Catone in Utica/Atto secondo

Atto secondo

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Atto primo Atto terzo

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ATTO SECONDO

SCENA I

Alloggiamenti militari sulle rive del fiume Bagrada, con varie isole che comunicano fra loro per diversi ponti.

Catone con séguito, poi Marzia, indi Arbace.

Catone. Romani, il vostro duce,
se mai sperò da voi prove di fede,
oggi da voi le spera, oggi le chiede.
Marzia. Nelle nuove difese,
che la tua cura aggiunge, io veggio, o padre,
segni di guerra; e pur sperai vicina
la sospirata pace.
Catone. In mezzo all’armi
non v’è cura che basti. Il solo aspetto
di Cesare seduce i miei piú fidi.
Arbace. Signor, giá de’ numidi
giunser le schiere: eccoti un nuovo pegno
della mia fedeltá.
Catone. Non basta, Arbace,
per togliermi i sospetti.
Arbace. Oh dèi! Tu credi...
Catone. Sí, poca fede in te. Perché mi taci
chi a differir t’induca
il richiesto imeneo? Perché ti cangi
quando Cesare arriva?
Arbace. Ah, Marzia! al padre
ricorda la mia fé. Vedi a qual segno
giunge la mia sventura.

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Marzia. E qual soccorso
darti poss’io?
Arbace. Tu mi consiglia almeno.
Marzia. Consiglio a me si chiede?
Servi al dovere e non mancar di fede.
Arbace. (Che crudeltá!)
Catone. (ad Arbace) Giá il suo consiglio udisti.
Or che risolvi?
Arbace. Ah! se fui degno mai
dell’amor tuo, soffri l’indugio. Io giuro
per quanto ho di piú caro,
ch’è l’onor mio, ch’io ti sarò fedele.
Il domandarti alfine
che l’imeneo nel nuovo dí succeda,
sí gran colpa non è.
Catone. Via, si conceda:
ma dentro a queste mura,
finché sposo di lei te non rimiro,
Cesare non ritorni.
Marzia. (Oh dèi!)
Arbace. (Respiro.)
Marzia. Ma questo a noi che giova? (a Catone)
Catone. In simil guisa
d’entrambi io m’assicuro. Impegna Arbace
con obbligo maggior la propria fede;
e Cesare, se il vede
piú stretto a noi, non può di lui fidarsi.
Marzia. E dovrá dilungarsi
per sí lieve cagione affar sí grande?
Arbace. Marzia, sia con tua pace,
ti opponi a torto. Al tuo riposo e al mio
saggiamente ei provvide.
Marzia. E tu sí franco
soffri che a tuo riguardo
un rimedio si scelga, anche dannoso
forse alla pace altrui? Né ti sovviene

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a chi manchi, se vanno
le speranze di tanti in abbandono?
Arbace. Servo al dovere, e mancator non sono.
Catone. Marzia, t’accheta. Al nuovo giorno, o prence,
sieguan le nozze, io tel consento: intanto
ad impedir di Cesare il ritorno
mi porto in questo punto.
Marzia. (Dèi! che farò?)

SCENA II

Fulvio e detti.

Fulvio. Signor, Cesare è giunto.
Marzia. (Torno a sperar.)
Catone. Dov’è?
Fulvio. D’Utica appena
entrò le mura.
Arbace. (Io son di nuovo in pena.)
Catone. Vanne, Fulvio; al suo campo
digli che rieda. In questo dí non voglio
trattar di pace.
Fulvio. E perché mai?
Catone. Non rendo
ragione altrui dell’opre mie.
Fulvio. Ma questo,
in ogni altro che in te, mancar saria
alla pubblica fede.
Catone. Mancò Cesare prima. Al suo ritorno
l’ora prefissa è scorsa.
Fulvio. E tanto esatto
i momenti misuri?
Catone. Altre cagioni
vi sono ancora.
Fulvio. E qual cagion? Due volte
Cesare in un sol giorno a te sen viene,

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e due volte è deluso.
Qual disprezzo è mai questo? Alfin dal volgo
non si distingue Cesare sí poco,
che sia lecito altrui prenderlo a gioco.
Catone. Fulvio, ammiro il tuo zelo: invero è grande.
Ma un buon roman si accenderebbe meno
a favor d’un tiranno.
Fulvio. Un buon romano
difende il giusto; un buon roman si adopra
per la pubblica pace, e voi dovreste
mostrarvi a me piú grati. A voi la pace
piú che ad altri bisogna.
Catone. Ove son io,
pria della pace e dell’istessa vita,
si cerca libertá.
Fulvio. Chi a voi la toglie?
Catone. Non piú. Da queste soglie
Cesare parta. Io farò noto a lui
quando giovi ascoltarlo.
Fulvio. Invan lo speri.
Sí gran torto non soffro.
Catone. E che farai?
Fulvio. Il mio dover.
Catone. Ma tu chi sei?
Fulvio. Son io
il legato di Roma.
Catone. E ben di Roma
parta il legato.
Fulvio. Sí, ma leggi pria
che contien questo foglio, e chi l’invia.
(Fulvio dá a Catone un foglio)
Arbace. (Marzia, perché sí mesta?
Marzia. Eh! non scherzar, ché da sperar mi resta.)
(Catone apre il foglio e legge)
Catone. «Il senato a Catone. È nostra mente
render la pace al mondo. Ognun di noi,

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i consoli, i tribuni, il popol tutto,
Cesare istesso il dittator la vuole.
Servi al pubblico voto; e, se ti opponi
a cosí giusta brama,
suo nemico la patria oggi ti chiama».
Fulvio. (Che dirá?)
Catone. Perché tanto
celarmi il foglio?
Fulvio. Era rispetto.
Marzia. (Arbace,
perché mesto cosí?
Arbace. Lasciami in pace.)
Catone. «È nostra mente»!... «Il dittator la vuole»!...
(rileggendo da sé)
«Servi al pubblico voto»!...
«Suo nemico la patria»!... E cosí scrive
Roma a Catone?
Fulvio. Appunto.
Catone. Io di pensiero
dovrò dunque cangiarmi?
Fulvio. Un tal comando
improvviso ti giunge.
Catone. È ver. Tu vanne,
e a Cesare...
Fulvio. Dirò che qui l’attendi;
che ormai piú non soggiorni...
Catone. No; gli dirai che parta e piú non torni.
Fulvio. Ma come!
Marzia. (Oh ciel!)
Fulvio. Cosí...
Catone. Cosí mi cangio;
cosí servo a un tal cenno.
Fulvio. E il foglio...
Catone. È un foglio infame,
che concepí, che scrisse
non la ragion, ma la viltade altrui.

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Fulvio. E il senato...
Catone. Il senato
non è piú quel di pria; di schiavi è fatto
un vilissimo gregge.
Fulvio. E Roma...
Catone. E Roma
non sta fra quelle mura. Ella è per tutto,
dove ancor non è spento
di gloria e libertá l’amor natio;
son Roma i fidi miei, Roma son io.
               Va’, ritorna al tuo tiranno,
          servi pure al tuo sovrano;
          ma non dir che sei romano,
          finché vivi in servitú.
               Se al tuo cor non reca affanno
          d’un vil giogo ancor lo scorno,
          vergognar faratti un giorno
          qualche resto di virtú. (parte)

SCENA III

Marzia, Arbace e Fulvio.

Fulvio. A tanto eccesso arriva
l’orgoglio di Catone!
Marzia. Ah! Fulvio, e ancora
non conosci il suo zelo? Ei crede...
Fulvio. Ei creda
pur ciò che vuol. Conoscerá fra poco
se di romano il nome
degnamente conservo,
e se a Cesare sono amico o servo. (parte)
Arbace. Marzia, posso una volta
sperar pietá?
Marzia. Dagli occhi miei t’invola;
non aggiungermi affanni
colla presenza tua.

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Arbace. Dunque il servirti
è demerito in me? Cosí geloso
eseguisco e nascondo un tuo comando;
e tu...
Marzia. Ma fino a quando
la noia ho da soffrir di questi tuoi
rimproveri importuni? Io ti disciolgo
d’ogni promessa; in libertá ti pongo
di far quanto a te piace.
Di’ ciò che vuoi, purché mi lasci in pace.
Arbace. E acconsenti ch’io possa
libero favellar?
Marzia. Tutto acconsento,
purché le tue querele
piú non abbia a soffrir.
Arbace. Marzia crudele!
Marzia. Chi a tollerar ti sforza
questa mia crudeltá? Di che ti lagni?
Perché non cerchi altrove
chi pietosa t’accolga? Io tel consiglio.
Vanne; il tuo merto è grande, e mille in seno
amabili sembianze Africa aduna:
contenderanno a gara
l’acquisto del tuo cor. Di me ti scorda:
ti vendica cosí.
Arbace. Giusto saria;
ma chi tutto può far quel che desia?
               So che pietá non hai,
          e pur ti deggio amar,
          dove apprendesti mai
          l’arte d’innamorar,
          quando m’offendi?
               Se compatir non sai,
          se amor non vive in te,
          perché, crudel, perché
          così m’accendi? (parte)

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SCENA IV

Marzia, poi Emilia, indi Cesare.

Marzia. E qual sorte è la mia! Di pena in pena,
di timore in timor passo, e non provo
un momento di pace.
Emilia. Alfin partito
è Cesare da noi. So giá che invano
in difesa di lui
Marzia e Fulvio sudò; ma giovò poco
e di Fulvio e di Marzia
a Cesare il favor. Come sofferse
quell’eroe sí gran torto?
Che disse? Che fará? Tu lo saprai,
tu che sei tanto alla sua gloria amica.
Marzia. Ecco Cesare istesso: egli tel dica.
(vedendo venir Cesare)
Emilia. Che veggo!
Cesare. A tanto eccesso
giunse Catone! E qual dover, qual legge
può render mai la sua ferocia doma?
È il senato un vil gregge!
È Cesare un tiranno! Ei solo è Roma!
Emilia. E disse il vero.
Cesare. Ah! questo è troppo. Ei vuole
che sian l’armi e la sorte
giudici fra di noi? Saranno. Ei brama
che al mio campo mi renda?
Io vo. Di’ che m’aspetti e si difenda.
(in atto di partire)
Marzia. Deh! ti placa. Il tuo sdegno in parte è giusto,
il veggo anch’io; ma il padre
a ragion dubitò. De’ suoi sospetti
mi è nota la cagion; tutto saprai.
Emilia. (Numi, che ascolto!)

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SCENA V

Fulvio e detti.

Fulvio. Ormai
consolati, signor; la tua fortuna
degna è d’invidia. Ad ascoltarti alfine
scende Catone. Io di favor sí grande
la novella ti reco.
Emilia. (Ancor costui
mi lusinga e m’inganna.)
Cesare. E cosí presto
si cangiò di pensiero?
Fulvio. Anzi il suo pregio
è l’animo ostinato.
Ma il popolo adunato,
i compagni, gli amici, Utica intera,
desiosa di pace, a forza ha svelto
il consenso da lui. Da’ prieghi astretto,
non persuaso, ei con sdegnosi accenti
aspramente assentí, quasi da lui
tu dipendessi e la comun speranza.
Cesare. Che fiero cor! Che indomita costanza!
Emilia. (E tanto ho da soffrir?)
Marzia. (a Cesare) Signor, tu pensi?
Una privata offesa, ah! non seduca
il tuo gran cor. Vanne a Catone, e insieme,
fatti amici, serbate
tanto sangue latino. Al mondo intero
del turbato riposo
sei debitor. Tu non rispondi? Almeno
guardami; io son che priego.
Cesare. Ah! Marzia...
Marzia. Io dunque
a moverti a pietá non son bastante?

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Emilia. (Piú dubitar non posso: è Marzia amante.)
Fulvio. Eh! che non è piú tempo
che si parli di pace. A vendicarci
andiam coll’armi: il rimaner che giova?
Cesare. No: facciam del suo cor l’ultima prova.
Fulvio. Come!
Marzia. (Respiro.)
Emilia. Or vanta,
vile che sei, quel tuo gran cor. Ritorna
supplice a chi t’offende, e fingi a noi
che è rispetto il timor.
Cesare. Chi può gli oltraggi
vendicar con un cenno, e si raffrena,
vile non è. Marzia, di nuovo al padre
vuo’ chieder pace, e soffrirò fin tanto
ch’io perda di placarlo ogni speranza.
Ma, se tanto s’avanza
l’orgoglio in lui che non si pieghi, allora
non so dirti a qual segno
giunger potrebbe un trattenuto sdegno.
               Soffre talor del vento
          i primi insulti il mare,
          né a cento legni e cento,
          che van per l’onde chiare,
          intorbida il sentier.
               Ma poi, se il vento abbonda,
          il mar s’innalza e freme;
          e, colle navi, affonda
          tutta la ricca speme
          dell’avido nocchier. (parte)

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SCENA VI

Marzia, Emilia e Fulvio.

Emilia. Lode agli dèi! La fuggitiva speme
a Marzia in sen giá ritornar si vede.
Fulvio. Ne fa sicura fede
la gioia a noi, che le traspare in volto.
Marzia. Noi niego, Emilia. È stolto
chi non sente piacer, quando, placato
l’altrui genio guerriero,
può sperar la sua pace il mondo intero.
Emilia. Nobil pensier, se i pubblici riposi
di tutti i voti tuoi sono gli oggetti.
Ma spesso avvien che questi
siano illustri pretesti,
ond’altri asconda i suoi privati affetti.
Marzia. Credi ciò che a te piace: io spero intanto;
e alla speranza mia
l’alma si fida, e i suoi timori obblia.
Emilia. Or va’, di’ che non ami. Assai ti accusa
l’esser credula tanto: è degli amanti
questo il costume. Io non m’inganno; e pure
la tua lusinga è vana,
e sei da quel che speri assai lontana.
               Marzia. In che ti offende,
          se l’alma spera,
          se amor l’accende,
          se odiar non sa?
          Perché spietata
          pur mi vuoi togliere
          questa sognata
          felicitá?
               Tu dell’amore
          lascia al cor mio,

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          come al tuo core
          lascio ancor io
          tutta dell’odio,
          la libertá. (parte)

SCENA VII

Emilia e Fulvio.

Fulvio. Tu vedi, o bella Emilia,
che mia colpa non è, s’oggi di pace
si ritorna a parlar.
Emilia. (Fingiamo.) Assai
Fulvio conosco, e quanto oprasti intesi.
So però con qual zelo
porgesti il foglio, e come
a favor del tiranno
ragionasti a Catone. Io di tua fede
non sospetto perciò. L’arte ravviso
che per giovarmi usasti. Era il tuo fine,
cred’io, d’aggiunger foco al loro sdegno.
Non è cosí?
Fulvio. Puoi dubitarne?
Emilia. (Indegno!)
Fulvio. Ora che pensi?
Emilia. A vendicarmi.
Fulvio. E come?
Emilia. Meditai, ma non scelsi.
Fulvio. Al braccio mio
tu promettesti, il sai, l’onor del colpo.
Emilia. E a chi fidar poss’io
meglio la mia vendetta?
Fulvio. Io ti assicuro
che mancar non saprò.
Emilia. Vedo che senti
delle sventure mie tutto l’affanno.

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Fulvio. (Salvo un eroe cosí.)
Emilia. (Cosí l’inganno.)
               Per te spero e per te solo
          mi lusingo, mi consolo:
          la tua fé, l’amore io vedo.
          (Ma non credo a un traditor.)
               D’appagar lo sdegno mio
          il desio ti leggo in viso.
          (Ma ravviso infido il cor.) (parte)

SCENA VIII

Fulvio.

Oh dèi, tutta se stessa
a me confida Emilia, ed io l’inganno!
Ah! perdona, mio bene,
questa frode innocente: al tuo nemico
io troppo deggio. È in te virtú lo sdegno:
sarebbe colpa in me. Per mia sventura,
se appago il tuo desio,
l’amicizia tradisco e l’onor mio.
               Nascesti alle pene,
          mio povero core:
          amar ti conviene
          chi, tutta rigore,
          per farti contento
          ti vuole infedel.
               Di’ pur che la sorte
          è troppo severa.
          Ma soffri, ma spera,
          ma fino alla morte
          in ogni tormento
          ti serba fedel. (parte)

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SCENA IX

Camera con sedie.

Catone e Marzia.

Catone. Si vuole ad onta mia
che Cesare s’ascolti!
L’ascolterò. Ma in faccia
agli uomini ed ai numi io mi protesto
che da tutti costretto
mi riduco a soffrirlo; e, con mio affanno,
debole io son per non parer tiranno.
Marzia. Oh, di quante speranze
questo giorno è cagion! Da due sí grandi
arbitri della terra
incerto il mondo e curioso pende;
e da voi pace o guerra,
o servitude o libertade attende.
Catone. Inutil cura.
Marzia. (guardando dentro alla scena) Or viene
Cesare a te.
Catone. Lasciami seco.
Marzia. (O dèi,
per pietá secondate i voti miei!) (parte)

SCENA X

Cesare e detto.

Catone. Cesare, a me son troppo
preziosi i momenti, e qui non voglio
perderli in ascoltarti.
O stringi tutto in poche note, o parti. (siede)

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Cesare. T’appagherò. (Come m’accoglie!) (siede) Il primo
de’ miei desiri è il renderti sicuro
che il tuo cor generoso,
che la costanza tua...
Catone. Cangia favella,
se pur vuoi che t’ascolti. Io so che questa
artifiziosa lode è in te fallace;
e, vera ancor, da’ labbri tuoi mi spiace.
Cesare. (Sempre è l’istesso.) Ad ogni costo io voglio
pace con te. Tu scegli i patti; io sono
ad accettarli accinto,
come faria col vincitore il vinto.
(Or che dirá?)
Catone. Tanto offerisci?
Cesare. E tanto
adempirò, ché dubitar non posso
d’un’ingiusta richiesta.
Catone. Giustissima sará. Lascia dell’armi
l’usurpato comando, il grado eccelso
di dittator deponi, e come reo
rendi in carcere angusto
alla patria ragion de’ tuoi misfatti.
Questi, se pace vuoi, saranno i patti.
Cesare. Ed io dovrei...
Catone. Di rimanere oppresso
non dubitar, ché allora
sarò tuo difensore.
Cesare. (E soffro ancora!)
Tu sol non basti. Io so quanti nemici
con gli eventi felici
m’irritò la mia sorte; onde potrei
i giorni miei sagrificare invano.
Catone. Ami tanto la vita, e sei romano?
In piú felice etade agli avi nostri
non fu cara cosí. Curzio rammenta,
Decio rimira a mille squadre a fronte,

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vedi Scevola all’ara, Orazio al ponte,
e di Cremera all’acque,
di sangue e di sudor bagnati e tinti,
trecento Fabi in un sol giorno estinti.
Cesare. Se allor giovò di questi,
nuocerebbe alla patria or la mia morte.
Catone. Per qual ragione?
Cesare. È necessario a Roma
che un sol comandi.
Catone. È necessario a lei
ch’egualmente ciascun comandi e serva.
Cesare. E la pubblica cura
tu credi piú sicura in mano a tanti,
discordi negli affetti e ne’ pareri?
Meglio il voler d’un solo
regola sempre altrui. Solo fra’ numi
Giove il tutto dal ciel governa e move.
Catone. Dov’è costui che rassomigli a Giove?
Io non lo veggo; e, se vi fosse ancora,
diverrebbe tiranno in un momento.
Cesare. Chi non ne soffre un sol, ne soffre cento.
Catone. Cosí parla un nemico
della patria e del giusto. Intesi assai:
basta cosí. (s’alza)
Cesare. Ferma, Catone.
Catone. È vano
quanto puoi dirmi.
Cesare. Un sol momento aspetta:
altre offerte io farò.
Catone. Parla, e t’affretta. (torna a sedere)
Cesare. (Quanto sopporto!) Il combattuto acquisto
dell’impero del mondo, il tardo frutto
de’ miei sudori e de’ perigli miei,
se meco in pace sei,
dividerò con te.
Catone. Sí, perché poi

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diviso ancor fra noi
di tante colpe tue fosse il rossore.
E di viltá Catone,
temerario! cosí tentando vai?
Posso ascoltar di piú!
Cesare. (Son stanco ormai.)
Troppo cieco ti rende
l’odio per me: meglio rifletti. Io molto
finor t’offersi, e voglio
offrirti piú. Perché fra noi sicura
rimanga l’amistá, darò di sposo
la destra a Marzia.
Catone. Alla mia figlia?
Cesare. A lei.
Catone. Ah! prima degli dèi
piombi sopra di me tutto lo sdegno,
ch’io l’infame disegno
d’opprimer Roma ad approvar m’induca
con l’odioso nodo. Ombre onorate
de’ Bruti e de’ Virgini, oh come adesso
fremerete d’orror! Che audacia, oh numi!
E Catone l’ascolta?
E a proposte sí ree... (s’alzano)
Cesare. Taci una volta:
hai cimentato assai
la tolleranza mia. Che piú degg’io
soffrir da te? Per tuo riguardo il corso
trattengo a’ miei trionfi; io stesso vengo,
dell’onor tuo geloso, a chieder pace;
de’ miei sudati acquisti
ti voglio a parte; offro a tua figlia in dono
questa man vincitrice; a te cortese,
per cento offese e cento
rendo segni d’amor: né sei contento?
Che vorresti, che aspetti,
che pretendi da me? Se d’esser credi

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argine alla fortuna
di Cesare tu solo, invan lo speri.
Han principio dal ciel tutti gl’imperi.
Catone. Favorevoli agli empi
sempre non son gli dèi.
Cesare. Vedrem fra poco
colle nostr’armi altrove
chi favorisca il ciel. (in atto di partire)

SCENA XI

Marzia e detti.

Marzia. Cesare, e dove?
Cesare. Al campo.
Marzia. Oh Dio! t’arresta.
(a Catone) Questa è la pace? (a Cesare) È questa
l’amistá sospirata?
Cesare. Il padre accusa:
egli vuol guerra.
Marzia. Ah, genitor!
Catone. T’accheta:
di costui non parlar.
Marzia. Cesare...
Cesare. Ho troppo
tollerato finora.
Marzia. I prieghi d’una figlia... (a Catone)
Catone. Oggi son vani.
Marzia. D’una romana il pianto... (a Cesare)
Cesare. Oggi non giova.
Marzia. Ma qualcuno a pietade almen si mova.
Cesare. Per soverchia pietá quasi con lui
vile mi resi. Addio. (in atto di partire)
Marzia. Férmati.
Catone. Eh! lascia
che s’involi al mio sguardo.

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Marzia. Ah! no, placate
ormai l’ire ostinate. Assai di pianto
costano i vostri sdegni
alle spose latine. Assai di sangue
costano gli odii vostri all’infelice
popolo di Quirino. Ah, non si veda
su l’amico trafitto
piú incrudelir l’amico! Ah, non trionfi
del germano il germano! Ah, piú non cada
al figlio, che l’uccise, il padre accanto!
Basti alfín tanto sangue e tanto pianto.
Catone. Non basta a lui.
Cesare. Non basta a me? (a Catone) Se vuoi,
v’è tempo ancor. Pongo in obblio le offese,
le promesse rinnovo,
l’ire depongo, e la tua scelta attendo.
Chiedimi guerra o pace:
soddisfatto sarai.
Catone. Guerra, guerra mi piace.
Cesare. E guerra avrai.
               Se in campo armato
          vuoi cimentarmi,
          vieni, ché il fato
          fra l’ire e l’armi
          la gran contesa
          deciderá.
               Delle tue lagrime, (a Marzia)
          del tuo dolore
          accusa il barbaro
          tuo genitore;
          il cor di Cesare
          colpa non ha. (parte)

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SCENA XII

Catone e Marzia, indi Emilia.

Marzia. Ah! signor, che facesti? Ecco in periglio
la tua, la nostra vita.
Catone. Il viver mio
non sia tua cura. A te pensai: di padre
sento gli affetti. (vedendo venire Emilia) Emilia,
non v’è piú pace, e fra l’ardor dell’armi
mal sicure voi siete; onde alle navi
portate il piè. Sai che il german di Marzia
di quelle è duce; e in ogni evento avrete
pronto lo scampo almen.
Emilia. Qual via sicura
d’uscir da queste mura
cinte d’assedio?
Catone. In solitaria parte,
d’Iside al fonte appresso,
a me noto è l’ingresso
di sotterranea via. Ne cela il varco
de’ folti dumi e de’ pendenti rami
l’invecchiata licenza. All’acque un tempo
serví di strada; or dall’etá cangiata
offre asciutto il cammino
dall’offesa cittade al mar vicino.
Emilia. (Può giovarmi il saperlo.)
Marzia. Ed a chi fidi
la speme, o padre? È mal sicura, il sai,
la fé di Arbace: a ricusarmi ei giunse.
Catone. Ma nel cimento estremo
ricusarti non può. Di tanto eccesso
è incapace, il vedrai.
Marzia. Fará l’istesso.

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SCENA XIII

Arbace e detti.

Arbace. Signor, so che a momenti
pugnar si deve: imponi
che far degg’io. Senz’aspettar l’aurora,
ogn’ingiusto sospetto a render vano,
vengo sposo di Marzia. Ecco la mano.
(Mi vendico cosí.)
Catone. Nol dissi, o figlia?
Marzia. Temo, Arbace, ed ammiro
l’incostante tuo cor.
Arbace. D’ogni riguardo
disciolto io sono, e la ragion tu sai.
Marzia. (Ah, mi scopre!)
Arbace. A Catone
deggio un pegno di fede in tal periglio.
Catone. Che tardi? (a Marzia)
Emilia. (Che fará?)
Marzia. (Numi, consiglio!)
Emilia. Marzia, ti rasserena.
Marzia. Emilia, taci.
Arbace. Or mia sarai. (a Marzia)
Marzia. (Che pena!)
Catone. Piú non s’aspetti. A lei
porgi, Arbace, la destra.
Arbace. Eccola! In dono
il cor, la vita, il soglio
cosí presento a te.
Marzia. Va’! non ti voglio.
Arbace. Come!
Emilia. (Che ardir!)
Catone. Perché? (a Marzia)

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Marzia. Finger non giova;
tutto dirò. Mai non mi piacque Arbace;
mai nol soffersi, egli può dirlo. Ei chiese
il differir le nozze
per cenno mio. Sperai che alfin, piú saggio,
l’autoritá d’un padre
impegnar non volesse a far soggetti
i miei liberi affetti;
ma, giá che sazio ancora
non è di tormentarmi e vuol ridurmi
a un estremo periglio,
a un estremo rimedio anch’io m’appiglio.
Catone. Son fuor di me. Donde tant’odio e donde
tanta audacia in costei?
(ad Emilia e ad Arbace)
Emilia. Forse altro foco
l’accenderá.
Arbace. Cosí non fosse!
Catone. E quale
de’ contumaci amori
sará l’oggetto?
Arbace. Oh Dio!
Emilia. Chi sa?
Catone. Parlate.
Arbace. Il rispetto...
Emilia. Il decoro...
Marzia. Tacete: io lo dirò. Cesare adoro.
Catone. Cesare!
Marzia. Sí. Perdona,
amato genitor; di lui m’accesi
pria che fosse nemico: io non potei
sciogliermi piú. Qual è quel cor capace
d’amare e disamar, quando gli piace?
Catone. Che giungo ad ascoltar!
Marzia. Plácati, e pensa
che le colpe d’amor...

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Catone. Togliti, indegna!
togliti agli occhi miei.
Marzia. Padre...
Catone. Che padre!
D’una perfida figlia,
che ogni rispetto obblia, che in abbandono
mette il proprio dover, padre non sono.
Marzia. Ma che feci? Agli altari
forse i numi involai? Forse distrussi
con sacrilega fiamma il tempio a Giove?
Amo alfine un eroe, di cui superba
sopra i secoli tutti
va la presente etade; il cui valore
gli astri, la terra, il mar, gli uomini, i numi
favoriscono a gara: onde, se l’amo,
o che rea non son io,
o il fallo universale approva il mio.
Catone. Scellerata! il tuo sangue... (in atto di ferir Marzia)
Arbace. Ah! no, t’arresta.
Emilia. Che fai? (a Catone)
Arbace. Mia sposa è questa.
Catone. Ah, prence! Ah, ingrata!
Amare un mio nemico!
Vantarlo in faccia mia! Stelle spietate,
a quale affanno i giorni miei serbate!
               Dovea svenarti allora (a Marzia)
          che apristi al dí le ciglia.
          Dite: vedeste ancora (ad Emilia e ad Arbace)
          un padre ed una figlia,
          perfida al par di lei,
          misero al par di me?
               L’ira soffrir saprei
          d’ogni destin tiranno:
          a questo solo affanno
          costante il cor non è. (parte)

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SCENA XIV

Marzia, Emilia e Arbace.

Marzia. Sarete paghi alfin. (ad Arbace) Volesti al padre
vedermi in odio? Eccomi in odio. (ad Emilia) Avesti
desio di guerra? Eccoci in guerra. Or dite:
che bramate di piú?
Arbace. M’accusi a torto.
Tu mi togliesti, il sai,
la legge di tacere.
Emilia. Io non t’offendo,
se vendetta desio.
Marzia. Ma uniti intanto
contro me congiurate.
Ditelo: che vi feci, anime ingrate?
               So che godendo vai (ad Arbace)
          del duol che mi tormenta:
          ma lieto non sarai;
          ma non sarai contenta: (ad Emilia)
          voi penerete ancor.
               Nelle sventure estreme
          noi piangeremo insieme.
          Tu non avrai vendetta; (ad Emilia)
          tu non sperare amor. (ad Arbace e parte)

SCENA XV

Emilia e Arbace.

Emilia. Udisti, Arbace? Il credo appena. A tanto
giunge dunque in costei
un temerario amor? Ne vanta il foco;
te ricusa, me insulta e il padre offende.

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Arbace. Di colei che mi accende,
ah! non parlar cosí.
Emilia. Non hai rossore
di tanta debolezza? A tale oltraggio
resisti ancor?
Arbace. Che posso far? È ingrata,
è ingiusta, io lo conosco; e pur l’adoro;
e sempre piú si avanza
con la sua crudeltá la mia costanza.
               Emilia. Se sciogliere non vuoi
          dalle catene il cor,
          di chi lagnar ti puoi?
          Sei folle nell’amor,
          non sei costante.
               Ti piace il suo rigor,
          non cerchi libertá;
          l’istessa infedeltá
          ti rende amante. (parte)

SCENA XVI

Arbace.

L’ingiustizia, il disprezzo,
la tirannia, la crudeltá, lo sdegno
dell’ingrato mio ben senza lagnarmi
tollerare io saprei: tutte son pene
soffribili ad un cor. Ma su le labbra
della nemica mia sentire il nome
del felice rival, saper che l’ama,
udir che i pregi ella ne dica, e tanto
mostri per lui d’ardire:
questo, questo è penar, questo è morire!
               Che sia la gelosia
          un gelo in mezzo al foco,

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          è ver; ma questo è poco.
          È il piú crudel tormento
          d’un cor che s’innamora;
          e questo è poco ancora.
          Io nel mio cor lo sento,
          ma non lo so spiegar.
               Se non portasse amore
          affanno sí tiranno,
          qual è quel rozzo core,
          che non vorrebbe amar?