza Fetonte,
     E va sì ratto, che par, c’habbia l’ale.
     L’Orsa, quanto ei più va, più par, che smonte,
     E le restin da scender manco scale.
     Vide ambi i Poli star ne l’Orizonte,
     Quand’egli entrò ne l’Equinottiale:
     E quindi andò contra la Zona ardente
     A la corte del padre in Oriente.

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ANNOTATIONI DEL PRIMO LIBRO.

SEGUENDO Ovidio l’opinione di Hesiodo, & di Euripide descrive nel principio di questo primo libro delle Metamorfosi, il Chaos che è quella prima materia; e quella prima confusione d’Elementi amassati insieme, dalla quale si spicca per opra del grand’Iddio questa bella distinta, e vaghissima faccia di mondo; legiadramente espressa da l’Anguillara, nella stanza, Pria che ’l Ciel fosse il mar, la terra e ’l foco; e nelle due seguente, come si vede anchora felicissimamente spiegata la divisione de gli elementi, insieme con la discordia, e dapoi l’amicitia loro, le cinque Zone della Sfera, le due estreme, vicine a i poli aggiacciate, quella di mezzo arrida & arsa, come quella che sente il maggiore vigore de’l Sole; e le due temperate poste fra questa, e quelle.

Viene dopò alla maravigliosa creatione dell’huomo mostrando come il grande Iddio, non lo fece con la faccia volta all’ingiù, come tutti gli altri animali, di che haveva ripiena la terra; anzi volle che con la faccia alta mirasse verso il cielo; come solo atto alla contemplatione delle cose divine; e mezzo fra l’altezza d’Iddio: e la bassezza delle cose create, havendo egli solo portate le cose divine in terra; havendovi portata l’anima intellettiva veramente divina; e medesimamente anchora le terrene in cielo; come quando, per fede sostentata da buone opere, è degno di essere fatto membro celeste & con le membra terrene, salire all’eterna felicità de’l cielo.

[O che cosi Prometheo il componesse]

Narrano gli antichi che havendo Prometheo formato un’huomo di fango; Minerva rimase molto maravigliata di cosi bell’opera; e gli disse che chiedesse tutto quello che voleva dal cielo per dar perfettione all’opera sua che ne l’haverebbe compiacciuto. Le rispose Prometheo che non sapeva che chiederle non havendo vedute giamai in cielo, quelle cose che potevano in questo esserli giovevoli. L’inalzò Minerva all’hora, a vedere i beni del cielo; dove vide la sù, tutte le cose essere animate da fiamme di fuoco; per dare dunque l’anima alla sua fattura, prese una verga, & avicinolla secretamente alla rota del Sole, e havendola accesa riportò di quel fuoco in terra, & accostatolo al petto dell’huomo formato da lui, gli infuse l’anima; quivi s’assimigliarà a Prometheo, il Prencipe saggio, e prudente il quale salendo al cielo guidato dalla sapienza, ne riporta un perfetto ordine, delle leggi, della Religione, e delle buone e Sante institutioni, che sono l’anima del popolo suo rozzo, come quello che è formato di fango, riducendolo, a una vita quieta, civile, e riposata molto simile a quella dell’età dell’Oro finta cosi divinamente dal Poeta, come anchora trasportata felicemente dall’Anguillara.

Dopo l’età dell’Oro segueno quelle dell’Argento, del Metallo, e del Ferro, per le quali si può agevolmente conoscere, quanto gli huomini siano più inclinati ad allontanarse dalla virtù, che a farsele vicini; poi che andarono di mano in mano sdrucciolando, in ogni maniera de vicio; d’infelicità, e di miseria; e vennero a tanto che ’l Poeta dopò haverne descritta una gran parte; chiama le furie de ’l Regno di Plutone, a descriverne il rimanente come ritrovate da esse: vedendo che tutte le virtù ministre della felicità della prima età, erano fuggite al cielo per non vedere del continuo, le mal’opre de gli huomini insolenti, e viciosi, l’ultima delle qualità fù Astrea, a salirvi, che è la Giustizia.

Caduti gli huomini nella infelicità dell’età del ferro vennero i Giganti che mettendo monti sopra monti & l’un sopra l’altro, Olimpo Monte di Macedonia, & Pelio, & Ossa monti famosi in Thesaglia hebbero ardire di muovere guerra al Cielo; sdegnato Giove del loro folle ardire, spianando co’l suo tremendo folgore i monti, diede loro a un medesimo tempo morte, e sepoltura, i giganti non sono altro che i soperbi Tiranni; i quali con le loro forze deboli, e mortali pensano arrogamente di esser uguali a Dio immortale; & omnipotentissimo, onde fulminati poi dalla giustissima ira sua per vendetta rimangono spenti insieme con la superbia loro; la quale poi di nuovo ripigliando vigore fà insieme con la natura che del sangue putrefatto de gli infelici Giganti viene a gharmogliare una nuova gente, empia, scelerata, e via più crudele di ogn’altra contra Dio, e contra gli huomini. Che diremo che significhi questa nuova gente, se non che dalle radici della soperbia ne nascono tutte le empietà, e tutte le sceleragini? Onde sdegnato di nuovo Giove, così per le sceleragini, che usava Licaone, crudelissimo Tiranno di Arcadia, che invitava a mangiar seco, i forestieri gli uccideva, e da poi i faceva mangiare a quelli, che mangiavano con esso lui; come ancora per molte altre ingiurie ricevute da esso, havendo ragunato il Consiglio de gli Dei, deliberava di spegner il genere humano. Ove si ve[p. 13r modifica]de con quanta vaghezza habbia l’Anguillara trasportata nella nostra lingua in versi la descrittione, che fa Ovidio del Cielo, del luogo, dove si adunanvano a consiglio gli Dei del camino per andarvi; della proposta di Giove; e della narratione, che fa; e come poi scendendo in terra sotto forma humana non vi trovò che sceleragini violenze, & inganni; e come giunto alla casa di Licaone, non pur lo vide, che si faceva scherno della sua divinità, ma scoprì anchora, che haveva una maligna intentione di amazzarlo, come prima si fusse posto a dormire; onde havendo dato il fuoco alla casa sua l’abruggiò, e Licaone fuggendo, verso i boschi fù in quel punto trasformato in Lupo.

Parmi che, questa favola sia tolta da un’historia scritta da Leontio, la qual narra che essendo venuti a conventione di pace dopò una lunga guerra i Molossi, che sono genti di Epiro, hoggi di detta Albania, con gli Arcadi; detti Pelasgi de quali era Prencipe Licaone; al quale diedero gli Albanesi per ostaggio per un certo tempo un bellissimo, e nobilissimo giovane; passato il termine vedendo che Licaone, non lo rimandava loro, secondo le conventioni, mandorno a chiederlo per i loro Ambasciadori; sdegnato Licaone che glie l’havessero mandato cosi soperbamente a dimandare, come quello che era huomo crudelissimo, e pieno di ogni maniera di soperbia, e di sceleragine, fece ammazzare l’Ostaggio e havendo invitati gli Ambasciadori a desinare con esso lui; essendovi anchora Lisania Giovane apresso gli Arcadi di molto valore, che fù poi detto Giove, fece loro porte inanti per vivanda, le membra cotte dell’infelice giovane già Ostaggio. Vedute Lisania le membra humane, gettò furioso la mensa a terra, & adunati molti suoi amici, e fatti osi insieme, combatte con Licaone, e ’l vinse, fuggì l’huomo sceleratissimo con alcuni suoi, a i boschi, dove stando alla strada ammazzava, e rubava tutti quelli che gli davano nelle mani; il che fù cagione poi che ’l Poeta il descrivesse cangiato da Giove, in lupo; come sono cangiati anchora tutti i crudeli, e pieni di sete de ’l sangue altrui, che meritamente poi sono detti lupi per la simiglianza che hanno con detti animali. Ne per altro crederò che Plauto dicesse poi che l’huomo diveniva cosi contra l’altro huomo, essendo scelerato un lupo, come ancora essendo buono un Dio.

Risoluto Giove di spegnere il genere humano, confirmorono tutti gli Dei la sua sententia, anchora che contra loro voglia, perche perdevano i prieghi gli altari i voti, e gli odorosi sacrifici, che erano loro sovente fatti da gli huomini, volendo poi venir alla esecutione, non volle farlo co’l fuoco; de suoi folgori per timore che dopò che fusse da tanti fuochi abrusciata la terra, non s’apicassero le loro fiamme anchora nel cielo; e ne rimanesse medesimamente arso, e consumato; ma prese risolutione di farlo con l’aque; facendo venir, il diluvio universale; quivi si vede apertamente che Ovidio scrivendo queste sue trasformationi si servi de libri di Mose; overo lo scrisse spinto da una nascosta virtù della verità descrivendo così propriamente l’inondatione che spense l’humana generatione descritta da esso; e si come quello conservò dal diluvio la humana prole in Noe, e nella sua donna; cosi questo la conserva in Deucalione, e Pirrha; dove si vede quanto felicemente cosi il Poeta latino, come il volgare, descriva come Giove dopò havere riposti i suoi folgori nel monte Etna, comanda ad Eolo Re de’ Venti, che rinchiuda Borea, e gli altri venti nemici alle pioggie, e che dia libero corso all’Ostro humido, e piovoso, il quale palesando furiosamente le forze sue, spoglia gli arbori, & atterra l’herbi, e le biade, e come Nettuno persuade a tutti i fiumi che escano furiosi de i letti loro e ingombrino tutta la terra, rovinando palazzi, case, e capanne, e tutte quelle cose che possono impedire i corsi loro; e come gli huomini abandonando le proprie case fuggivano ne’ piu alti monti, per non essere colti dall’impeto dell’aque; bellissima digressione è quella dell’Anguillara come sono molte altre anchora che s’andaranno vedendo nelle sue rime che incomincia dalla stanza: Non vale all’huomo il suo sublime ingegno.

E la conversione alle Ninfe, e Dei del mare posta molto vagamente nella stanza, Ditemi havete voi frenato il pianto, come è anchora quella a gli Avari, & Ambitiosi, dopò che furono cessate l’aque del diluvio, in quella stanza: Voi che non mai con mille, e mille ingegni.

La favola di Deucalione e Pirrha i quali rimasero dopò il grandissimo diluvio, in vita è tolta da una historia antica che narra, come essendo coperta tutta la Grecia dall’aque del diluvio; Deucalione Re di Thesaglia sapientissimo con Pirrha sua mogliere raccolse tutti gli huomini che fuggendo l’aque, s’erano salvati; sopra i monti nel monte Parnaso, dove per mezzo della prudentia figurata per Themis figliuola del cielo, e della terra; li ridusse da quella loro primiera durezza di pietra; a una vita quieta, humana e civile, con le sante leggi, e con la religione.

Pithone spaventevole serpente ammazzato dallo strale di Apollo, è allegoricamente il sover[p. 13v modifica]chio humore rimaso sopra la terra dopò l’inondatione dell’aqua, il quale corrompeva gli huomini, infermavagli e gli uccideva, che fu poi spento da i raggi del Sole che sono le saette d’Apollo, e fù ridotta la terra in una frutifera purità, che nel soverchio humore, nella soverchia arridezza la rendeva sterile, e poco atta a produre i frutti che sostentano la vita nostra. Che dall’humido percosso da i raggi del Sole se ne vedano uscire dalla terra diversi animali se ne ha l’essempio chiaro del Nilo fiume d’Egitto il quale innondando quel paese che di raro sente la benignità dell’aque che piovono, il rende fertilissimo; onde quando ritornano le sue aque a i letti loro, perche entrano per sette Foci nel mare dicesi che quella humidità che rimane sopra la terra, riscaldata da i potenti raggi del Sole produce diverse sorte d’animali come Crocodilli, & altri che talhora si vegono rimaner’imperfetti.

Aquistossi Apollo dopò haver ispento il nocevole Pithone, il nome di Pithio, e diedelo anchora ad alcuni giochi, che si facevano a gara nel correre, saltare e far alla lota; e i vincitori ne riportavano in segno della vittoria corone di frondi de Quercia arbore all’hora grato a Febo, come quello che non era anchora acceso dell’amore di Daphne, ne preso per suo il lauro tanto bramato e da gli Imperatori, e da i Poeti come insegna de i loro perpetui honori.

La contentione del tirare dell’archo tra Febo, e Cupido, non è altro che quella che è fra utile & il dilettevole nel mondo le saette di Febo che sono i suoi raggi, sono utilissime perche giovano a gli animali, al produrre della terra, & a’ frutti e quelle di Cupido, sono soavissime e tanto che offuscano con grandissima forza l’intelletto, e la ragione all’huomo; onde per far conoscere meglio Cupido quanto le ferite de’ suoi strali fussero maggiori e più profonde; impiegò il core dell’istesso Apollo con una saetta d’oro, la virtù della quale fu di spingerlo ad amare ardentemente come anchora ferì il core di Daphne d’una di piombo che per la sua frigidità fa contrario effetto rendendoci il piombo tardi, & pigri ne i piaceri amorosi.

Daphne cangiata in Lauro alle sponde del fiume Peneo, il quale scorre per la valle Tempe amenissima selva nella Emonia è detta vagamente questa trasformatione per seere quella valle piena de Lauri; che la fusse poi cangiata in quest’arbore fuggendo i piaceri amorosi di Apollo si può vedere la sua vaghezza per la simiglianza che hà quest’arbore con la castità, la quale vuole esser perpetua come è perpetuo il verde del Lauro; e stridere e far resistenza alle fiamme d’amore come stridono, e resisteno le sue foglie e i suoi rami gettati sopra ’l fuoco; alcuni hanno voluto poi dire che Ovidio finse questa favola in piacere di Augusto figurandolo cosi per Apollo, come Livia per Daphne. Chiamasi il Lauro poi arbore di Apollo che è Dio degli Oracoli, e dell’indovinare per essere le sue frondi atte a far indovinare in sogno, poste sotto il capo de chi vuole quando va a dormire.

Che diremo che significhi la favola di Io amata cinta di tenbre e corotta da Giove, e poi trasformata in una vacca? se non l’humido vitale de ’l senso dell’huomo; amato dal Sole, che desidera operare in lui; però nel ventre della madre lo circonda di nua folta nebbia, per conservarlo; la quale nebbia è sgombrata da Giunone, figurata quivi per la luna, come quella alla quale s’aspetta come Dea de i parti, agrandire, i meati de corpi, e condurli in luce; è questo humido cangiato in vacca, quando è fatto animale; e che hà questa simiglianza con la vacca, che si come ella è animale fruttifero e faticoso, cosi l’huomo volendo conversare fra gli huomini fà bisogno che renda frutti; e sia faticoso, essendo cosi nato alla fatica come l’uccello al volo; e dato l’huomo divenuto animale in guardia ad Argo, che è la ragione la quale vede con molti occhi che dapoi adormentata da Mercurio, che non è altro che la delettatione de gli oggetti propinqui, vien’ammazzata da esso, e gli occhi suoi che prima non vedevano che cose diritte, e giuste, si voltano posti nella coda del pavone di Giunone, il quale non è altro, che ’l soverchio desiderio delle ricchezze, de gli honori, e delle basse e imperfette bellezze di qua giù, a mirarle con vana strabocchevole e dannosa affettione.

La favola di Pan, e di Siringa è assai nota perche questa voce Pan nella lingua greca significa il tutto, si dirà dunque che la natura che è il tutto figurata per Pan, rimane vinta dall’amore quando ama come fa, le cose prodotte da essa; e Siringa amata da Pan, serà quel concetto, e quell’armonia soavissima de i motti delle sfere amata molto da essa natura; come quelli che sono guidati con tanto ordine, e con tanta maestria a un fine determinato, che non è altro che ’l fiume Ladone. Hanno gli Antichi e fra gli altri Vergilio, voluto descrivere la maravigliosa, e misteriosa figura di Pan dicendo prima che à le corne fisse nella fronte, che mirano verso il Cielo, la barba lunga che gli pende giù, per il petto; con una pele distinta a macchie che lo copre in luogo di este, chiamata da gli antichi Nebride, che porta in una mano un bastone; e nell’altra un’instrumento Musicale con sette canne; ha poi le mem[p. 14r modifica]bra più basse hispide, e pelose con i piedi di capra; & hanno con questa descrittione velato il misterio che le corna significhino la Luna, che rinasce con la faccia rossa, essendo egli figurato per il Sole la lunga barba che gli pende dal mento, siano i raggi di esso Sole. La pele distinta a macchie, l’ornamento, è la vaghezza che deriva dalla sua luce, il bastone poi la dispositione, e l’ordine delle cose; l’instrumento poi figura l’harmonia de i cieli; conosciuta per il motto del Sole.

Che significhi poi che Siringa spreggiasse l’amore de i Satiri? si può dire, che significa, che la musica fù sempre poco amata da gli huomini rozzi e l’instrumento, co’l suono del quale adormentò Mercurio gli occhi della ragione, fù l’istesso de Pan, che con la sua dolcezza ci adormenta di maniera che rimanemo morti quanto all’alta, e divina consideratione delle maravigliose opere del creatore; come quelli che andiamo perduti, nella delettatione delle cose create. Giunone vedendo morto il suo Guardiano, e la vacca libera da Argos è l’huomo libero dalla ragione; e che Giunone sdegnata poi come desiderosa di farne vendetta, l’ingombra di maligni spiriti, che giamai non lo lasciano riposare; ma sempre solecitato, e infuriato, da essi va scorrendo tutto il mondo, spinto da ’l soverchio desiderio delle ricchezze, da i piaceri, dall’ambitione, e da tutte quelle sfrenate passioni che lo tormentano; al fine gionge in Egitto che è le tenebre della morte, dove diviene Isis che significa la terra, perche tutti al fine divenimo terra: ripigliando la prima figura de’l primo huomo, che non fù altro che terra.

La contentione poi di nobiltà fra Phetonte che vien’ a dir’ incendio, & Epapho figliuolo di Iside che è la terra, non è altro che la discordia che è fra l’elemento del fuoco e quello della terra; sostenuta in quella maggiore ugualità che si può per benignità della natura dall’aere, e dell’aqua; perche tutta volta che vede l’aqua che le forze de i raggi del Sole sono per farse maggiori; per il suo giro come padre del fuoco qua giù e di maniera che infiammi l’aere, s’affatica con le pioggie della prima vera e con quella dell’autunno far de modo che la terra senti manco danno dall’ardore de’ suoi raggi che sia possibile quando s’alza piu ver noi, e se l’havrà sentito grave nella maggior furia del cane ne sia ristorata come prima cominciara il sole à passar vicino alla libra, & a lo Scorpione; medesimamente quando la terra è soverchiata dall’aqua, de modo che rimarrebbe per la soverchia humidità sterile, e senza frutto, fa l’aere sgombrando i nuvoli, e le nebbie e lasciando che i raggi del sole penetrino fin’alle parti nascose, asciugando l’humore soverchio, e riducendola atta a produrre i frutti; che Phetonte andasse poi a ritrovare Apollo suo padre significa che ogni ardore sparso e diviso in molte parti al fine si riduce al suo padre; che non è altro che ’l Sole.