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atto secondo 207


Catone.  Togliti, indegna!
togliti agli occhi miei.
Marzia.  Padre...
Catone.  Che padre!
D’una perfida figlia,
che ogni rispetto obblia, che in abbandono
mette il proprio dover, padre non sono.
Marzia. Ma che feci? Agli altari
forse i numi involai? Forse distrussi
con sacrilega fiamma il tempio a Giove?
Amo alfine un eroe, di cui superba
sopra i secoli tutti
va la presente etade; il cui valore
gli astri, la terra, il mar, gli uomini, i numi
favoriscono a gara: onde, se l’amo,
o che rea non son io,
o il fallo universale approva il mio.
Catone. Scellerata! il tuo sangue... (in atto di ferir Marzia)
Arbace.  Ah! no, t’arresta.
Emilia. Che fai? (a Catone)
Arbace.  Mia sposa è questa.
Catone.  Ah, prence! Ah, ingrata!
Amare un mio nemico!
Vantarlo in faccia mia! Stelle spietate,
a quale affanno i giorni miei serbate!
               Dovea svenarti allora (a Marzia)
          che apristi al dí le ciglia.
          Dite: vedeste ancora (ad Emilia e ad Arbace)
          un padre ed una figlia,
          perfida al par di lei,
          misero al par di me?
               L’ira soffrir saprei
          d’ogni destin tiranno:
          a questo solo affanno
          costante il cor non è. (parte)