Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo X
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CAPO DECIMO.
Ma la potestà ecclesiastica, formidabile a tutta l’Europa, trovò sempre più o meno intoppo in un angolo dell’Adriatico.
La repubblica veneta ebbe la sua origine nel V secolo, quando la Venezia continentale, florida per industria, fu desolata e distrutta dalle invasioni dei Barbari, e gli abitatori fuggendo colle ricchezze mobili cercarono un asilo nelle lagune. Quella nuova società non si formò tutta ad un tratto, ma poco a poco: il governo popolare; ogni isola faceva da sè, ma necessità le riuniva quasi in vincolo federativo e con capi in comune.
La debolezza e i disordini inseparabili da reggimento così incomposto suggerì, verso la fine del VII secolo, l’idea di un capo unico, e fu il doge o duca, dignità imitata dai Greci d’Italia. Non si conosceva a quei tempi altra costituzione tranne quella di un primo magistrato elettivo che riuniva in sè tutti i poteri, civile, militare e giudiziario, in grado sconfinato, ma pure moderato dal concorso dell’assemblea generale del popolo. Il quale, in sì informe governo, se è attivo e geloso di libertà è agitato da tumulti continui. Imperocchè il principe tende ad usurpare, il popolo a resistere, donde risulta una lotta d’interessi opposti; dalla quale, ove il popolo sia sano, scaturisce quasi sempre una libertà sostantiva.
Infatti le frequenti rivoluzioni patite dai Veneti lo spazio di cinque secoli, tutte derivate dalla soperchia autorità dei dogi, de’ quali sopra 50, 19 almeno furono o spenti o esulati, suggerirono i rimedii di prevenirle. Nell’XI secolo fu vietato a’ dogi, di associarsi i figliuoli; a scemarne la troppa autorità furono con loro aggiunti due consiglieri, senza i quali nulla operare potessero; e fu creato un magistrato di tre cittadini per l’amministrazione della giustizia, di cui il doge era capo, e anche giudice in appello.
Nel secolo seguente l’aristocrazia fece nuovi progressi, e la potestà ducale fu viepiù limitata. Allontanata la moltitudine dalle pubbliche faccende, fu in sua vece creato un Gran Consiglio di 470 in cui fu rimesso il potere sovrano: i due consiglieri del doge diventarono sei. E usando il principe ne’ casi ardui consultare alcuni tra i primi, cui il popolo nei suo dialetto chiamava Pregadi, fu deciso che questo consiglio non fosse più ad occasione, ma permanente in un corpo di 60, non scelto a talento del doge, ma per scrutinio del Gran Consiglio. Da qui il Senato detto anco il Pregadi.
Per l’amministrazione della giustizia civile e criminale fu eletto un corpo di 40 cittadini detto perciò la Quaranzia, onde al doge non restò più della facoltà giudiziaria se non se la decisione di piccole cause, e il ricorso in appello di alcuni tribunali subalterni, d’instituzioue popolare.
Così nel XII secolo, quando ancora gli altri popoli non avevano governo o l’avevano tumultuario, la repubblica veneta si era data una sensata costituzione, non certo così metafisica come alcune imaginate dai moderni, ma più utile e meno imbarazzante nella pratica. Al popolo il diritto di eleggere i suoi rappresentanti ogn’anno; e i rappresentanti, non potendo congregarsi ad ogni bisogno per essere in troppo numero e occupati ne’ privati negozi, delegavano parte dei loro poteri al Senato, scelto dal loro seno, il quale colla sua permanenza era freno alle usurpazioni del doge. E questo doge, eletto dai rappresentanti, a vita, aveva tanto potere che basti al piano e spedito andamento degli affari di guerra e civili, e privo solo dell’infelice attributo di poter nuocere. I sei consiglieri erano il ministero, la Quaranzia il tribunale giudiziario, onde la divisione dei poteri e dei lavori fu trovata dai Veneziani assai prima delle altre nazioni.
Questa costituzione subì un importante mutamento ai primi anni del secolo XIV, Venezia, per l’estensione del suo commercio e per la protezione accordata all’industria, allettava gran numero di forestieri; ed ivi riparavano solitamente i profughi delle città d’Italia scacciati ora da’ Guelfi ora da’ Ghibellini, nomi ignoti nelle lagune: vi apportavano capitali e nuove arti, e ricevevano protezione e cittadinanza. Ma la gelosia delle repubbliche di escludere gli estrani dalla participazione al governo produsse quella rivoluzione conosciuta nella storia col nome di Serrata del Gran Consiglio. Da prima le vecchie famiglie si adoperarono a ristringere sempre più in loro la somma delle cose; poi il doge Pietro Gradenigo fece passare la legge che il Maggior Consiglio non si componesse se non se di tali e tali famiglie, le quali in perpetuo avessero sole il diritto di farvi parte. E poichè tutti gli officii statuali si cavavano da questo corpo, ne proveniva che lo Stato fosse anco in mano tutto delle famiglie privilegiate. Così fu stabilita l’aristocrazia.
Questo passo a cui la Repubblica già da gran tempo si preparava, fu per versarla nel precipizio. Bajamonte Tiepolo, nobile, ambizioso, capo di numerosi malcontenti, congiurò col pretesto di ristabilire la democrazia, ma invero per comandar lui: e già stava per compiere il suo disegno, quando prevenuto dal doge fu vinto e bandito. La congiura diede origine al famoso Consiglio dei Dieci.
Non è mio scopo di descrivere la storia del governo veneto; solo dirò per brevi capi quale fosse al principio del secolo XVII.
La popolazione si distingueva in tre classi, patrizi, cittadini, e popolani o plebe. La sovranità era tutta in mano dei patrizi; l’amministrazione, divisa coi cittadini. Il Maggior Consiglio o corpo legislativo e sovrano si componeva di tutti i patrizi che avessero compiuti i 25 anni: 600 almeno perchè la riduzione fosse legale, e di rado toccava i 900. Esso eleggeva a tutte le cariche o per sè o sulle proposte del Senato o del Collegio: tutti gli atti di legislazione, o dati da lui o da lui convalidati. Deliberava a pluralità di suffragi, ed erano di tre sorta: sì, no, e non-sinceri; cioè nè l’uno nè l’altro. Si contavano i due primi; e i non-sinceri erano a puro complemento del numero legale. Era però necessario che i sì e i no sommati insieme fossero maggiori dei non-sinceri; e se non erano, la deliberazione restava sospesa fino a nuovo esperimento. Così in tutte le magistrature.
Il Senato o corpo esecutivo si componeva di 120 che duravano in carica un anno, ma per consuetudine confermati ogni volta dal Gran Consiglio, talchè si potevano dire a vita. A loro si aggiungevano il doge col suo consiglio, i procuratori di San Marco, il Consiglio dei Dieci, la Quaranzia criminale, gli Avogadori, i Censori, e più altre magistrature, tutti con voto deliberativo; e altre magistrature col solo voto consultivo; e infine i senatori per diritto, quali erano chi tornava da una ambasceria o dalla podesteria di Brescia, sì che il Senato sommava a presso che 300 individui. Ma la proposta, o come diciamo l’iniziativa, apparteneva al solo doge, ai suoi consiglieri e ai Savi del Consiglio.
Al Senato apparteneva tutta l’amministrazione interiore della Repubblica, e le relazioni e transazioni politiche di guerra o di pace coll’estero. Di sua elezione erano i consiglieri del doge, e varie altre magistrature, e i suoi membri erano eletti dal Maggior Consiglio.
Il doge carica a vita, magistrato supremo della Repubblica, era eletto da un corpo di 41 elettori nominati per varii scrutinii dal Gran Consiglio. Gioiva di onori infiniti e da sovrano, magnifico alloggio, stipendio appena bastevole, e benchè gli atti fossero tutti in suo nome, l’autorità era angusta al segno da non potere aprir i dispacci se non in presenza de’ consiglieri, là dove potevano essi aprirli senza di lui. Ciò nulladimeno aveva tante prerogative, che un doge fornito di capacità e di opinione poteva dare alla repubblica quell’indirizzo che più gli piaceva.
I procuratori di San Marco, dignità a vita la più ambita dopo la ducale, ma puramente onorevole, erano gli amministratori della chiesa, fabbrica e tesoro di San Marco, e i tutori naturali di tutti i pupilli nella Repubblica; benchè senatori per diritto, non avevano ingresso nel Gran Consiglio. Erano nove; ma per bisogno di pecunia se ne facevano più altri, sì che talvolta se ne contarono sino a 42: ma quelli di puro titolo, morendo, non avevano successori.
I procuratori venivano eletti dal Gran Consiglio: i sei consiglieri del doge lo erano dal Senato; poi confermati dal Gran Consiglio, e duravano in caria un anno, di cui otto mesi passavano nei consigli del doge, e negli altri quattro presiedevano la Quaranzia criminale in vece de’ suoi capi occupati per lo più nel Senato: da qui la denominazione di consiglieri di sopra e consiglieri di sotto. Uniti, potevano molte cose senza il doge, e il doge nulla poteva senza di loro.
Quella che i Veneziani chiamavano la Signoria, o Consiglio ducale, si componeva del doge, i sei consiglieri, e i tre capi de’ Quaranta al criminale: dieci persone. In ciò diversa dal Collegio dov’erano anco ammessi i sei Savi del Consiglio o Savi Grandi, che erano come i ministri di Stato, i cinque Savi di terra-ferma e i cinque Savi agli Ordini, detti anche del mare. Questi ultimi, giovani introdotti per addestrarsi negli affari, non avevano voce deliberativa.
Amministravano la giustizia tre Tribunali precipui, ed altri moltissimi secondari, di cui ciascuno aveva precise incumbenze; i tre erano, la Quaranzia criminale, pel criminale ed anco pel civile in appello, e le due Quaranzie civili, vecchia e nuova.
I tre avogadori di Comune, eletti dal Senato, confermati dal Gran Consiglio per 16 mesi, avevano quel nome perchè loro incarico era di far osservare le leggi, e conservarne l’ordine e le formalità per tutto quello che riguardava il pubblico interesse: imperciò erano investiti dell’autorità tribunizia, potendo essi opporsi alle deliberazioni e decreti che avvisavano contrari alle leggi o al bene pubblico, sospenderli o portarli da un consesso all’altro, e per tanto la loro presenza era necessaria in tutti i corpi supremi dello Stato; in Gran Consiglio e in Senato avevano voce deliberativa e facoltà tribunizia, in Consiglio de’ Dieci e nelle Quaranzie la sola facoltà tribunizia.
Il Consiglio dei Dieci, tanto famoso nella storia veneta, fu instituito nel 1310 in occasione della congiura di Bajamonte Tiepolo. Le sue attribuzioni da prima furono solamente di alto criminale, poi colla attività seppe talmente allargarla che giunse a rivaleggiare, anzi a superare il Senato; massime quando si fece dare la Giunta di cui parlerò: di forma che condannò un doge a morte, un altro ne depose, fece trattati di pace, cessioni di territorio, leggi civili, amministrative, giudiziarie, di polizia, insomma tutte le parti di governo, e divenne la magistratura più ambita e più temuta.
Aveva quel nome perchè composto di dieci membri; a cui bisognava aggiugnere il doge che n’era il presidente per diritto, e i suoi consiglieri, tutti con voce deliberativa; uno per lo meno degli Avogadori con voce consultiva, ma con facoltà d’interrompere o sospendere i partiti, o richiamarli ad altra magistratura. E inoltre, i segretari, ed erano quattro, i quali benchè non mettessero suffragio, essendo essi perpetui (laddove i Dieci duravano in carica 18 mesi), e a parte di tutti i secreti, e avendo in loro mano tutto l’indirizzo delle faccende che si trattavano, potevano, massime nei processi, esercitare una influenza indiretta sì, ma quasi uguale a quella di tutti gli altri. Per il che, poste le prevenzioni a parte, non esisteva ancora un tribunale giudiciario così numeroso, e che, per la qualità dei suoi membri, potesse essere più imparziale. Infatti la storia non rammenta di lui che due atti d’ingiustizia, la deposizione del doge Francesco Foscari, e le persecuzioni contro suo figlio; effetti più di odii civili che di mal talento del tribunale.
È vero che essendo egli stesso legislatore e gindice, nè obbligato a formalità di procedere, o a regola stabile di giudizi, era nella misura de’ gastighi bizzarro e arbitrario; e, come osserva il Daru, non badava tanto a soddisfare i diritti della giustizia colla punizione del reo, quanto ad atterrire col rigore della pena. Conosciuto che un delitto era degno di morte, considerava l’atrocità o le circostanze straordinarie di esso, o la qualità del reo; e considerava la specie del supplizio come una formalità indifferente alla legge ma che giova all’esempio: quindi lo stesso delitto ora puniva colla forca, ora facendo squartare, ora annegare in un sacco. Alcuni propositi contro il governo in un forestiero gli puniva con una reprimenda e col bando; in un plebeo veneziano, con alcuni tratti di colla; in un patrizio con grossa multa, privazione di carica e confine; in un prete o in un frate con carcere od esilio. Assiduo, pronto, inesorabile, era lo spavento de’ malvagi, e la tutela del popolo contro le prepotenze de’ grandi. Ed è per questo che nel 1628, quando i giovani patrizi cospirarono per farlo sopprimere, la plebe si sollevò e minacciò di incendiare le loro case; e all’incontro fece feste e laminarie ai pochi e più severi nobili che ne difesero la esistenza, particolarmente allo storico e senatore Battista Nani. Avviluppato nel mistero, circondato da numerose spie, era continuamente sulle tracce del delitto, di forma che il fallo e la pena si succedevano quasi contemporanei: i suoi comandi erano leggi; carcere immediata o morte seguiva l’inobbedienza.
Fino dal 1355 per la congiura del doge Marino Faliero, poi decapitato, gli fu data una Giunta di 20 persone, poi ridotte a 15, con voce deliberativa, a scelta del Gran Consiglio e cavate dal Senato. La durata di questa Giunta è l’epoca la più luminosa della storia del Consiglio decemvirale, il quale giunse a un grado di potenza, che ove avesse continuato avrebbe soverchiate tutte le altre magistrature; ma nel 1582 fu ridotto di nuovo alla forma che ho sopra descritta, nella quale con poche mutazioni si conservò fino allo spegnimento della Repubblica.
Appendice a questo Consiglio era il tribunale degli Inquisitori di Stato, instituito verso il 1590 e non, come vuole il Daru, nei 1454. Il quale istorico ne ha fatto una chimera esistente nella sola sua immaginazione; pretese persino di averne scoperti gli statuti, parto apocrifo, pieno di contradizioni, di falsità e di anacronismi che fa maraviglia come abbiano potuto ingannare un critico tanto sottile. Più misteriosi ancora dei Decemviri, il loro nome non si pronunciava senza terrore. Ciascuno ne ignorava la forma, sconfinate ne credeva le attribuzioni, e che tutto vedesse, tutto sapesse; e mille racconti andavano pel volgo di atti potentissimi e terribili di quel tribunale, che i suoi emissari spargevano ed accreditavano. Ma in verità non era poi tanto: poteva far arrestare, inquisire, impor pene correzionali e bandi privati; non però bandi pubblici nè pene gravi; neppure poteva far torturare alcuno senza licenza del Consiglio dei Dieci. Erano tre gl’Inquisitori, due dello stesso Consiglio de’ Dieci, ed uno del consiglio del doge; e un quarto detto di rispetto nel caso che uno dei tre fosse assente o dovesse essere giudicato dagli altri. I due primi erano chiamati gl’Inquisitori neri, perchè vestivano di nero secondo il costume veneziano; e il terzo era detto l’Inquisitore rosso, dalla sottoveste rossa usata dai consiglieri ducali. Gl’Inquisitori ne’ loro giudizi dovevano essere tutti di accordo. Duravano in carica un anno, anzi il consigliere del doge i soli otto mesi che restava nella Signoria; avevano un secretario, perpetuo nel suo ufficio, tratto dai secretari dei Dieci, e dopo il 1628 da quelli del Senato; e un cursore detto il Fante degli Inquisitori, che portava le intimazioni.
La cittadinanza si divideva in due classi: quelli che l’avevano per diritto originario, e quelli che l’avevano acquistata per lunga dimora, nella quale ultima s’intendevano compresi tutti i sudditi della terra-ferma. L’ordine cittadinesco benchè non votasse ne’ consigli, aveva una parte attivissima nell’amministrazione, ed erano a lui riservati gl’impieghi i più lucrosi.
Primo era il Cancellier Grande, carica illustre, a vita, onorato quasi come doge, per dignità sopra i senatori, inferiore solo a’ Procuratori e consiglieri ducali: aveva 2000 ducati (10,000 franchi) di stipendio, ma tanti straordinari che ammontavano a somma ragguardevole, sì che facilmente poteva arricchire. Aveva ingresso in tutti i consigli, sottoscriveva tutti gli atti pubblici, era il capo di tutta la cittadinanza, e principalmente della segreteria e cancelleria di Stato. Dignità ambita così che Marco Ottobuon, padre di Alessandro VIII papa, ricusò la qualità di patrizio per non rinunciarla.
Venivano in seguito i quattro secretari dei Decemviri, i ventiquattro del Senato, indi i notai ducali che ammontavano a più di sessanta, e il numeroso corpo dei cancellieri, a tutti i quali uffizi erano eletti soli cittadini originari.
E dalla seconda classe di cittadini si cavavano i notai pubblici che formavano un collegio sotto la direzione del Cancellier Grande, i ragionieri o computisti, e gli avvocati fiscali, di cui ogni dicastero (e ve n’erano cento almeno) aveva il suo, e i secretari de’ magistrati di provincia, dei generali e dei provveditori.
Benchè ai patrizi non fosse interdetta l’avvocatura, era lasciata ordinariamente ai cittadini, così che gli avvocati in Venezia formavano un corpo distinto.
I soli cittadini, non i patrizi, potevano aver gradi o condotta nella milizia di terra: in quella di mare, tutta peculiare de’ patrizi, potevano anco i cittadini ottenere il comando di una galera; ma ai patrizi esclusivamente appartenevano i gradi superiori.
Le ambascerie erano divise tra patrizi e cittadini: andavano i primi a Roma, a Parigi, a Vienna ed a Madrid con titoli d’ambasciatori; ma l’onore era bilanciato dalla spesa, non ricevendo dal pubblico se non se un donativo di 1000 zecchini nel triennio della loro carica, e tutto il resto a loro aggravio. Solo il Bailo a Costantinopoli, altra ambasceria patrizia, offriva larghi compensi; perocchè, oltre ai molti diritti che traeva dal suo ufficio, portava una grossa borsa per donativi alla Porta, a’ visiri, a’ pascià, di cui egli solo sapeva i conti.
Le altre ambascerie, con titolo di Residenti, erano dei cittadini, scelti dalla secreteria del Senato; e andavano, a spese pubbliche, a Napoli, a Milano, negli Svizzeri, ne’ Grigioni: a Torino, in Olanda, a Londra andava quando un cittadino e quando un patrizio secondo le circostanze o la qualità della legazione. Siccome poi i secretari erano partecipi di tutti gli arcani di Stato, a loro si affidavano le missioni secrete e le iniziative de’ trattati.
Dai cittadini si cavavano ancora i dragomanni a servizio del governo o degli ambasciatori di Levante, e dai dragomanni i Consoli di Algeri, Tripoli, Tunisi e Marocco; il primo con 3300 ducati annuii gli altri con mille: a’ cittadini od a’ patrizi erano conferiti gli altri consolati che passavano i trenta, tra’ quali quello di Alessandria di 4260 ducati; degli altri chi 2000, chi 1500 e discendendo fino a meno di 100, ed anco nulla, tranne i diritti consolari.
Sommati tutti insieme, al corpo cittadinesco erano riservati assai più impieghi che non erano forse in certe occasioni gli individui per coprirli. Che se poi i patrizi soli avevano il vanto di essere sovrani, questo vanto era d’altronde una vera schiavitù. Il patrizio non poteva uscire dal ducato, cioè dalla breve circonferenza delle lagune, senza un permesso del governo; senza uno speciale permesso non poteva viaggiare in paesi esteri, nè dimorarvi più a lungo del tempo prefissogli; non poteva ricusare le cariche dispendiose alle quali veniva eletto, senza pagare una ammenda; non poteva ammogliarsi a donna estranea senza perdere i suoi privilegi; non poteva aspirare a dignità ecclesiastiche, senza pregiudicare più o meno a’ suoi congiunti: egli solo era escluso dal beneficio comune di essere giudicato, nelle cause criminali, dai tribunali ordinari, donde stante le sue aderenze avrebbe potuto facilmente uscirne con poca o nissuna pena; essendo i patrizi immediatamente soggetti al tribunale più duro e più inflessibile qual era il Consiglio dei Dieci. Non pagavano aggravii pubblici in tempo di pace, ma per contrappeso dovevano coprire assai cariche ed impieghi di nissun profitto, ed anzi con discapito. In tempo di guerra erano poi gravati esorbitantemente, ad arbitrio, secondo la loro facoltà, e con inflessibile durezza si facevano le esazioni; laddove coi cittadini e col popolo si procedeva con regola e misura. Onde non è più da ammirare se in quella Repubblica l’ordine non patrizio non ha mai cercato di mutar sorte.
Altro elemento di concordia era il sistema di vita domestica: nobili e cittadini, tranne i magistrati nel tempo della loro carica e alcune dignità particolari, vestivano tutti ad egual modo. Leggi severe proibivano ogni distinzione, ogni lusso personale dentro o fuori di casa; talchè alla forma dell’abito, al colore e agli arredi delle gondole il forestiero non avrebbe saputo distinguere il più illustre fra i primati dall’ultimo de’ cittadini. I due ordini conversavano insieme, si trovavano agli stessi luoghi, godevano gli stessi passatempi; e l’uso comunissimo di andare mascherato nelle sale da giuoco, sulla fiera, nei caffè, pareva introdotto a bel proposito per confondere tutti i ceti in uno. Un’offesa fatta a persona mascherata era delitto che spettava al Consiglio dei Dieci: intende il lettore cosa voglio dire.
I patrizi erano uguali di diritto ma non di fatto, distinguendosi i nobili di case vecchie e quelli di case nuove. I primi aspiravano alle dignità sedentarie e di comparsa; gli altri, come che più attivi e non di rado anco più doviziosi, alle cariche di dispendio e specialmente alle ambascerie, perchè davano importanza e considerazione, e di ritorno aprivano l’ingresso al Senato, accrescevano, per la pratica degli affari, l’influenza, ed erano scala alle dignità supreme. Del resto le emulazioni erano accuratamente represse dal Consiglio Decemvirale, mortificando ora gli uni, ora gli altri, e più spesso i vecchi che i nuovi.
Una distinzione più decisa era quella di nobili ricchi e nobili poveri: e questi ultimi detti dal volgo Barnabotti, perchè abitavano il quartiere di San Barnaba, erano ad una condizione peggiore della plebe; perchè per la povertà loro non potendo aspirare alle prime cariche del patriziato, e per essere patrizi a quelle de’ cittadini, erano ridotti ad umili impieghi disdegnati dagli altri nobili, o a vivere quasi di mendicità, o nel grado di clienti di chi più poteva. Quindi sarebbono stati autori d’innovazioni, se la bassezza del loro stato glielo avesse permesso, e se la ponderosa influenza degli altri nobili e dei cittadini interessati a quel sistema, e lo stesso poco conto che ne faceva la plebe, non gli avesse tenuti a freno. Del resto il governo aveva fondato utili instituti per l’accasamento delle loro figliuole, dotandole, monacandole. E non essendo vietati i matrimoni tra patrizi e cittadini, accadeva spesso che un cittadino dovizioso, per accrescersi col parentado le aderenze nei consigli, accasasse le figlie con nobili poveri; come accadeva ancora che donzelle patrizie si maritassero a cittadini opulenti, essendovi tra questi assai famiglie che per ricchezze e relazioni avevano nulla da invidiare ai patrizi. Tali matrimoni li procurava qualche volta il governo medesimo o per sollevare un nobile povero, o per lusingare l’orgoglio di un ricco cittadino.
È vero che i figliuoli nati da questi connubi non erano patrizi: legge necessaria, senza la quale in poche generazioni i due ordini si sarebbono confusi, ma non meno perciò tali parentele valevano a mantenere la concordia e una specie di eguaglianza. E siccome i cittadini si accasavano coi popolani, così accadeva non di rado che plebeo e patrizio, disgiunti per legge politica, si affratellassero per vincoli di sangue; la quale unione faceva in modo che la società veneziana si regolasse come una famiglia.
Precisamente i popolani non erano diversi dai cittadini, anch’essi appartenendo all’una o all’altra classe di questi e cogli stessi privilegi: la distinzione la faceva la fortuna, essendo o merciadri o artieri o barcaiuoli; cionnondimeno anche l’infima classe godeva di molti beneficii; le erano riservati tutti i piccioli impieghi subalterni; gli arsenalotti, od operai dell’arsenale, erano per diritto la guardia del doge e in certe occasioni ricevevano donativi. Il governo sopra tutto si mostrava attentissimo a prevenirne i bisogni, e darle passatempi e contentezze: i ricchi cittadini o patrizi vi contribuivano, dispensando gratuitamente case per alloggiare, mobili, abiti, vettovaglie, danari: i soli cittadini dotavano più di 1500 ragazze ogni anno, i patrizi altrettanto o più: e la plebe amava un governo dove trovava comodi ed abbondanza.
Comprendendo col nome di popolo i cittadini e la plebe, quest’ordine faceva poi una repubblica tutta sua particolare, nella quale non avevano parte i patrizi: ed erano le confraternite laiche, in gran numero, tra le quali sei più distinte per ricchezza si chiamavano Scuole Grandi. Tutto sotto l’inspezione del Consiglio dei Dieci, magistrati da lui dipendenti invigilavano al buon ordine e ne decidevano le liti; vi si ascrivevano i patrizi più illustri e persino gli ambasciatori; ma il governo ed amministrazione di esse era tutto popolare: tenevano adunanze, eleggevano i priori, i tesorieri, rivedevano i conti, avevano statuti, abito e stendardo proprio, e feste particolari e chiese ed oratorii: e l’affare delle confratrìe colle loro feste o sagre era pel popolo veneziano di tanta importanza, come il teatro pel popolo ateniese, e gli spettacoli circensi pel romano.
Il basso popolo era ignorante, se per istruzione intendiamo l’educazione delle scuole; ma aveva una educazione pratica, informata dalle tradizioni orali, da’ suoi divertimenti, o dalle stesse sue abitudini; quindi il volgo veneziano, come che appena sapesse leggere, era il solo in Europa che avesse una letteratura: i fasti della Repubblica, le epoche più memorabili della sua storia, le sue feste e la origine di esse, le guerre passate e le presenti, persino le sue differenze co’ potentati che fossero di qualche momento, erano dagli scrittori verseggiate in rime vernacole e tramandate alla memoria del popolo, il quale per questo mezzo era istrutto ne’ principali avvenimenti della sua patria. Nè soltanto gli aurei versi dell’Ariosto e del Tasso o quelli di Virgilio, di Orazio o di Giovenale, erano letti da lui nel suo dialetto, e ridotti alla sua intelligenza; ma anco relazioni di storie e di viaggi, e moralità di Cicerone e di Seneca: quindi a ragione diceva lo spiritoso Ganganelli che, Non vi è quasi un Veneziano, che non sia eloquente. Il teatro era un’altra scuola, se non sempre di pudicizia, almeno di brio e di pratica del mondo: le commedie, le tragedie, i drammi pastorali erano quasi sempre in lingua veneziana; e in ogni cosa Venezia essendo magnificata sopra tutti gli altri paesi del mondo, il popolo s’era avvezzato a guardarla come il solo dov’e’ potesse vivere e dove vi fosse un aere ed un sole buono per lui: nè forse a torto, se si considera che ivi traeva una vita allegra e sfaccendata, laddove sotto altri dominii la plebe giaceva oppressa, cupa e tiranneggiata dalla miseria e dal sospetto.
Quasi ovunque essa viveva stazionaria; ma a Venezia le porgevano elementi d’istruzione, di distrazione e di guadagni i continui viaggi nel Levante: e pochi erano i Veneziani di qualsiasi ceto che non avessero visitato Costantinopoli, le Smirne, la Siria o l’Egitto, o per lo meno le colonie greche della Repubblica. E o sulla terra o sul mare, o in pace o in guerra, vivendo il popolo quasi di continuo frammezzo a suoi patrizi, partecipava a tutti i loro orgogli, e s’interessava nei loro piaceri e nei loro dolori, e le felicità o le sventure erano comuni: dalla quale complicazione artificiale e morale di cose, che occupando tutte le passioni dalle supreme alle infime le dirigeva ad uno scopo unico, deve il governo veneto la quiete interna di cui godette inalterabilmente; essendo gli uomini inlaqueati, per così dire, dentro ad un sistema di abitudini da cui non potevano strigarsi senza disordine.
Le religioni antiche, sebben false, avevano il vantaggio di essere immedesimate col sistema politico, e di formarne il nodo principale, mentre la nostra, non per difetto di lei ma degli uomini, ha costituito un interesse a parte, fuori dello Stato, e talvolta con esso in collisione avversa. Imperocchè il clero, gerarchia speciale, si regola con tali instituzioni che spesso vanno a ledere direttamente le ragioni pubbliche; indi due governi in uno Stato; e due qualità di sudditi, di cui l’una obbedisce al capo naturale e prossimo, l’altra a capo straniero e lontano: modo di esistere che se giova al clero, nuoce allo Stato, lo indebolisce e ne imbarazza l’andamento, come l’esperienza di secoli molti lo ha provato.
Ma in Venezia religione e Stato furono mai sempre una cosa sola e talmente identificata coi costumi del popolo e coi metodi del governo che l’uno non poteva stare senza l’altra. Tutte le instituzioni derivavano da quei due principii: le feste religiose originavano da avvenimenti politici, le feste nazionali riferivano alla religione, la quale era pei Veneziani la loro storia tradizionale. Le cerimonie, i riti, tutto il culto esterno era mutato in costume; i santi, i simulacri, le reliquie erano i Dei locali di Venezia. Così essendo comuni le opinioni e gl’interessi de’ governati col governo, e quelli talmente confidenti di questo e persuasi che non poteva fallire, ogni detto in contrario era stimato eresia politica. Per la qual cosa una scomunica che faceva impallidire i re, un interdetto che sollevava un regno, era pei Veneziani un’offesa pubblica.
Venezia aveva sempre seguitate le fedi cattoliche, e quantunque ivi intervenissero persone di tutte le sêtte, e potesse ciascuno professare senza pericolo le sue opinioni, era insolito esempio che alcun Veneziano rinegasse la religione de’ suoi padri; e colà senza Sant’Offizio, senza frati inquisitori, senza lo spettacolo funesto dei roghi, non mai accaddero scismi od eresie; il clero istesso così turbolento e inclinato ai litigi di religione, non fece mai scisma e non partecipò mai a quelli degli altri paesi: successero gare di pontefici, papi contro papi, concilii contro concilii, l’Europa più volte incerta e divisa per affetti di coscienza, e Venezia immobile nelle sue fedi, vide indifferente l’indivoto combattere, e si tacque.
Il cattolicismo era eziandio utile agl’interessi della politica. La Repubblica, confinante e spesso in guerra coi Turchi, malamente avrebbe potuto resistere contra popolo bellicoso e feroce senza i sussidi de’ principi cattolici e la parte calorosa che vi prendevano i papi; quindi il Senato non ometteva occasione, salvi i suoi diritti, di mostrarsi deferente e ossequioso verso la Santa Sede, di mantener vivo nel popolo l’affetto ad una religione pomposa e magnifica, e che diventata il caratteristico segno dello spirito nazionale, lo rendeva ne’ bisogni delle guerre turchesche coraggioso nelle battaglie, e benigno sopportatore dei disagi di commercio e di tasse necessarie al dispendio di combattere un nemico cui tutti odiavano, e tanto superiore di mezzi e di forze.
Ciò nulla ostante seppe Venezia distinguere per tempo la Chiesa dal clero e la religione dagli interessi de’ preti. La Chiesa, ente spirituale, fuori del mondo, opera spiritualmente sulla società. Non è essenziale all’essere di lei, potendo ella esistere anco con altre religioni; ma è ricevuta per adesione volontaria e che può mutare. E però in Venezia tutte le opinioni religiose, purchè non offendessero l’ordine pubblico, e molte per pattuizioni collo Stato, erane tollerate.
Il clero poi non è che ministro e non può avere maggiori attributi di quanto importi il suo uffizio; e poichè nissuno può dare quello che non ha, la Chiesa essendo puramente spirituale non può dare a’ suoi ministri potestà temporale. I quali d’altronde, malgrado la loro professione, non cessano mai di formar parte dello Stato e di essere sudditi a tutti i doveri che esso prescrive; e ritenuto quello che è innegabile, che la Chiesa è ricevuta nello Stato per volontaria concessione, e non lo Stato è nella Chiesa, ne proviene per necessaria conseguenza che le leggi pubbliche debbono essere preferite, e le ecclesiastiche non sussistono che in forza di quelle prime, da cui possono essere anco abrogate.
È naturale che ogni culto esteriore ha bisogno di rendite per sussistere e per alimentare i suoi ministri; ma chiunque a ciò provveda, se il culto è nazionale, è certo che i suoi redditi appartengono alla comunità, e che la Chiesa sulle cose materiali non ha alcun possesso. Le donazioni se sono fatte senza riserva del donatore, sono come se fatte ad uso ed utilità pubblica; e il governo che è la volontà della nazione, è in obbligo di conoscerne i bisogni e di provvedervi, ed è anco in diritto di disporre di quei beni quando eccedono il fine proposto, o che necessità più urgenti lo richiedano.
Veramente il clero, sempre inteso a consecrare i suoi temporali vantaggi colla riverenza della religione, ha stabilito canoni diversi; i quali per altro non furono mai ricevuti in Venezia senza restrizioni. Gli avrebbe anco rifiutati intieramente; ma la potenza dei papi toccava già a grande altezza quando questa Repubblica cominciò a figurare sulla scena politica, e gli abusi erano così bene mutati in costume che non valeva senno di quei tempi a confutarli. Ciò nulla ostante ella conservò le antiche sue massime, che il clero è soggetto alla potestà civile, e che le leggi de’ cherici sono subordinate a quelle del pubblico. E veduto che il ministero ecclesiastico era incompatibile colle occupazioni mondane, e che il clero formando gerarchia a parte poteva diventare pericoloso allo Stato, lo segregò al tutto dall’ordine civile e lo escluse da ogni maneggio della cosa pubblica.
La stessa pratica era anco nelle altre repubbliche d’Italia, particolarmente a Firenze e Genova; ma ivi quantunque nissuno ecclesiastico potesse conseguire carica o impiego nello Stato, la deferenza per loro essendo grandissima, influivano tuttavia cogli intrighi; laddove in Venezia un ecclesiastico era assolutamente una persona morta allo stato politico, e non poteva uscire da quella condizione che egli medesimo si era eletto. Talchè non avendo il clero la minima ingerenza nella cosa pubblica, anzi essendo egli medesimo contenuto da leggi severissime e impreteribili, la potestà laica si trovava in una piena indipendenza, e la sua volontà, libera da ogni ostacolo. Alla quale sola essendo il popolo avvezzo ad obbedire, nè il clero potendo reagire in senso contrario, ne proveniva il beneficio, raro a quei tempi, di un consenso tra il governo e i sudditi.
Anticamente la Repubblica nominava essa alle dignità episcopali, cui poi confermava il pontefice; ma quel diritto lo perdette durante la lega di Cambrai per trattati con papa Giulio II. Tentò rivendicarlo sotto Clemente VII, ma dopo varie controversie colla corte di Roma cedette a patto che i beneficii fossero dati a sudditi veneziani. Ciò nondimeno si riservò sempre la nomina delle sedi patriarcali di Venezia ed Aquilea, i vescovadi di Ceneda, Torcello, Chiozza, Caorle, Scardona e Macarsca, il primiceriato e il capitolo di San Marco di juspatronato del doge, e più altri beneficii; e si riserbò eziandio un diritto più sostanziale, e fu che nissun beneficiato, tranne quelli a cui nominavano congregazioni monastiche, potesse entrare nel possesso temporale del beneficio senza esservi autorizzato dal governo, a cui pagava una tassa in proporzione delle rendite: la qual cosa significava nella massima dei Veneziani, che i beni della Chiesa erano soggetti al governo temporale; i quali beni pagavano eziandio un tributo chiamato la decima, e un magistrato apposito la esigeva. Ma per consuetudine stabilita non potevano esser gravati straordinariamente senza il beneplacito di Roma, intorno a che non sempre la repubblica si mostrava scrupolosa; onde nascevano poi litigi colla potestà ecclesiastica.
Quasi le stesse norme erano applicate agli Ordini regolari. Nissuno poteva essere superiore o amministrare i beni se non era suddito veneto: le loro scuole e le congregazioni erano soggette alla inspezione de’ magistrati pubblici.
A contenere ne’ legittimi termini un corpo ambizioso, operoso ed avido, il governo usò sempre vigilanza e severità, e ne fece un affare di alta polizia affidandone il supremo incarico al Consiglio dei Dieci. L’inquisizione nei dominii della Repubblica era ristretta ai puri e patenti casi di eresia ostinata, nè poteva, inquirire o giudicare senza l’assistenza di magistrati laici, che di solito rendevano vane le sue sentenze. Contro le bolle papali Venezia non aveva nè il placet regio nè altri privilegi; ma quando una bolla non piaceva al governo, ne sospendeva l’esecuzione, e veniva a trattative colla corte di Roma; la quale dopo qualche resistenza si componeva, ben sapendo che non avrebbe trovato esecutori; perocchè eseguire la bolla, e abitare le carceri o andare in bando era lo stesso. Se poi il pontefice si ostinava, continuava la sospensione finchè venisse un altro pontefice di più buona volontà. Dalle scomuniche degli Ordinari ciascuno poteva appellare al magistrato civile, il quale o giuste o ingiuste che fossero le sospendeva, in quanto agli effetti civili, immediatamente. Neppure le scomuniche del papa potevano essere eseguite senza il consenso del governo, che non lo dava mai; e se un cherico, fosse anco il vescovo, ardiva emanciparsene, il Consiglio dei Dieci s’inframetteva tosto, e carcere, esilio, confisca erano i soliti guadagni che facevano i preti. I Dieci annullavano persino i testamenti a favore di corporazioni religiose, quando gli eredi se ne querelavano, e indiziavano che fossero stati carpiti; e il frodatore, per soprassoma, era senza altra formalità o processo bandito in sul punto: i gesuiti ebbero a patire più volte di queste mortificazioni. Nissuno poteva invocare grazie o beneficii da Roma se non per mezzo del governo; e all’ambasciatore in quella capitale era vietato di accettare dignità o beneficio ecclesiastico senza il consentimento del Senato: se infrangeva, anco suo malgrado, la legge, pativa bando perpetuo e confisca, e tutti i suoi congiunti esclusi dai consigli. E la diffidenza per gli attentati di Curia andò tanto innanzi, che trattandosi di cosa in cui fosse interessata la corte romana si facevano uscire dai consigli i papalisti, quelli cioè o che parteggiavano per la Curia o che avevano figli congiunti nel corpo ecclesiastico.
Del resto il clero in Venezia viveva molto agiatamente, e i Regolari in ispecie, sciolti da quella soggezione che rendeva altrove incresciosa la monotonìa del chiostro, vi stanziavano volentieri, e ne partivano a male in cuore.
E per dire alcuna cosa delle provincie, il governo vi aveva assai buone radici: elle si regolavano con particolari statuti; molte libertà municipali, varii privilegi, amministrazione economa e paterna, tributi modici, assai vantaggio dal commercio della capitale, i popoli vivevano contenti e affezionati: molto più confrontando la condizione infelice delle provincie limitrofe tiranneggiate dall’inesorabile ed avaro governo di Spagna; o dove vivevano piccioli principi voluttuosi, fastosi o guerrieri, e che per sfoggiare in lusso, lascivie o soldati immiserivano i sudditi; o i vicini Stati della Chiesa dove benchè il governo fosse mite e più spenditore che esigente, gli travagliava l’intolleranza religiosa e il sindacato continuo delle coscienze. Dapertutto poi l’ingrata prepotenza dei cherici e il sanguinario Sant’Offizio, così che per quei tempi a chi viveva nello Stato veneto pareva respirare aura libera e felice, e certo era il paese più libero che fosse in Italia.