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186 iii - catone in utica


Marzia.  E qual soccorso
darti poss’io?
Arbace.  Tu mi consiglia almeno.
Marzia. Consiglio a me si chiede?
Servi al dovere e non mancar di fede.
Arbace. (Che crudeltá!)
Catone. (ad Arbace) Giá il suo consiglio udisti.
Or che risolvi?
Arbace.  Ah! se fui degno mai
dell’amor tuo, soffri l’indugio. Io giuro
per quanto ho di piú caro,
ch’è l’onor mio, ch’io ti sarò fedele.
Il domandarti alfine
che l’imeneo nel nuovo dí succeda,
sí gran colpa non è.
Catone.  Via, si conceda:
ma dentro a queste mura,
finché sposo di lei te non rimiro,
Cesare non ritorni.
Marzia.  (Oh dèi!)
Arbace.  (Respiro.)
Marzia. Ma questo a noi che giova? (a Catone)
Catone.  In simil guisa
d’entrambi io m’assicuro. Impegna Arbace
con obbligo maggior la propria fede;
e Cesare, se il vede
piú stretto a noi, non può di lui fidarsi.
Marzia. E dovrá dilungarsi
per sí lieve cagione affar sí grande?
Arbace. Marzia, sia con tua pace,
ti opponi a torto. Al tuo riposo e al mio
saggiamente ei provvide.
Marzia.  E tu sí franco
soffri che a tuo riguardo
un rimedio si scelga, anche dannoso
forse alla pace altrui? Né ti sovviene