Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo XI
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CAPO UNDECIMO.
(1605). Tornando a’ racconti, morì Clemente VIII, Leone XI non regnò che 26 giorni e gli succedette a’ 15 giugno di quest’anno Camillo Borghese nato in Roma, di casa oriunda da Siena, che si chiamò Paolo V. Il quale educato nelle massime di Curia e da cardinale avendo esercitato con insolito rigore la carica di Auditore della Camera Apostolica, che è l’esecutore universale di tutte le sentenze e censure date dentro e fuori, aveva convertito in persuasioni della coscienza le pretenzioni romane circa le così dette immunità e libertà della Chiesa. Pieno adunque di queste dottrine, e biasimando la rilassatezza de’ suoi precessori che trascurate le avevano, si ridusse in pensiero di richiamarle a rigida osservanza e mortificare, come diceva, la presunzione dei principi. Ma ne fu distolto da singolare infermità che è merito della storia di far conoscere.
L’astrologia giudiciaria trovava molto fervore in corte di Roma, stante i desiderii e le ambizioni dei cortegiani che gli spingeva a curiosar l’avvenire e trar pronostici fortunevoli, e computazioni di prossima o lontana grandezza o probabilità di vita, e cui più, cui meno corteggiare dovevano. Di queste superstizioni Paolo V fu infatuato, ed essendo corsa una predizione che a Clemente VIII sarebbe succeduto un Leone, poi un Paolo, ambi di corta vita, sì si abbandonò per cinque mesi alla malinconia, che in ogni cosa temendo il veleno, persino i memoriali che gli porgevano lasciava, tremando, cadere per terra. A strano male fa trovato conveniente rimedio. I suoi parenti congregarono quanti astrologi e divinatori erano in Roma, i quali dichiararono che l’influsso maligno delle stelle era passato e al papa restare lunga vita. Così tornò allegro, e ai concetti disegni.
Prima cosa, cominciò a stuzzicare la Francia per l’accettazione del Concilio Tridentino e lo scemamento delle libertà gallicane; poi accattò brighe quasi contemporanee con Spagna, perocchè il re voleva che i gesuiti pagassero, come gli altri ecclesiastici, le decime, ed essi non volevano; il papa gli sostenne, cesse il re. Con Napoli, per un magistrato che aveva fatto il suo dovere reprimendo l’audacia dei cherici, cui volle che fosse consegnato alla Inquisizione; e fu. Con Malta a cagione di beneficii che il papa volle, benchè ingiustamente, dare in commenda a suo nipote; e furono dati. Con Parma e Savoia per materia beneficiaria e di giurisdizione; e Parma e Savoia si diedero per vinti. E più particolarmente colle repubbliche di Lucca e Genova per le seguenti cagioni.
Molti cittadini lucchesi avendo abbracciate le nuove opinioni religiose si erano dalla patria allontanati e carteggiavano tuttavia coi parenti ed amici: il qual commercio di lettere fu vietato con pubblico editto dal governo. Il papa approvando la legge, disapprovò che fosse fatta da potestà laica, mentre trattando di cosa ecclesiastica a lui si apparteneva provvedere. Non era che una misura di polizia civile che nulla aveva a fare colla religione; ma il papa non la intendeva così, e Lucca, piccina e debole, cedette come Spagna, Napoli e Savoia più potenti, e rivocò l’editto che poi fu per autorità del pontefice rinovato. A Genova gli amministratori di confraternite e instituzioni pie acccusati di avere sottratto a proprio utile il danaro affidatoli, furono richiesti a rendere le ragioni dinanzi a’ magistrati. Era accaduto eziandio che i gesuiti avessero instituita una delle solite loro congregazioni dove sotto pretesto di esercizi spirituali adunavano buona quantità di cittadini, dai quali i Padri pigliavano giuramento di non dare il partito per le magistrature se non a persone di quella società. Il che significava che la Repubblica doveva governarsi a talento dei gesuiti: cospirazione temeraria e degna di severo castigo; ma il governo si contentò di sciogliere la congregazione. Le quali cose sapute da Paolo V, sclamò, essere un attentato alla libertà ecclesiastica; la congregazione si rimettesse, i malversatori delle confratrìe al fôro ecclesiastico si mandassero: se no, le scomuniche stavano pronte. E Genova ancora ebbe la debolezza di cedere.
Da questi felici esperimenti inorgoglito, il papa si voltò con tutti i pensieri contro Venezia. Abbiamo già veduto i mal repressi rancori che passavano tra Venezia e la Corte; cui il nuovo pontefice indiziò di voler ravvivare. Imperocchè, oltre varie querele mosse agli ambasciatori della Repubblica andati a complimentarlo, chiesto da loro che terminasse le pendenze di Ceneda; rispose, non essere ancor tempo: che concedesse le solite decime sui clero; rispose, volerci pensare: e infine che dispensasse il patriarca Vendramin (era morto in quel torno Matteo Zane) di andare a Roma; rispose negando.
Dal canto suo la Repubblica negava di sborsar denari per la continuazione della guerra di Ungheria contro i Turchi, e di abolire una sua legge recente intorno alla tratta degli olii e alla navigazione nell’Adriatico con vascelli non veneziani o per conto di compagnie veneziane stabilite fuori di Stato, il che imbarazzava in certo qual modo il commercio delle vettovaglie portate nei dominii della Chiesa. La Repubblica aveva ragione perchè quelle compagnie erano sutterfugi degli esteri di accordo con Veneziani per eludere le dogane venete; il papa non aveva torto, e o poteva domandare mitigazione o suggerire un altro rimedio; ma l’affermare che lo Stato ecclesiastico era sacro, e che l’impedirgli per legge doganale le vettovaglie era un peccato contro la Chiesa, era un’assurdità un po’ eccessiva anco per un papa.
Ma quello di che più si offendeva erano due leggi: l’una antica del 1357, rinovata nel 1459, 1515-36-61 e confermata nel 1603, prescriveva che non più, senza licenza del governo, si erigessero chiese, ospedali o monasteri, o s’instituissero nuovi ordini religiosi, sotto pena di esilio alle persone, ed infiscazione della fabbrica e del fondo. L’altra del 1333 confermata, per la città e ducato di Venezia, nel 1536, ed estesa a tutto il dominio veneto nel 1605, vietava, sotto gravissime pene, i nuovi acquisti al clero. Providissima la prima, stantechè nello Stato vi fossero già chiese, ospedali e monasteri e preti e frati più che non ne bisognavano, e chiese giacessero in quasi abbandono e monasteri penuriassero. L’altra era voluta da imperiosa necessità e desiderata da’ sudditi, imperocchè il clero possedeva egli solo oltre il quarto e fin anco il terzo di tutti gli stabili, che per essere esenti da tributi gravavano i pesi pubblici tutti a dosso de’ secolari; oltredichè preti e frati usavano frodi infinite per carpire eredità, possessi, livelli, censi, sì che le liti erano perpetue.
Comunque sia, richiamarsi di leggi vetuste e sancite da lungo uso era veramente un mostrar desiderio di brighe, di che i Veneziani a giusta ragione si dolevano.
Ma infervorò la contesa dopo che un certo canonico Scipione Saraceno di Vicenza aveva rotto i suggelli pubblici posti al palazzo vescovile; poi, non avendo potuto ridurre alle sue libidini una dama sua parente, volle infamarla appiccando alla porta di lei cartelli di oltraggiosa bruttura. La donna ricorse al Consiglio dei Dieci, e il canonico per ambi i delitti fu portato nelle carceri decemvirali.
Lo seppe il papa dal suo nunzio Orazio Mattei, e ne mosse aspro lamento ad Agostino Nani ambasciatore veneziano: essere, diceva, violazione della libertà ecclesiastica, doversi rimettere il canonico ai fôro ecclesiastico; oltraggiare una donna, rompere suggelli non essere caso atroce perchè ne giudicassero i secolari. Poi tirò in campo le due leggi: che erano eresie e che bisognava abrogarle. L’ambasciatore instava, e ricordava che ancora Clemente VIII aveva proibito alla Santa Casa di Loreto i nuovi acquisti. Ma Paolo: molte cose essere lecite ai papi che non lo sono ai principi, essere peccato il servirsi del loro esempio, essere i papi padroni del mondo, superiori ad ogni legge, avere da Dio il mandato di fare e disfare; e quanto agli altri, tutte le virtù cristiane sono zero se non rispettano la libertà de’ cherici e non gli arricchiscono.
Intanto che il papa inveiva perchè fosse rilasciato il canonico e abrogate le due leggi, e che il Senato nel suo proposito perseverava, nacque un altro caso che intorbidò viepiù gli umori. Il conte Brandolino abate di Nervesa nel Friuli era stato portato anch’egli nelle carceri del Consiglio dei Dieci per una serie di delitti che fanno fremere. Aveva accelerata la morte a suo padre, fatto assassinare i fratelli per darne il patrimonio a’ suoi bastardi, fatti assassinare alcuni suoi rivali in amore, alcuni mariti di cui insidiava le mogli, e poi fatti assassinare i complici de’ suoi delitti; si era mescolato in amore con una sorella; aveva commesso stupri, violenze, rapine, concussioni di ogni sorte nelle terre della sua abazia: conciossiachè nel Friuli esistessero ancora feudi, ma pochi, e scemati di autorità i feudatari. Bisogna credere che anco questi non fossero casi atroci, ma parte della libertà ecclesiastica, perchè il papa montò in tanta furia che ai 10 dicembre mandò al nunzio due Brevi: coll’uno dimandava la rivocazione delle due leggi; coll’altro la consegna de’ prigioni al tribunale ecclesiastico: in ambi dichiarava il Senato incorso nella scomunica se non obbediva. Era tanta la fretta con cui si operava nel gabinetto papale, che i segretari s’imbrogliarono e non spedirono che il primo, ma in doppio esemplare, senza che dell’errore si accorgessero. Il nunzio veggendo che la Repubblica spediva un ambasciatore straordinario a Roma, credette bene di soprassedere, del che fu acremente rampognato dal pontefice che gli comandò di presentarli sul momento; ed egli li presentò il giorno di Natale, intanto che il doge Marino Grimani agonizzava, e il Senato assisteva a messa solenne cogli ambasciatori. Ed essendo morto il doge quella istessa notte, stante gli ordini della Repubblica i Brevi non poterono essere aperti fino a nuova elezione; ma il nunzio, a nome del papa, si presentò alla Signoria intimando che non eleggessero altro doge, essendo scomunicati, e conseguentemente incapaci a fare atto pubblico. Ma i Veneziani se ne risero ed elessero a’ 10 gennaio 1606 Leonardo Donato, procuratore di San Marco, versatissimo negli affari, assai pratico di Roma ove era stato ambasciatore sette volte. È fama che in una di quelle occasioni, essendo Paolo V tuttora cardinale e ragionando fra loro delle frequenti contese giurisdizionali tra Roma e Venezia: Se fossi papa, disse il Borghese, alla prima occasione vi scomunicherei. — Ed io se fossi doge, rispose il Donato, mi riderei della scomunica. Volle fortuna che l’uno fosse papa e l’altro doge, e tennero la parola.
(1606 gennaio). Aperte le lettere del papa, il Senato si avvide che in affare così delicato, e dove era risoluto di sostenersi, bisognava procedere con senno e guadagnarsi la persuasione pubblica. Fu sempre suo costume, nei casi gravi, di sentire un consultore in diritto: due ne aveva allora in carica, e un terzo chiamato ad occasione, ma era necessario un teologo e canonista, onde guidarsi in modo da difendere i suoi diritti senza lasciarsi cogliere in fallo. Elessero Frà Paolo, già noto per altri servigi prestati alla Repubblica, e in cui oltre al sapere si aggiungevano fama, illibati costumi e religione severa, e che essendo stato a Roma più volte era pratico degli usi di quella Corte, stimato da personaggi illustri della medesima, e per la sua integrità rispettato, amato e riverito dal clero e dal popolo.
Fin dai primordi della controversia era stato consultato privatamente, ed egli per essere più a portata di giudicare della cosa, scrisse a Trajano Boccalini suo amico che aveva impiego in corte di Roma, acciò lo informasse dell’umore di quella e del papa in particolare; il quale a’ 22 novembre 1605 rispose: Che Paolo V era pontefice di angelici costumi e di animo retto, ma soverchiamente infatuato delle prevenzioni di curia, e dal pensiero di condurre la Sede Apostolica a suprema monarchia; nel che, soggiungeva, troverà forse più intoppi che egli e i suoi cortegiani non credono. La Corte e il papa sdegnatissimi contro la Repubblica e la Chiesa Gallicana perchè ogni giorno tarpavano le ali all’autorità della Corte. Il pontefice essere determinato di usare gli estremi; e quand’anco non vi fosse portato da sè, bene innanzi lo spingevano i cherici, molti de’ quali odiavano la Repubblica, e di cui nissuno allora se ne trovava che da mattina a sera non studiasse sentenze legali o teologiche per dar nell’umore del papa.
Sapute queste cose, si avvide Frà Paolo che la materia era torbida, e poteva per l’ostinazione delle parti fruttare accidenti pericolosi: andava perciò consigliando vie di accomodamento prima che più oltre si procedesse. Infatti il Senato non lasciò cosa intentata, spedì a più riprese oratori straordinari al pontefice, scrisse ai cardinali di Verona e di Vicenza, Veneziani, acciocchè lo inducessero a termini ragionevoli. Ma Paolo V sì per propria concitazione, e sì per gli stimoli de’ cortegiani che si tenevano certo il trionfo, non volle saperne; e intanto dal nunzio Mattei fu presentato, come dissi, il primo Breve. I Savi del Consiglio vollero sentire Frà Paolo su quello che era da farsi, e lo pregarono a dare per iscritto il suo parere. Ma egli che sapeva come a Roma si perdonano tutti i peccati tranne il sacrilegio di chi vuole accorciare il manto al papa, se ne scusò allegando la sua condizione e i pericoli a cui sarebbesi esposto; e si ristrinse a verbali conferenze o a brevi scritture dettate con somma cautela, e in cui le decisioni teologiche erano adombrate colle solite frasi di riverenza alla Santa Sede. Ma il Senato, raccolto a’ 14 gennaio, fece decreto che lo prendeva nello speciale suo patrocinio, e da qualsiasi persecuzione lo avrebbe tutelato. Notificata questa deliberazione al Sarpi, gli fu chiesto che rispondesse alla domanda: Quali fossero i rimedi contro i fulmini di Roma.
Allora Frà Paolo, rinfrancato da quella testificazione pubblica, rispose, due essere i rimedi: l’uno di fatto col vietare la pubblicazione delle censure e impedirne l’esecuzione, resistendo alla forza violata colla forza legittima purchè non passi i termini di naturale difesa; l’altro di diritto, che è l’appellazione al futuro concilio. Il primo essere da preferirsi, ma potersi anco usare l’altro ove fosse bisogno, perchè usato da altri principi cattolici e perchè ancora la Francia e la Germania argomentavano in favore della superiorità del concilio; di che, quantunque in Italia si sostenesse il contrario, i canonisti lasciavano la difficoltà per non decisa. Pure, se si poteva, esser meglio cansarla per non irritare maggiormente il pontefice e suscitare due questioni invece di una; oltredichè chi appella suppone dubbia la giustizia della sua causa, laddove quella della repubblica era evidente.
Letta quella scrittura in Senato a’ 28 gennaio, tanto piacque per la chiarezza, l’ordine, la brevità, la sodezza delle ragioni e la prudenza de’ consigli che ad unanimità di voti il Sarpi fu nominato teologo e canonista della Repubblica con 200 ducati annui di stipendio (il ducato di quei tempi valeva 5 franchi di Francia, ma ragguagliato col valore delle derrate circa il doppio); il quale incarico prima di accettare, volle il consenso del generale dell’Ordine Frà Filippo Ferrari Alessandrino che allora si trovava in Venezia, e ne ricevette la benedizione in ginocchio.
Credo bene che sincera fosse l’obbedienza di Frà Paolo agli statuti monastici; ma fosse stata anco una formalità, il generale si sarebbe guardato dall’opporsegli, chè il Consiglio dei Dieci faceva troppa paura. Del resto bisogna avere un gran prurito di malignare le intenzioni del prossimo per supporre che il Sarpi fosse mosso da spirito di vendetta, per non essere stato fatto vescovo, a impugnare le pretensioni della Curia romana; essendochè lo stesso spirito bisognerebbe supporre negli altri molti che in quel medesimo ufficio concorsero. Fa poco onore al carattere dei preti la troppo consueta accusa che tale o tale diventò eretico o scismatico per ciò solo che non conseguì una ambita dignità cospicua della Chiesa; il che significherebbe che ordinariamente gli ecclesiastici nella scelta delle loro opinioni non tanto consultano la coscienza quanto la vanità, e che sono credenti od increduli a seconda dell’utile. Non sempre le azioni degli uomini derivano da motivi interessati; che anzi talvolta vi ha parte la fortuna, e tal altra sono l’effetto naturale di una catena di casi impreveduti dalla umana volontà, come appunto avvenne a Frà Paolo. Il quale conosceva benissimo i pericoli a cui si metteva incontro; ma la vanità anco più leggiera non avrebbe potuto presumere l’alta fama che doveva riportarne: e la diffidenza con cui si mise in su quel cammino mostra il poco desiderio che aveva di implicarvisi, e che vi fu trascinato suo malgrado dalle circostanze. Rispetto alla pretesa sua animosità contro Roma, niente è più giusto di quanto si legge in una lettera, malamente attribuita al Boccalini, che in quei dispareri Frà Paolo «ebbe sempre lo studio più in quello che conveniva tacere che pubblicare; e benchè irritato dalle persecuzioni di un pontefice nemico e di tutti insieme gli ecclesiastici aderenti di questo, che con perverse calunnie procuravano di metterlo in concetto appresso il mondo, non di eretico, ma di demonio; contuttociò moderata la sua penna dalla sua gran prudenza, osservò con squisitezza piuttosto la regola di difendere la causa comune che stimava giusta, che non già la massima ordinaria de’ vendicativi, di rispondere alle detrazioni».
Nel nuovo incarico aveva bisogno di persone a sussidio, quali a copiare, quali a estrarre dai libri o verificare in essi le sentenze degli autori. Pel primo, prese a suo scrittore, che poi lo servì di continuo, il Padre Marco Franzano, servita; e per l’altro chiamò a sè il suo allievo ed amico Padre Maestro Fulgenzio Micanzio, da Brescia, servita anch’esso, allora a Bologna lettore di teologia scolastica. Si strinse ancora in più aderente amicizia col senatore Domenico Molino, uomo di Stato in molta stima per integrità, senno, pratica di negozi, e svariate cognizioni, e con altri fra i primi senatori: da’ quali si faceva informare de’ modi del governo, della natura ed opinioni de’ magistrati, sì che potesse ne’ pareri conciliare il ben pubblico senza offendere i pregiudizi de’ privati.
Intanto il Senato, confermato ne’ suoi giudizi dal suo teologo, riscrisse in quel medesimo giorno 28 gennaio al pontefice una lettera, di cui lo stesso Frà Paolo dettò il tenore, rispettosa ma piena di sode ragioni, sostenendo il suo punto e giustificando le sue leggi intorno al divieto di nuove fondazioni pie e di nuovi acquisti al clero.
(1606 febb.) Il pontefice dalla qualità della risposta avvisando l’errore de’ suoi spedizionisti, fu sorpreso, e lo attribuì al nunzio. Poi montò in collera, rabbuffò l’ambasciatore veneto, crebbe le pretese. Nelle successioni indirette i cherici movevano spesse liti agli eredi per ragione di beni su cui pretendevano livelli od enfiteusi, e che mancando la linea diretta, dicevano dover tornare a loro; quindi incertezza ne’ possessi, dispendii nelle famiglie, querele infinite nel pubblico. Il Senato fece legge che i beni enfiteutici non potessero più tornare ai cherici, ma passassero agli eredi, qualunque si fossero, col peso del livello, quando provato. Ora il papa voleva abrogata anco questa colle altre due leggi. Infine, calmatosi, parve accondiscendere a proposte di accomodamento. Delle enfiteusi non si parlasse, fossero abolite le due altre leggi; promettendo il papa di rimetterle egli; il canonico fosse dato al fôro ecclesiastico, contentandosi che il secolare giudicasse l’abate. Dava tempo 15 giorni. L’ambasciatore scrisse a Venezia, di dove avvisato che veniva altro ambasciatore straordinario con facoltà di conchiudere, ne avvertì il pontefice. Ma questi perdette la pazienza: disse che tiravano in lungo per la speranza che intanto e’ si morrebbe; che non voleva sentir altro, e che voleva essere obbedito. E senza protrarre di pochi giorni sino all’arrivo del nuovo legato, spedì al Mattei il secondo Breve sulla consegna dei prigioni senza neppure mutarvi la data del 10 dicembre e l’indirizzo al doge morto, comandando che lo presentasse immediatamente, il che fece a’ 25 febbraio. E fu osservato che il nunzio trattenendosi a ragionamenti col Collegio e accadendo di nominare Dio o il papa, usava la medesima espressione nostro Signore; il che rendeva il suo ragionamento ambiguo: se non che quando per nostro Signore intendeva il papa si cavava la berretta; e quando Iddio, teneva coperta la testa.
(1606 marzo). La indiscreta foga e volubilità del pontefice recò non lieve sorpresa al Senato; pure non disperando di ridurlo a qualche ragionevole partito, agli 11 marzo rispose descrivendo i disordini che della impunità dei delitti negli ecclesiastici ne sarebbero derivati; e ragionando i suoi diritti, si rammaricava che il pontefice non avesse voluto aspettare ciò che era per portargli il nuovo ambasciatore, e che rimettesse sul tappeto proposte alle quali in parte aveva già rinunciato, e che quando e’ si credeva prossimo l’accordo, improvvisamente se ne trovasse assai più lontano di prima.
(1606 aprile). Andava intanto a Roma il senatore Pietro Duodo; ma il papa era talmente scaldato che non volle udir ragioni, e ai cardinali Delfino e Valiero, veneziani, che consigliavano moderazione e gli pingevano i pericoli a cui si metteva incontro, rispose adirato: Questi vostri discorsi puzzano di eresia. Lettere di Venezia lo avvertivano a non cimentarsi a vedere disprezzata la sua autorità; restasse certo, che niente di più otterrebbe di quanto gli veniva ora proferto; essere meglio un magro accomodamento fatto di buona voglia e senza scandalo, che non forse uno più magro ancora, fatto con pubblicità e per forza. Parimente lo teneva perplesso la fermezza del Senato che con rara e meravigliosa concordia votava sempre ad unanimità di suffragi. L’ambasciatore di Francia lo esortava alla pace; ma tirato dal suo mal genio, spinto dai cortegiani, a furia, di sua testa, senza udire il parere di nissuno, scrisse egli medesimo il monitorio, lo fece stampare, e a’ 17 aprile convocò il concistoro dei cardinali. Nel portarvisi, fu sorpreso da molti dubbi, si fermò in capo alla scala, ondeggiò, fu per tornare indietro; ma il cardinale Arrigoni gli fece animo: consiglio funesto.
Disceso nel concistoro proruppe in lamenti contro i Veneziani, espose le sue ragioni, la loro pertinacia, mostrò il monitorio e chiese i voti: formalità inutile, perocchè quando gli affari si portano in quel sacro collegio sono già belli e decisi nel gabinetto del papa. Il cardinale di Verona consigliò pacatezza, maturità, riflessione. Rispose il papa che ci aveva pensato abbastanza, che era sicuro di quel che diceva: quand’è così, replicò il cardinale non ho altro a ripetere. Il cardinale d’Ascoli approvò con un profondo inchino; Zappata aggiunse che i preti sotto ai Veneziani erano a peggior partito che non gli Ebrei sotto Faraone; Giustiniani, che i Veneziani non meritavano scusa, e il più soprastare era peccato; Santa Cecilia, che la causa del pontefice era causa di Dio; Bandino, prometteva al pontefice fama immortale; Colonna, che i Veneziani dovevano essere trattati più col flagello che con la dolcezza. Tutti insomma, quali per un verso, quali per l’altro concordarono nella sentenza del papa, e fecero a gara a chi dicesse enormità peggiori; ma nissuno eguagliò il Baronio, comechè dapprima consigliero pacifico e ai Veneziani favorevole. Il quale fece un discorso il cui preciso tenore è questo: Che il ministerio di Pietro ha due parti; l’una di pascere le pecore, l’altra di ammazzarle e mangiarle; che questo ammazzamento non è crudeltà, ma atto pietoso, perchè è vero che perdono il corpo, ma poi salvano l’anima. Riprendeva il Santo Padre di troppo lunga pazienza, gli mostrava che bisognava fare in fretta. E poi gongolando di gioia per quel religioso macello, diceva parergli che rinovassero i bei tempi di Gregorio VII e di Alessandro III, ambi di Siena come Paolo V, i quali prostrarono quegli iniquissimi Enrico e Federigo imperatori; e finiva con un vaticinio di trionfo, il quale, malgrado lo spirito profetico del cardinale, non si avverò.
Il papa persuaso da così luminose ragioni, o piuttosto persuaso anco senza di loro, pubblicò il monitorio; nel quale diceva che il doge e Senato e repubblica di Venezia per aver fatto tali e tali leggi che proibivano nuove fondazioni di chiese, monasteri, ospedali, e nuovi acquisti ai cherici per donazione per testamento od altro; e per aver fatto imprigionare il canonico Saraceno e l’abate Brandolino costituiti in dignità ecclesiastica: tutte cose contrarie all’onor di Dio, di scandalo al mondo, e in dannazione dell’anima; perciò dichiarava per autorità di Dio, di San Pietro e Paolo e sua propria che se fra 24 giorni non rivocavano quelle leggi e non consegnavano al suo nunzio i prigioni, fossero incorsi nelle scomuniche fulminate dalla Santa Madre Chiesa contra gli empii violatori delle immunità ecclesiastiche; e se tre giorni dopo que’ 24 giorni non si chiarissero pentiti e sommessi, egli sottoponeva all’interdetto ecclesiastico la città di Venezia e gli Stati e dominii della Repubblica, così che fosse peccato dir messa, amministrare i sacramenti, cantare l’offizio, e fino suonare le campane. E seguiva poi una filza di minacce in questa vita e nell’altra, che Dio ne guardi ogni fedel cristiano.
Queste cose a’ dì nostri fanno ridere, perchè oramai le opinioni si trovano a tal grado che nemmanco i cherici si ardirebbero di sostenerle, almeno in pubblico; e niun papa sarebbe tant’oso da fulminare un simile interdetto; ma ai tempi di cui parliamo erano cose serie. I Medici, che dispoticamente regnavano in Toscana, patirono più d’una volta le insolenze della Curia e, dissimulando la propria superbia, curvavano sotto il giogo; i re di Francia per non tirarsi addosso la nemistà dei pontefici, furono obbligati spesso a cedere ai loro capricci, ed era fresca in quel regno la rimembranza de’ funesti effetti del fanatismo religioso: Erico III fu assassinato; Enrico IV, principe di virili spiriti, fu costretto, per sottrarsi ai fulmini papali, di abiurare il calvinismo e ricevere la pubblica assoluzione nella persona del suo ambasciatore a Roma con tutte quelle formalità avvilitive che dai Romani si costumano. I re d’Inghilterra furono lungamente i mancipi dei papi, e quantunque il dispotismo di Enrico VIII fosse riuscito a fare il regno indipendente fino dal 1533, egli e i suoi successori ebbero a sostenere un’assai dura lotta contro il partito papale. Filippo II di Spagna, il terribile e potente Filippo II fu anco egli obbligato ad umiliarsi all’imperioso Paolo IV, e l’orgoglioso duca d’Alba dovette andare a Roma a implorare in ginocchio il perdono per avere combattuto in giusta guerra contro la Santa Chiesa e narrai come a Paolo V cedessero facilmente due repubbliche e l’Ordine di Malta e Spagna e Napoli e Parma. E fra tanta universale debolezza se la sola Venezia si manteneva inespugnabile, bisogna ben dire che faceva una gran prova di coraggio, e che confidasse assai nella sodezza del suo governo e nell’affezione de’ suoi popoli. Ma la resistenza che oppose questa volta, se non fu l’ultima, fu almeno decisiva.
(1606 Maggio). Pubblicati in Roma i cedoloni e diffusi colle stampe dappertutto, il Senato pensò ai modi di resistenza. Pareva a molti che si dovesse appellare dal papa al concilio, e fu richiesto Frà Paolo di produrre le ragioni con cui si poteva sostenerlo. Il quale in una scrittura di poche pagine sviluppò una materia per cui altri avrebbe impiegato un tomo. Propone prima le difficoltà de’ Curiali e de’ politici contra le appellazioni, e le discioglie; indi prova la superiorità del concilio sul pontefice con fatti dedotti dalla storia e dalle autorità dei Padri della Chiesa; e conchiude per le appellazioni.
Ma quando si venne alla pratica, sursero difficoltà imprevedute. Frà Paolo istesso si avvide che come rimedio di diritto, era poco; come rimedio di fatto era niente. Altre volte la Repubblica nei ponteficati di Sisto IV e Giulio II aveva appellato dal papa al concilio: nella prima occasione, felicemente; nella seconda, no; e però quel rimedio fu rigettato come al tutto inutile. Frà Paolo chiamò a rassegna il diritto pubblico ecclesiastico francese, ma dopo assai maturare trovò che i mezzi adoperati in quel regno non servivano alla Repubblica stante la diversità delle instituzioni; e che infine il migliore espediente era quello di attenersi a quanto già innanzi aveva proposto; cioè alle vie di fatto, che erano più semplici e meglio lasciavano aperto il varco ad accordi.
Tutte queste ragioni da lui esposte al Collegio, e dal Collegio portate in Senato, fecero deliberare questo corpo conformemente a quanto avvisava il Consultore.
E però a’ 6 maggio pubblicò due manifesti, di cui, come di tutte le altre carte pubbliche che avessero affinità colla teologia, il Sarpi dettava il tenore o rivedeva la redazione del segretario: l’uno diretto ai Comuni, nel quale il Senato li informava della necessità e utilità del suo operare, dei torti del pontefice insussurrato da perversi consigli, e del fulminato interdetto; conchiudendo che siccome lo aveva incontrato non per demerito proprio, ma per la protezione e difesa de’ beni e dell’onore dei sudditi, così essi ancora procurassero in ogni evento di difendere le ragioni comuni e le loro particolari. L’altro diretto a tutto il clero dello Stato: dichiarava che il Breve monitorio del papa era contrario alla Scrittura, ai Padri, ai canoni della Chiesa, in pregiudizio dell’autorità secolare, perturbatore della quiete, scandaloso, e conseguentemente nullo e illegittimo; e comandava al clero non l’osservasse, e continuasse i divini uffici come sempre; e che quella protesta fosse affissa a tutti i luoghi pubblici, acciocchè pervenisse anco a Sua Santità, per la quale pregassero Dio che la inspirasse a conoscere i suoi torti.
Ciò si chiamava, nella sentenza dei Curiali, aggiungere eresia ad eresia, perocchè tengono l’infallibilità del papa come un dogma così indisputabile, come è indisputabile che gli angoli di un triangolo sommano pari a due angoli retti; e a chi oppone che tale o tal papa ha sbagliato, trovano argomenti, per provare che anco sbagliando era infallibile.
Fatta quella protesta che il nunzio prima di partire ebbe la mortificazione di vedere affissa alla sua porta, i Dieci presero le più severe misure per ovviare a’ tumulti. Mandarono ordine ai cherici e frati che le lettere ricevute da Roma, così suggellate come erano, fossero a loro trasmesse; e fecero invigilare i confessori acciocchè con artifizi occulti non sobillassero le coscienze. Alcune minacce e pochi esempi di rigore fecero noto che non burlavano. Un curato di Venezia serrò la sua chiesa: gli fu piantata la forca dinanzi alla casa, e il curato, non gli piacendo la gloria dei martiri, aprì. Il vicario capitolare di Padova intimato di consegnare i dispacci che fosse per ricevere da Roma, rispose, faria ciò che lo Spirito Santo gl’inspirerebbe. A cui il Podestà: «Lo Spirito Santo ha già inspirato l’eccelso Consigilo dei Dieci di far impiccare chiunque non obbedisce». E il vicario obbedì.
I frati ebbero comandamento dai loro superiori da Roma che osservassero l’Interdetto, e non potendo, partissero. Ma a loro spiacendo la partenza impetrarono dai Dieci un decreto che la impediva sotto pena di morte, e quello mandarono a Roma.
Fra tutti gli Ordini religiosi che vivevano agiatamente a Venezia, i gesuiti non erano dei meno obbligati: avevano collegi nella capitale, a Padova, a Verona e persino in Candia, posto importante a quei Padri che in ogni stagione allo zelo di propaganda unirono molta capacità pei traffichi; perchè portando ai paesi infedeli la vera fede e le indulgenze del papa, ne riportavano in ricompensa bastimenti di mercanzie: e per loro Candia era una scala eccellente così per le conversioni come pel commercio col Levante. Introdotti in Padova nel 1546, e tre anni dopo in Venezia, in sessant’anni si erano talmente arricchiti che dagli Stati di quella Repubblica traevano una rendita annua di 100,000 scudi (600,000 franchi) o più. Cionnondimeno le presenti discordie erano in gran parte dovute ai loro intrighi, sperando essi di maneggiare a loro piacere, e darsi anco in Venezia quella ingerenza negli affari di Stato che avevano usurpata altrove, e che non avevano mai potuto conseguire colà. Per le quali cose certificarono in sulle prime il governo che non osserverebbero l’interdetto; promettendosi che avrebbero potuto meglio giovare alla causa del pontefice coll’usare le solite loro arti restando, che non coll’andarsene. Intanto facevano correre messaggi, e corrieri continui da Venezia e da Ferrara a Roma e viceversa, mandando e ricevendo avvisi. Insussurravano anco gli altri Ordini religiosi, e nella loro condotta mostravano ambiguità e doppiezze molto sospettose. Il Collegio informato delle loro mene, gl’intimò che dovessero esplicitamente dichiarare quello che intendevano fare. Ridotti alle strette, risposero che non osserverebbono l’interdetto, che celebrerebbono come al solito i divini uffici; ma non la messa, che per la sua eccellenza non è compresa nell’ufficio divino. Ebbero comandamento di sgomberare. Chiamarono a furia le loro penitenti, le truffarono a denari, le corruppero con superstizioni, saccheggiarono le chiese proprie e i collegi, arsero le confessioni scritte e le regole secrete della setta, e traffugarono le più preziose robe; quattro casse ne furono trovate in casa di un mercante Franzini, sette od otto altre cassette furono staggite intanto che le sottraevano per barca: in luogo occulto del convento furono scoperti crogiuoli e fornelletti ad uso di fondere metalli. Scomparsi i calici, le patere, gli ostensorii, i doppieri, le lampane di oro o di argento, i ricchi addobbi, ai magistrati presentatisi per ricevere l’inventario non consegnarono che pochi e non molto pregevoli effetti; e le ladrerie furono così notorie, che ne provarono scandalo persino i gesuiticoli. E i gesuiti, profondi nella ipocrisia, partirono tutti con un crocifisso al collo, simulando passione di martiri, e con aria mortificata e penitente come se Cristo scappasse con loro. Ma il popolo che gli conosceva, sdegnato alle loro fraudi, poco mancò non gli ammazzasse; e convenne farli scortare da’ sbirri fra schiamazzi e fischi della plebe. Gli seguitarono i teatini, pochi in numero; i riformati di San Francesco; e i cappuccini, quei soli della capitale sedotti dai gesuiti: i cappuccini delle provincie dove non erano gesuiti, come ancora gli altri Ordini, stettero fermi col governo; e i monaci di Chiaravalle offersero al Senato 100,000 ducati per sopperire alla guerra che pareva imminente.
Del resto fu interrotta ogni comunicazione tra Roma e Venezia, da quella partì l’ambasciatore, da questa il nunzio: e il mondo attonito a un avvenimento affatto nuovo e portentoso di gravi conseguenze, stava attento e curioso a vederne il fine.