Catone in Utica/Atto primo

Atto primo

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ATTO PRIMO

SCENA I

Sala d’armi.

Catone, Marzia, Arbace.

Marzia. Perché sí mesto, o padre? Oppressa è Roma,
se giunge a vacillar la tua costanza.
Parla: al cor d’una figlia
la sventura maggiore
di tutte le sventure è il tuo dolore.
Arbace. Signor, che pensi? In quel silenzio appena
riconosco Catone. Ov’è lo sdegno
figlio di tua virtú? dov’è il coraggio?
dove l’anima intrepida e feroce?
Ah! se del tuo gran core
l’ardir primiero è in qualche parte estinto,
non v’è piú libertá, Cesare ha vinto.
Catone. Figlia, amico, non sempre
la mestizia, il silenzio
è segno di viltade; e agli occhi altrui
si confondon sovente
la prudenza e il timor. Se penso e taccio,
taccio e penso a ragion. Tutto ha sconvolto
di Cesare il furor. Per lui Farsaglia
è di sangue civil tepida ancora;
per lui piú non si adora
Roma, il senato, al di cui cenno un giorno
tremava il Parto, impallidia lo Scita;

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da barbara ferita
per lui sugli occhi al traditor d’Egitto
cadde Pompeo trafitto; e solo in queste
d’Utica anguste mura,
mal sicuro riparo,
trova alla sua ruina
la fuggitiva libertá latina.
Cesare abbiamo a fronte,
che d’assedio ne stringe; i nostri armati
pochi sono e mal fidi. In me ripone
la speme, che le avanza,
Roma, che geme al suo tiranno in braccio;
e chiedete ragion s’io penso e taccio?
Marzia. Ma non viene a momenti
Cesare a te?
Arbace.  Di favellarti ei chiede:
dunque pace vorrá.
Catone.  Sperate invano
che abbandoni una volta
il desio di regnar. Troppo gli costa,
per deporlo in un punto.
Marzia. Chi sa? Figlio è di Roma
Cesare ancor.
Catone.  Ma un dispietato figlio,
che serva la desia; ma un figlio ingrato,
che, per domarla appieno,
non sente orror nel lacerarle il seno.
Arbace. Tutta Roma non vinse
Cesare ancora. A superar gli resta
il riparo piú forte al suo furore.
Catone. E che gli resta mai?
Arbace.  Resta il tuo core.
Forse piú timoroso
verrá dinanzi al tuo severo ciglio,
che all’Asia tutta ed all’Europa armata:
e, se dal tuo consiglio

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regolati saranno, ultima speme
non sono i miei numidi. Hanno altre volte
sotto duce minor saputo anch’essi
all’aquile latine in questo suolo
mostrar la fronte e trattenere il volo.
Catone. M’è noto; e il piú nascondi,
tacendo il tuo valor, l’anima grande,
a cui, fuorché la sorte
d’esser figlia di Roma, altro non manca.
Arbace. Deh! tu, signor, correggi
questa colpa non mia. La tua virtude
nel sen di Marzia io da gran tempo adoro.
Nuovo legame aggiungi
alla nostra amistá; soffri ch’io porga
di sposo a lei la mano:
non mi sdegni la figlia, e son romano.
Marzia. Come! Allor che paventa
la nostra libertá l’ultimo fato,
che a’ nostri danni armato
arde il mondo di bellici furori,
parla Arbace di nozze e chiede amori?
Catone. Deggion le nozze, o figlia,
piú al pubblico riposo
che alla scelta servir del genio altrui.
Con tal cambio d’affetti
si meschiano le cure. Ognun difende
parte di sé nell’altro; onde, muniti
di nodo sí tenace,
crescon gl’imperi e stanno i regni in pace.
Arbace. Felice me, se approva
al par di te con men turbate ciglia
Marzia gli affetti miei!
Catone.  Marzia è mia figlia.
Marzia. Perché tua figlia io sono e son romana,
custodisco gelosa
le ragioni, il decoro

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della patria e del sangue. E tu vorrai
che la tua prole istessa, una che nacque
cittadina di Roma e fu nudrita
all’aura trionfal del Campidoglio,
scenda al nodo d’un re?
Arbace.  (Che bell’orgoglio!)
Catone. Come cangia la sorte,
si cangiano i costumi. In ogni tempo
tanto fasto non giova: e a te non lice
esaminar la volontá del padre.
Principe, non temer: fra poco avrai
Marzia tua sposa. In queste braccia intanto
 (Catone abbraccia Arbace)
del mio paterno amore
prendi il pegno primiero, e ti rammenta
ch’oggi Roma è tua patria. Il tuo dovere,
or che romano sei,
è di salvarla o di cader con lei.
               Con sí bel nome in fronte,
          combatterai piú forte;
          rispetterá la sorte
          di Roma un figlio in te.
               Libero vivi; e, quando
          tel nieghi il fato ancora,
          almen come si mora
          apprenderai da me. (parte)

SCENA II

Marzia e Arbace.

Arbace. Poveri affetti miei,
se non sanno impetrar dal tuo bel core
pietá, se non amore!
Marzia. M’ami, Arbace?

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Arbace.  Se t’amo! E cosí poco
si spiegano i miei sguardi,
che, se il labbro nol dice, ancor nol sai?
Marzia. Ma qual prova finora
ebbi dell’amor tuo?
Arbace.  Nulla chiedesti.
Marzia. E s’io chiedessi, o prence,
questa prova or da te?
Arbace.  Fuorché lasciarti,
tutto farò.
Marzia.  Giá sai
qual di eseguir necessitá ti stringa,
se mi sproni a parlar.
Arbace.  Parla. Ne brami
sicurezza maggior? Su la mia fede,
sul mio onor t’assicuro,
il giuro ai numi, a que’ begli occhi il giuro.
Che mai chieder mi puoi? La vita? il soglio?
Imponi, eseguirò.
Marzia.  Tanto non voglio.
Bramo che in questo giorno
non si parli di nozze: a tua richiesta
il padre vi acconsenta;
non sappia ch’io l’imposi, e son contenta.
Arbace. Perché voler ch’io stesso
la mia felicitá tanto allontani?
Marzia. Il merto di ubbidir perde chi chiede
la ragion del comando.
Arbace.  Ah! so ben io
qual ne sia la cagion. Cesare ancora
è la tua fiamma. All’amor mio perdona
un libero parlar. So che l’amasti;
oggi in Utica ei viene; oggi ti spiace
che si parli di nozze; i miei sponsali
oggi ricusi al genitore in faccia:
e vuoi da me che t’ubbidisca e taccia?

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Marzia. Forse i sospetti tuoi
dileguare io potrei, ma tanto ancora
non deggio a te. Servi al mio cenno, e pensa
a quanto promettesti, a quanto imposi.
Arbace. Ma poi quegli occhi amati
mi saranno pietosi o pur sdegnati?
               Marzia. Non ti minaccio sdegno,
          non ti prometto amor.
          Dammi di fede un pegno,
          fidati del mio cor:
          vedrò se m’ami.
               E di premiarti poi
          resti la cura a me:
          né domandar mercé,
          se pur la brami. (parte)

SCENA III

Arbace.

Che giurai! Che promisi! A qual comando
ubbidir mi conviene! E chi mai vide
piú misero di me? La mia tiranna
quasi sugli occhi miei si vanta infida,
ed io l’armi le porgo onde m’uccida.
               Che legge spietata,
          che sorte crudele
          d’un’alma piagata,
          d’un core fedele,
          servire, soffrire,
          tacere e penar!
               Se poi l’infelice
          domanda mercede,
          si sprezza, si dice
          che troppo richiede,
          che impari ad amar. (parte)

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SCENA IV

Parte interna delle mura di Utica, con porta della cittá in prospetto, chiusa da un ponte, che poi si abbassa.

Catone, poi Cesare e Fulvio.

Catone. Dunque, Cesare venga. Io non intendo
qual cagion lo conduca. È inganno? è téma?
No, d’un romano in petto
non giunge a tanto ambizion d’impero,
che dia ricetto a cosí vil pensiero.
 (cala il ponte, e si vede venir Cesare e Fulvio)
Cesare. Con cento squadre e cento,
a mia difesa armate, in campo aperto
non mi presento a te. Senz’armi e solo,
sicuro di tua fede,
fra le mura nemiche io porto il piede.
Tanto Cesare onora
la virtú di Catone, emulo ancora.
Catone. Mi conosci abbastanza, onde in fidarti
nulla piú del dovere a me rendesti.
Di che temer potresti?
In Egitto non sei. Qui delle genti
si serba ancor l’universal ragione;
né vi son Tolomei dov’è Catone.
Cesare. È ver: noto mi sei. Giá il tuo gran nome
fin da’ prim’anni a venerare appresi:
in cento bocche intesi
della patria chiamarti
padre e sostegno e delle antiche leggi
rigido difensor. Fu poi la sorte
prodiga all’armi mie del suo favore;
ma l’acquisto maggiore,
per cui contento ogni altro acquisto io cedo,
è l’amicizia tua. Questa ti chiedo.

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Fulvio. E il senato la chiede: a voi m’invia
nuncio del suo volere. È tempo ormai
che da’ privati sdegni
la combattuta patria abbia riposo.
Scema d’abitatori
è giá l’Italia afflitta; alle campagne
giá mancano i cultori;
manca il ferro agli aratri; in uso d’armi
tutto il furor converte; e, mentre Roma
con le sue mani il proprio sen divide,
gode l’Asia incostante, Africa ride.
Catone. Chi vuol Catone amico,
facilmente l’avrá: sia fido a Roma.
Cesare. Chi piú fido di me? Spargo per lei
il sudor da gran tempo e il sangue mio.
Son io quegli, son io, che sugli alpestri
gioghi del Tauro, ov’è piú al ciel vicino,
di Marte e di Quirino
fe’ risonar la prima volta il nome.
Il gelido Britanno
per me le ignote ancora
romane insegne a venerare apprese.
E dal clima remoto
se venni poi...
Catone.  Giá tutto il resto è noto.
Di tue famose imprese
godiamo i frutti, e in ogni parte abbiamo
pegni dell’amor tuo. Dunque mi credi
malaccorto cosí, ch’io non ravvisi
velato di virtude il tuo disegno?
So che il desio di regno,
che il tirannico genio, onde infelici
tanti hai reso fin qui...
Fulvio.  Signor, che dici?
Di ricomporre i disuniti affetti
non son queste le vie: di pace io venni,
non di risse ministro.

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Catone.  E ben, si parli.
(Udiam che dir potrá.)
Fulvio.  (Tanta virtude
troppo acerbo lo rende. (a Cesare)
Cesare. Io l’ammiro però, se ben m’offende.) (a Fulvio)
Pende il mondo diviso
dal tuo, dal cenno mio: sol che la nostra
amicizia si stringa, il tutto è in pace.
Se del sangue latino
qualche pietá pur senti, i sensi miei
placido ascolterai.

SCENA V

Emilia e detti.

Emilia.  Che veggio, oh dèi!
Questo è dunque l’asilo
ch’io sperai da Catone? Un luogo istesso
la sventurata accoglie
vedova di Pompeo col suo nemico?
Ove son le promesse? (a Catone)
Ove la mia vendetta?
Cosí sveni il tiranno?
Cosí d’Emilia il difensor tu sei?
Fin di pace si parla in faccia a lei?
Fulvio. (In mezzo alle sventure
è bella ancor.)
Catone.  Tanto trasporto, Emilia,
perdono al tuo dolor. Quando l’obblio
delle private offese
util si rende al comun bene, è giusto.
Emilia. Qual utile, qual fede
sperar si può dall’oppressor di Roma?
Cesare. A Cesare «oppressor»? Chi l’ombra errante

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con la funebre pompa
placò del gran Pompeo? Forse ti tolsi
armi, navi e compagni? A te non resi
e libertade e vita?
Emilia.  Io non la chiesi;
ma, giá che vivo ancor, saprò valermi
contro te del tuo don. Finché non vegga
la tua testa recisa, e terre e mari
scorrerò disperata; in ogni parte
lascerò le mie furie; e tanta guerra
contro ti desterò, che non rimanga
piú nel mondo per te sicura sede.
Sai che giá tel promisi: io serbo fede.
Catone. Modera il tuo furor.
Cesare.  Se tanto ancora
sei sdegnata con me, sei troppo ingiusta.
Emilia. Ingiusta! E tu non sei
la cagion de’ miei mali? Il mio consorte
tua vittima non fu? Forse presente
non ero allor che dalla nave ei scese
sul picciolo del Nilo infido legno?
Io con quest’occhi, io vidi
splender l’infame acciaro,
che il sen gli aperse, e impetuoso il sangue
macchiar fuggendo al traditore il volto.
Fra’ barbari omicidi
non mi gittai; ché questo ancor mi tolse
l’onda frapposta e la pietade altrui;
né v’era (il credo appena),
di tanto giá seguace mondo, un solo
che potesse a Pompeo chiuder le ciglia:
tanto invidiati gli dèi chi lor somiglia!
Fulvio. (Pietá mi desta.)
Cesare.  Io non ho parte alcuna
di Tolomeo nell’empietade. Assai
la vendetta ch'io presi è manifesta;

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e sa il ciel, tu lo sai,
s’io piansí allor su l’onorata testa.
Catone. Ma chi sa se piangesti
per gioia o per dolor? La gioia ancora
ha le lagrime sue.
Cesare.  Pompeo felice!
invidio il tuo morir, se fu bastante
a farti meritar Catone amico.
Emilia. Di sí nobile invidia,
no, capace non sei, tu che potesti
contro la patria tua rivolger l’armi.
Fulvio. Signor, questo non parmi
tempo opportuno a favellar di pace.
Chiede l’affar piú solitaria parte
e mente piú serena.
Catone.  Al mio soggiorno
dunque in breve io vi attendo. E tu frattanto
pensa, Emilia, che tutto
lasciar l’affanno in libertá non déi,
giacché ti fe’ la sorte
figlia a Scipione ed a Pompeo consorte.
               Si sgomenti alle sue pene
          il pensier di donna imbelle,
          che vil sangue ha nelle vene,
          che non vanta un nobil cor.
               Se lo sdegno delle stelle
          tollerar meglio non sai,
          arrossir troppo farai
          e lo sposo e il genitor. (parte)

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SCENA VI

Cesare, Emilia e Fulvio.

Cesare. Tu taci, Emilia? In quel silenzio io spero
un principio di calma.
Emilia. T’inganni: allor ch’io taccio,
medito le vendette.
Fulvio.  E non ti plachi
d’un vincitor sí generoso a fronte?
Emilia. Io placarmi! Anzi sempre in faccia a lui,
se fosse ancor di mille squadre cinto,
dirò che l’odio e che lo voglio estinto.
               Cesare. Nell’ardire che il seno ti accende,
          cosí bello lo sdegno si rende,
          che in un punto mi desti nel petto
          meraviglia, rispetto e pietá.
               Tu m’insegni con quanta costanza
          si contrasti alla sorte inumana,
          e che sono ad un’alma romana
          nomi ignoti timore e viltá. (parte)

SCENA VII

Emilia e Fulvio.

Emilia. Quanto da te diverso
io ti riveggo, o Fulvio! E chi ti rese
di Cesare seguace, a me nemico?
Fulvio. Allor ch’io servo a Roma,
non son nemico a te. Troppo ho nell’alma
de’ pregi tuoi la bella immago impressa:
e s’io men di rispetto
avessi al tuo dolor, direi che ancora

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Emilia m’innamora;
che adesso ardo per lei, qual arsi pria
che la sventura mia
a Pompeo la donasse; e le direi
che è bella anche nel duolo agli occhi miei.
Emilia. Mal si accordano insieme
di Cesare l’amico
e l’amante d’Emilia. O lui difendi,
o vendica il mio sposo: a questo prezzo
ti permetto che m’ami.
Fulvio.  (Ah che mi chiede!
Si lusinghi.)
Emilia.  Che pensi?
Fulvio. Penso che non dovresti
dubitar di mia fé.
Emilia.  Dunque sarai
ministro del mio sdegno?
Fulvio.  Un tuo comando
prova ne faccia.
Emilia.  Io voglio
Cesare estinto. Or posso
di te fidarmi?
Fulvio.  Ogni altra man sarebbe
men fida della mia.
Emilia.  Questo per ora
da te mi basta. Inosservati altrove
i mezzi a vendicarmi
sceglier potremo.
Fulvio.  Intanto
potrò spiegarti almeno
tutti gli affetti miei.
Emilia.  Non è ancor tempo
che tu parli d’amore e ch’io t’ascolti:
pria s’adempia il disegno, e allor piú lieta
forse ti ascolterò. Qual mai può darti
speranza un’infelice,

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cinta di bruno ammanto,
con l’odio in petto e su le ciglia il pianto?
               Fulvio. Piangendo ancora
          rinascer suole
          la bella aurora
          nunzia del sole;
          e pur conduce
          sereno il dí.
               Tal fra le lagrime,
          fatta serena,
          può da quest’anima
          fugar la pena
          la cara luce
          che m’invaghí. (parte)

SCENA VIII

Emilia.

Se gli altrui folli amori ascolto e soffro,
e s’io respiro ancor dopo il tuo fato,
perdona, o sposo amato,
perdona: a vendicarmi
non mi restano altr’armi. A te gli affetti
tutti donai, per te li serbo; e, quando
termini il viver mio, saranno ancora
al primo nodo avvinti,
se è ver ch’oltre la tomba aman gli estinti.
               O nel sen di qualche stella,
          o sul margine di Lete
          se mi attendi, anima bella,
          non sdegnarti, anch’io verrò.
               Sí, verrò; ma voglio pria
          che preceda all’ombra mia
          l’ombra rea di quel tiranno,
          che a tuo danno il mondo armò. (parte)

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SCENA IX

Fabbriche in parte rovinate vicino al soggiorno di Catone.

Cesare e Fulvio.

Cesare. Giunse dunque a tentarti
d’infedeltade Emilia? E tanto spera
dall’amor tuo?
Fulvio.  Sí; ma, per quanto io l’ami,
amo piú la mia gloria.
Infido a te mi finsi
per sicurezza tua. Cosí palesi
saranno i suoi disegni.
Cesare.  A Fulvio amico
tutto fido me stesso. Or, mentre io vado
il campo a riveder, qui resta, e siegui
il suo core a scoprir.
Fulvio.  Tu parti?
Cesare.  Io deggio
prevenire i tumulti,
che la tardanza mia destar potrebbe.
Fulvio. E Catone?
Cesare.  A lui vanne, e l’assicura
che pria che giunga a mezzo corso il giorno
a lui farò ritorno.
Fulvio.  Andrò, ma veggo
Marzia che viene.
Cesare.  In libertá mi lascia
un momento con lei: finora invano
la ricercai. T’è noto...
Fulvio.  Io so che l’ami;
so che t’adora anch’ella; e so per prova
qual piacer si ritrova
dopo lunga stagion nel dolce istante
che rivede il suo bene un fido amante. (parte)

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SCENA X

Marzia e Cesare.

Cesare. Pur ti riveggo, o Marzia. Agli occhi miei
appena il credo, e temo
che, per costume a figurarti avvezzo,
mi lusinghi il pensiero. Oh, quante volte,
fra l’armi e le vicende, in cui m’avvolse
l’incostante fortuna, a te pensai!
E tu spargesti mai
un sospiro per me? Rammenti ancora
la nostra fiamma? Al par di tua bellezza
crebbe il tuo amore o pur scemò? Qual parte
hanno gli affetti miei
negli affetti di Marzia?
Marzia.  E tu chi sei?
Cesare. Chi sono! E qual richiesta! È scherzo? È sogno?
Cosí tu di pensiero,
o cosí di sembianza io mi cangiai?
Non mi ravvisi?
Marzia.  Io non ti vidi mai.
Cesare. Cesare non vedesti?
Cesare non ravvisi?
Quello che tanto amasti,
quello a cui tu giurasti,
per volger d’anni o per destin rubello,
di non essergli infida?
Marzia.  E tu sei quello?
No, tu quello non sei; ne usurpi il nome.
Un Cesare adorai, nol niego; ed era
della patria il sostegno,
l’onor del Campidoglio,
il terror de’ nemici,
la delizia di Roma,

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del mondo intier dolce speranza e mia:
questo Cesare amai, questo mi piacque,
pria che l’avesse il ciel da me diviso:
questo Cesare torni, e lo ravviso.
Cesare. Sempre l’istesso io sono; e, se al tuo sguardo
piú non sembro l’istesso, o pria l’amore,
o t’inganna or lo sdegno. All’armi, all’ire
mi spinse a mio dispetto,
piú che la scelta mia, l’invidia altrui.
Combattei per difesa. A te dovevo
conservar questa vita; e, se pugnando
scorsi poi vincitor di regno in regno,
sperai farmi cosí di te piú degno.
Marzia. Molto ti deggio inver. Se ingiusta offesi
il tuo cor generoso, a me perdona.
Io, semplice, finora
sempre credei che si facesse guerra
solamente a’ nemici, e non spiegai
come pegni amorosi i tuoi furori;
ma in avvenir l’affetto
d’un grand’eroe, che viva innamorato,
conoscerò cosí. Barbaro! ingrato!
Cesare. Che far di piú dovrei? Supplice io stesso
vengo a chiedervi pace,
quando potrei... Tu sai...
Marzia.  So che con l’armi
però la chiedi.
Cesare.  E disarmato all’ira
de’ nemici ho da espormi?
Marzia.  Eh! di’ che il solo
impaccio al tuo disegno è il padre mio:
di’ che lo brami estinto e che non soffri,
nel mondo che vincesti,
che sol Catone a soggiogar ti resti.
Cesare. Or m’ascolta e perdona
un sincero parlar. Quanto me stesso

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io t’amo, è ver; ma la beltá del volto
non fu che mi legò: Catone adoro
nel sen di Marzia; il tuo bel core ammiro
come parte del suo: qua piú mi trasse
l’amicizia per lui che il nostro amore:
e se (lascia ch’io possa
dirti ancor piú) se m’imponesse un nume
di perdere un di voi, morir d’affanno
nella scelta potrei;
ma Catone e non Marzia io salverei.
Marzia. Ecco il Cesare mio. Comincio adesso
a ravvisarlo in te. Cosí mi piaci;
cosí m’innamorasti. Ama Catone:
io non ne son gelosa. Un tal rivale
se divide il tuo core,
piú degno sei ch’io ti conservi amore.
Cesare. Quest’è troppa vittoria. Ah! mal da tanta
generosa virtude io mi difendo.
Ti rassicura: io penso
al tuo riposo; e, pria che cada il giorno,
dall’opre mie vedrai
che son Cesare ancora e che t’amai.
               Chi un dolce amor condanna,
          vegga la mia nemica;
          l’ascolti e poi mi dica
          se è debolezza amor.
               Quando da sí bel fonte
          derivano gli affetti,
          vi son gli eroi soggetti,
          amano i numi ancor. (parte)

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SCENA XI

Marzia, poi Catone.

Marzia. Mie perdute speranze,
rinascer tutte entro il mio sen vi sento.
Chi sa? Gran parte ancora
resta di questo dí. Placato il padre,
se all’amistá di Cesare si appiglia,
non mi avrá forse Arbace.
Catone.  Andiamo, o figlia.
Marzia. Dove?
Catone.  Al tempio, alle nozze
del principe numida.
Marzia.  (Oh dèi!) Ma come
sollecito cosí?
Catone.  Non soffre indugio
la nostra sorte.
Marzia.  (Arbace infido!) All’ara
forse il prence non giunse.
Catone.  Un mio fedele
giá corse ad affrettarlo. (in atto di partire)
Marzia. (Ah, che tormento!)

SCENA XII

Arbace e detti.

Arbace. Deh! t’arresta, o signor.
Marzia. (piano ad Arbace) (Sarai contento.)
Catone. Vieni, o principe: andiamo
a compir l’imeneo. Potea piú pronto
donar quanto promisi?
Arbace.  A sí gran dono
è poco il sangue mio; ma, se pur vuoi

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che si renda piú grato, all’altra aurora
differirlo ti piaccia. Oggi si tratta
grave affar co’ nemici, e il nuovo giorno
tutto al piacer può consacrarsi intero.
Catone. No; giá fumano l’are,
son raccolti i ministri, ed importuna
sarebbe ogni dimora.
Arbace. (Marzia, che deggio far? (piano a Marzia)
Marzia. (piano ad Arbace)  Mel chiedi ancora?)
Arbace. Il piú, signor, concedi,
e mi contendi il meno?
Catone.  E tanto importa
a te l’indugio?
Arbace.  Oh Dio!... Non sai... (Che pena!)
Catone. Ma qual freddezza è questa? Io non l’intendo.
Fosse Marzia l’audace,
che si oppone a’ tuoi voti? (ad Arbace)
Marzia.  Io! Parli Arbace.
Arbace. No, son io che ti prego.
Catone.  Ah! qualche arcano
qui si nasconde. (da sé) (Ei chiede...
poi ricusa la figlia... Il giorno istesso
che vien Cesare a noi, tanto si cangia...
Sí lento... Sí confuso... Io temo...) Arbace,
non ti sarebbe giá tornato in mente
che nascesti africano?
Arbace.  Io da Catone
tutto sopporto, e pure...
Catone. E pure assai diverso
io ti credea.
Arbace.  Vedrai...
Catone.  Vidi abbastanza,
e nulla ormai piú da veder m’avanza. (parte)
Arbace. Brami di piú, crudele? Ecco adempito
il tuo comando, ecco in sospetto il padre,
ed eccomi infelice. Altro vi resta
per appagarti?

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Marzia.  Ad ubbidirmi, Arbace,
incominciasti appena, e in faccia mia
giá ne fai sí gran pompa?
Arbace.  Oh tirannia!

SCENA XIII

Emilia e detti.

Emilia. In mezzo al mio dolore, a parte anch’io
son de’ vostri contenti, illustri sposi.
Ecco, acquista in Arbace
il suo vindice Roma; e cresceranno
generosi nemici al mio tiranno.
Arbace. Riserba ad altro tempo
gli augúri, Emilia: è ancor sospeso il nodo.
Emilia. Si cangiò di pensiero
Catone o Marzia?
Arbace.  Eh! non ha Marzia un core
tanto crudele: ella per me sospira
tutta costanza e fede:
dai guardi suoi, dal suo parlar si vede.
Emilia. Dunque il padre mancò.
Arbace.  Né pur.
Emilia.  Chi è mai
cagion di tanto indugio?
Marzia.  Arbace il chiede.
Emilia. Tu, prence?
Arbace.  Io, sí.
Emilia.  Perché?
Arbace.  Perché desio
maggior prova d’amor, perché ho diletto
di vederla penare.
Emilia.  E Marzia il soffre?
Marzia. Che posso far? Di chi ben ama è questa
la dura legge.

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Emilia.  Io non l’intendo, e parmi
il vostro amore inusitato e nuovo.
Arbace. Anch’io poco l’intendo, e pur lo provo.
               È in ogni core
          diverso amore:
          chi pena ed ama
          senza speranza;
          dell’incostanza
          chi si compiace;
          questo vuol guerra,
          quello vuol pace;
          v’è fin chi brama
          la crudeltá.
               Fra questi miseri
          se vivo anch’io,
          ah, non deridere
          l’affanno mio,
          ché forse merito
          la tua pietá! (parte)

SCENA XIV

Marzia ed Emilia.

Emilia. Se manca Arbace alla promessa fede,
è Cesare l’indegno
che l’ha sedotto.
Marzia.  I tuoi sospetti affrena:
è Cesare incapace
di cotanta viltá, benché nemico.
Emilia. Tu nol conosci; è un empio: ogni delitto,
pur che giovi a regnar, virtú gli sembra.
Marzia. E pur sí fidi e numerosi amici
adorano il suo nome.
Emilia.  È de’ malvagi
il numero maggior. Gli unisce insieme

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delle colpe il commercio; indi a vicenda
si soffrono tra loro: e i buoni anch’essi
si fan rei coll’esempio, o sono oppressi.
Marzia. Queste massime, Emilia,
lasciam per ora, e favelliam fra noi.
Dimmi: non prese l’armi
lo sposo tuo per gelosia d’impero?
E a te, palesa il vero,
questa idea di regnar forse dispiacque?
Se era Cesare il vinto,
l’ingiusto era Pompeo. La sorte accusa.
È grande il colpo, il veggio anch’io; ma alfine
non è reo d’altro errore
che d’esser piú felice il vincitore.
Emilia. E ragioni cosí? Che piú diresti
Cesare amando? Ah! ch’io ne temo, e parmi
che il tuo parlar lo dica.
Marzia. E puoi creder che l’ami una nemica?
               Emilia. Un certo non so che
          veggo negli occhi tuoi:
          tu vuoi che amor non sia;
          sdegno però non è.
               Se fosse amor, l’affetto
          estingui o cela in petto;
          l’amar cosí saria
          troppo delitto in te. (parte)

SCENA XV

Marzia.

Ah! troppo dissi, e quasi tutto Emilia
comprese l’amor mio. Ma chi può mai
sí ben dissimular gli affetti sui,
che gli asconda per sempre agli occhi altrui?

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               È follia se nascondete,
          fidi amanti, il vostro foco;
          a scoprir quel che tacete
          un pallor basta improvviso,
          un rossor che accenda il viso,
          uno sguardo ed un sospir.
               E se basta cosí poco
          a scoprir quel che si tace,
          perché perder la sua pace
          con ascondere il martír? (parte)