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206 iii - catone in utica


Marzia.  Finger non giova;
tutto dirò. Mai non mi piacque Arbace;
mai nol soffersi, egli può dirlo. Ei chiese
il differir le nozze
per cenno mio. Sperai che alfin, piú saggio,
l’autoritá d’un padre
impegnar non volesse a far soggetti
i miei liberi affetti;
ma, giá che sazio ancora
non è di tormentarmi e vuol ridurmi
a un estremo periglio,
a un estremo rimedio anch’io m’appiglio.
Catone. Son fuor di me. Donde tant’odio e donde
tanta audacia in costei?
 (ad Emilia e ad Arbace)
Emilia.  Forse altro foco
l’accenderá.
Arbace.  Cosí non fosse!
Catone.  E quale
de’ contumaci amori
sará l’oggetto?
Arbace.  Oh Dio!
Emilia.  Chi sa?
Catone.  Parlate.
Arbace. Il rispetto...
Emilia.  Il decoro...
Marzia. Tacete: io lo dirò. Cesare adoro.
Catone. Cesare!
Marzia.  Sí. Perdona,
amato genitor; di lui m’accesi
pria che fosse nemico: io non potei
sciogliermi piú. Qual è quel cor capace
d’amare e disamar, quando gli piace?
Catone. Che giungo ad ascoltar!
Marzia.  Plácati, e pensa
che le colpe d’amor...