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lazioni di storie e di viaggi, e moralità di Cicerone e di Seneca: quindi a ragione diceva lo spiritoso Ganganelli che, Non vi è quasi un Veneziano, che non sia eloquente. Il teatro era un’altra scuola, se non sempre di pudicizia, almeno di brio e di pratica del mondo: le commedie, le tragedie, i drammi pastorali erano quasi sempre in lingua veneziana; e in ogni cosa Venezia essendo magnificata sopra tutti gli altri paesi del mondo, il popolo s’era avvezzato a guardarla come il solo dov’e’ potesse vivere e dove vi fosse un aere ed un sole buono per lui: nè forse a torto, se si considera che ivi traeva una vita allegra e sfaccendata, laddove sotto altri dominii la plebe giaceva oppressa, cupa e tiranneggiata dalla miseria e dal sospetto.

Quasi ovunque essa viveva stazionaria; ma a Venezia le porgevano elementi d’istruzione, di distrazione e di guadagni i continui viaggi nel Levante: e pochi erano i Veneziani di qualsiasi ceto che non avessero visitato Costantinopoli, le Smirne, la Siria o l’Egitto, o per lo meno le colonie greche della Repubblica. E o sulla terra o sul mare, o in pace o in guerra, vivendo il popolo quasi di continuo frammezzo a suoi patrizi, partecipava a tutti i loro orgogli, e s’interessava nei loro piaceri e nei loro dolori, e le felicità o le sventure erano comuni: dalla quale complicazione artificiale e morale di cose, che occupando tutte le passioni dalle supreme alle infime le dirigeva ad uno scopo unico, deve il governo veneto la quiete interna di cui godette inalterabilmente; essendo gli uomini inlaqueati, per così dire, dentro ad un sistema di abitudini da cui non potevano strigarsi senza disordine.