Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno/Atto I

Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera nel Palazzo del Re.

Il Re, la Regina, Aurelia, Erminio. Paggi e Servi Reali.

  Coro.

  Amor discenda
  Lieto e sereno;
  Fecondo renda
  D’Aurelia 0 seno,
  E doni pace
  D’entrambi al cor..
Re. Germana, è questo il giorno
Fortunato per voi. Principe, alfine
Consolato sarete. Il vostro affetto,
Benchè celato in petto,

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Penetrai, non mi spiacque, e fui contento:

Delle vostre dolcezze ecco il momento.
Regina. Principi, a parte anch’io
Son del vostro piacer. So quanto amaro
Sia il sospirar d’amore,
Quanto mi costi d’Alboino il core.
Erminio. Sire, donna real, grazie a voi rendo
Per cotanta bontà. La cara sposa
Stringo contento al seno,
E di gioia e d’affetto ho il cor ripieno.
Aurelia. Io del real germano,
Della regia cognata ammiro e lodo
L’alta clemenza, e del mio fato or godo.
  Coro.
  Amor discenda
  Lieto e sereno;
  Fecondo renda
  D’Aurelia 0 seno,
  E doni pace
  D’entrambi al cor.
Re. Amico, in questa alpestre
Parte romita, ove abitar io soglio
Nella calda stagion, godremo in pace
Giorni lieti e tranquilli. Io le regali
Cure depongo, ed a cacciar le belve,
Alle rustiche feste,
Ed ai giochi innocenti1 mi preparo;
Ch’ogni piacer, qualor diletta, è caro.
Regina. Tutto grato mi fia, nulla noioso,
Vicina al caro sposo.
Aurelia. Sempre lieto il mio cor mi balza in petto,
Quando sono vicina al mio diletto.

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Re. Bell’amor!

Erminio.   Bella fè!
Re.   Che bell’amarsi
Senza il morso crudel di gelosia!
Aurelia. Non vuò la pace mia
Coi sospetti turbar.
Regina.   Sì, sì, godiamo,
Tutti fè, tutti amor, tutti costanza,
Lontani ormai dalla odierna usanza.
Erminio. Siete forse gelosa?
Regina.   Io non so dirlo,
Io non giungo a capirlo;
Ma se meno mi amasse il caro sposo,
Giustamente il mio cor saria geloso.
Tanti provai tormenti,
Pria di trovarmi al caro laccio unita,
Che alfin pietoso amore
Non vorrà incrudelir contro il mio core.
  Bastan gli affanni miei,
  Basta la pena mia,
  Senza che un tuo sospetto
  Turbi il mio dolce affetto,
  O gelosia crudel.
  Perder saprei l’impero,
  Viver tra rie catene.
  Purché il mio caro bene
  Meco non sia infedel.

SCENA II.

Il Re, Aurelia ed Erminio.

Erminio. Ciò che si cela in cor, palesa il labbro.

La regina è gelosa.
Re.   Ah sì! pur troppo,
(parte

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Mi crucia, mi tormenta;

L’amo, l’adoro, e mai non è contenta.
Erminio. Deh per amor del Cielo, Aurelia cara,
Non mi fate impazzir.
Aurelia.   Bravo, mi piace.
Dunque dovrei con pace
Soffrir senz’aprir bocca?
Son giovinetta, è ver, ma non son sciocca.
  Qualor di fiero ardore
  Sento avvamparmi il core,
  Non so soffrire in pace
  I torti del mio ben.
  È ver, v’amo e v’amai,
  Ma non sperate mai
  Che tollerar io voglia
  La gelosia nel sen. (parte

SCENA III.

Il Re ed Erminio.

Re. Buon per noi, che lontani

Da femmine vezzose,
Le nostre donne non saran gelose.
Erminio. Eh, qui pur vi sarebbe,
Tra le rustiche genti,
Qualche vaga beltà da far portenti
Una, Sire, ve n’è fra l’altre tante
Di soave sembiante,
Sì vaga e spiritosa,
Che la regina potria far gelosa.
Re. E chi è costei?
Erminio.   Menghina,
Moglie d’un certo Bertoldin, ch’è figlio
Del famoso Bertoldo, a voi ben noto:

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Vecchio d’alta malizia, e di gran senno;

Ed ha un figlio chiamato Cacasenno.
Re. Facciamla a noi venir.
Erminio.   Ma non vorrei...
Intendiamoci ben.
Re.   No, prence, andate;
Tutta a me conducete
La rustica famiglia.
Divertirmi e non altro oggi pretendo.
Erminio. V’obbedirò. (La commissione intendo).
Ma ecco che sen viene
Il buon vecchio Bertoldo. Egli ha saputo
Della vostra venuta;
E la sua mente astuta
Con qualche ritrovato
A venirvi a veder l’ha consigliato.
Re. Quel villan s’introduca. (ad un Servo
Erminio. Io so ch’è impertinente,
Che sprezza il regio impero.
Re. Innanzi a me non parlerà sì altero.
So che rustica gente
Usar non sa delle creanze il modo;
Ma so che col villan triste e briccone,
Se la ragion non val, s’usa il bastone. (parte

SCENA IV.

Bertoldo e detti.

Bertoldo. Riverisco, o signor, con umiltà,

Non già voi, ma la vostra maestà.
Re. Perché parli così?
Bertoldo.   Perchè, per dirla,
V’apprezzo come re di questo impero,
Ma come uomo non vi stimo un zero.

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Re. Dunque, s’io non regnassi,

Meritar non potrei da te rispetto?
Bertoldo. Signor, vi parlo schietto:
Tutti nudi sian nati,
Tutti nudi morremo;
Levatevi il vestito inargentato,
E vedrete che pari è il nostro stato.
Erminio. Troppo libero parli.
Bertoldo.   A me la lingua
Pel2 libero parlar formò natura:
Quel che sento nel cor, dico a drittura.
So che sincerità fra voi non s’usa,
Che dalla Corte esclusa,
La bella verità sen va raminga;
So che convien che finga,
Chi grazie vuol sperar dal suo sovrano;
So che l’uomo da ben fatica invano.
Io, che grazie non curo,
Che insulti non pavento,
Dico quel che mi pare, e quel che sento.
Re. (L’audacia di costui non è disgiunta
Da un maturo consiglio). Amico, io lodo
La tua sincerità. Ti bramo in Corte.
Vuoi tu meco venir?
Bertoldo.   Venir in Corte?
S’io venissi colà, povero voi!
Poveri i cortigiani! In poco tempo
Scoprir vorrei, con il mio capo tondo,
I vizi della Corte a tutto il mondo.
Erminio. Di quai vizi favelli?
Bertoldo. Non mi fate parlar: segrete trame,
Maldicenze pungenti,
Calunnie, tradimenti,

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Sdegni, amori, rapine e crudeltà...

Non mi fate parlar, per carità.
Re. Puoi la lingua frenar?
Bertoldo.   Non sarà mai.
Tutto tor mi potrebbe un re severo,
Ma non la libertà di dire il vero.
Re. Adunque in povertà viver tu vuoi?
Bertoldo. Son più ricco di voi.
Erminio. Come potrai dir ciò?
Bertoldo. Lo dico, e il proverò.
Il re non può far niente
Senz’oro e senza gente;
Io che raccolgo della terra il frutto,
Mangio e bevo a mia voglia, e faccio tutto.
Re. Orsù, dimmi, che vuoi?
Bertoldo.   Nulla.
Re.   E a qual fine
Da me venisti?
Bertoldo.   A rimirar se il corpo
De’ monarchi è diverso
Da quel di noi villani.
Voi avete le mani,
E la testa e le gambe, come me.
Dunque tanto è il villano, quanto il re.
Erminio. Così parli al sovrano?
Bertoldo. Io parlo da villano;
E se un tale parlar vi dà dolore,
lo dunque me ne vado, e v’ho nel core.
Erminio. Parti senza inchinarti?
Re. E sdegni di cavarti il tuo cappello?
Bertoldo. Se scopro il mio cervello,
Poss’anco raffreddarmi,
Nòè la vostra maestà potrà sanarmi.
Re. Dunque siete sì rozzi?
Qua non s’usa fra voi la civiltà?

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Bertoldo. Queste sono pazzie della città.

  Quando s’incontrano
  Per la città,
  Servo umilissimo,
  Padron carissimo,
  Il Ciel la prosperi
  Con sanità;
  E nel cor dicono,
  Possa crepar.
  Tutti si abbracciano,
  Tutti si baciano,
  E si vorrebbero
  Tutti scannar.(parte

SCENA V.

Il Re ed Erminio.

Re. Non mi spiace costui. Felice il mondo,

Se parlasse ciascun con libertà.
Povera verità da noi sbandita!
Eccola in questa parte erma e romita.
Deh procurate, amico,
Che a me torni Bertoldo, e seco venga
Tutta la sua famiglia.
Erminio.   Anco Menghina?
Re. Già s’intende.
Erminio.   Sì, sì, capisco adesso,
Povera verità da noi sbandita!
Eccola in questa parte erma e romita.
Re. Ma non crediate già...
Erminio.   Son buon amico;
Difendetemi voi dalla regina,
E a’ vostri piedi condurrò Menghina. (parte

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SCENA VI.

Il Re solo.

Ah sì, pur troppo è ver, che di Menghina

Lo spirto e la beltà m’alletta e piace.
Mi ha rapita la pace.
Erminio non lo sa, crede che nuova
M’abbia agli occhi apparir la sua bellezza;
Ed è quest’alma ad adorarla avvezza.
Buon per me, che finora
La regina mia sposa,
Pazzamente gelosa,
Non ha di quest’amor verun indizio,
Per altro andria la Corte a precipizio.
So che a troppo m’espongo
Volendola vicina al fianco mio;
Ma ohimè, che il cieco dio
Comincia sul mio cor a prender forza,
E a poco a poco a delirar mi sforza.
  Sento che nel mio seno
  Questo novello amore
  Stringe fra’ lacci il core.
  Oh Dio, trovassi almeno
  All’amor mio pietà!
  Temo che la bellezza,
  Che far mi può contento,
  Non curi il mio tormento.
  La donna ai boschi avvezza,
  Un re non amerà. (parte

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SCENA VII.

Campagna vasta e montuosa sparsa di colline, con albero in mezzo isolato,
e varie capanne, e rustici alberghi, con ponte levatore praticabile,
che introduce nel Palazzo Reale.

Bertoldo a sedere, mangiando castagne. Bertoldino con la zappa,
lavorando il terreno. Menghina filando. Cacasenno sopra
un albero, raccogliendo frutti. Altri Villani e Villane
sparsi qua e là per la campagna, e cantano
come segue.

  Tutti.

  Qua si fatica,
  Qua si lavora,
  Ma quando è l’ora,
  Si mangierà.
  Viva cantiamo
  La libertà.
Bertoldo. Belle campagne!
Dolci castagne!
Menghina. Sia benedetta
La libertà.
Bertoldino. Con questa zappa
Cavo una rappa.
Cacasenno. Correte tutti: (dall’albero
Che buoni frutti!
  Tutti.
  E quando è l’ora,
  Si mangierà.
  Viva cantiamo
  La libertà.
Bertoldo. Sono, figliuoli,
Cotti i fagiuoli.

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Cacasenno. Eccomi lesto,

Eccomi qua. (scende dall’albero
Bertoldino. Oh che animale!
Menghina. T’hai (atto male?
Cacasenno. No, cara mamma, (a Menghina
Caro papà.(a Bertoldino
Bertoldo. Cacasennino.
Cacasenno. Nonno bellino.
  Tutti.
  Viva cantiamo
  La libertà.
(parte Bertoldo con i Villani e le Villane
Cacasenno. Mamma, papà, vorrei...
Bertoldino.   E che vorresti?
Cacasenno. Vorrei...
Menghina.   Parla, asinaccio.
Cacasenno. Vorrei che mi donaste un castagnaccio.
Menghina. Va dal nonno, e l’avrai.
Bertoldino.   Che bel ragazzo!
Tu sei molto ben fatto;
Pare appunto, Menghina, il mio ritratto.
Menghina. Veramente tu sei caro e bellino...
Bertoldino. Son il tuo Bertoldino;
Questo de’ nostri amori è il dolce frutto:
Ora somiglia tutto
Anco al tuo viso bello,
Ed avrà con il tempo il mio cervello.
Cacasenno.   Addio, mamma...
Menghina. Vien qua; cos’hai là dentro?
Cacasenno. Niente, niente.
Menghina.   Briccone.
Lasciami un po’ vedere.
Metti giù queste pere.
Bertoldino. Eh lascialo un po’ stare.

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Menghina. Lo faranno crepare.

Cacasenno.   Eh mamma, no.
Menghina. Lasciale, dico, o ch’io ti batterò.
Cacasenno. Tenete, mamma brutta.
Menghina. A me questo, briccone!
Dov’è, dov’è un bastone?
Non voglio esser beffata.
Prenditi, mascalzone, una guanciata.
Cacasenno.   Ahi, ahi, nol farò più,
  Aiuto, mio papà,
  La mamma ha dato a me.
  Mai più, no, no, no, no,
  Mai più dirò così. (parte

SCENA VIII.

Bertoldino e Menghina.

Bertoldino. Povero Cacasenno!

Non vuò che gli si dia.
Menghina.   L’alleverai
Qualche cosa di buono. In questa guisa
Si rovinano i figli;
Se la madre i riprende,
Il padre li difende,
Se il padre li bastona,
La madre gli perdona.
L’uno all’altro nasconde il lor difetto,
E li rovinan poi per troppo affetto.
Bertoldino. Io non so tante istorie.
Sei troppo dottoressa.
Ho inteso dir più volte da mio padre:
Delle femmine questa è la dottrina:
L’ago, il fuso, la rocca e la cucina.
Menghina. Son donna, è vero; è ver, son nata vile,

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Ma ho spirto e cuor civile.

Volesse il Ciel che anch’io,
Qual fu la madre tua saggia Marcolfa,
Andar potessi in Corte. Io ti prometto,
Che vorrei mi portassero rispetto.
Bertoldino. Orsù, finché si cuociano 3 i fagiuoli,
Lavoriamo anche un poco.
Tu con la tua racchetta,
Ed io raccoglierò di questa erbetta.
Menghina. Sì, lavoriamo, e intanto
Mi spasserò col canto.
  «Ciascun mi dice, ch’io son tanto bella,
  «Che sembro esser la figlia d’un signore,
  «Chi m’assomiglia alla Diana stella,
  «Chi m’assomiglia al faretrato Amore.
  «Tutta la villa ognor di me favella,
  «Che di bellezza porto in fronte il fiore.
  «Mi disse l’altro giorno un giovinetto,
  «Perchè non ho tal pulce nel mio letto».

SCENA IX.

Erminio dal ponte levatore, frattanto che Menghina canta,
scende e vien al basso.

Erminio. Donna gentile e bella,

Ditemi, siete quella
Che rsì dolce cantò?
Menghina. (Con costui mi vergogno). Signor no.
Erminio. Dunque chi fu?
Menghina.   La nostra pecorara
Ch’abita qui vicina.
Erminio. Eh via, cara Menghina,

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Io v’ho sentito con le orecchie mie.

Non istà ben a dir delle bugie.
Bertoldino. Chi è costui? cosa vuol?
Erminio.   Amico, io vengo
A ritrovarti d’ordine del re.
Bertoldino. Questo re, questo reo, che vuol da me?
Erminio. Vuol che venghiate a Corte.
Bertoldino. E cos’è questa Corte? è maschio o femmina?
Si mangia o pur si semina?
Non l’ho veduta mai.
Erminio. Vien meco, e la vedrai,
Ed in essa farai la tua fortuna.
Bertoldino. Io farò la fortuna? Oh questa è bella.
Tanti anni son, che la fortuna è fatta.
Che ne dici, Menghina? Oh bestia matta!
Menghina. Perdonate, signore,
La sua simplicità.
Erminio.   Nulla m’offendo;
So l’innocenza sua. Ma voi, Menghina,
Ricusate accettar la regia offerta?
Menghina. Bertoldin, che ne dici?
Quel cavalier mi vuol guidar in Corte;
Sei contento ch’io vada?
Bertoldino. Non mi par buona strada.
Tu sei una villana,
E ti vorrian far far la cortigiana4.
Erminio. Male non sospettar. Starà Menghina
Presso della regina.
Bertoldino. Eh, signor caro,
Credete ch’io non sappia,
Che le femmine accorte
Sanno far le mezzane anco al consorte?
Erminio. Ma il re comanda, ed obbedir tu dei.

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Bertoldino. Che vuol dai fatti miei?

Menghina. n Via, Bertoldino,
Caro, caro, carino,
Andiamo un poco in Corte,
Forse migliorerem la nostra sorte.
Tutto il dì si fatica,
Facciam di noi strapazzo,
Senza un po’ di sollazzo, e finalmente
Poco si mangia, e non si avanza niente.
Bertoldino. Sì, sì; sentito ho a dir che in la città
Certa gente si dà,
Che senza faticar sazia sue voglie
Col beneficio d’una bella moglie.
Ma io ti parlo schietto,
Povero esser vorrei, non poveretto.
Menghina. Sciocco che sei! Per tutto,
Chi giudizio non ha, si rompe il collo.
Il soverchio timor la donna offende;
E chi pazzo pretende
La donna tormentar con gelosia,
Quello gl’insegna a far che non faria.
Bertoldino. Quando dunque è così, vattene pure.
Menghina. Ancor tu dei venir.
Bertoldino.   Verrò, ma prima
Voglio dal padre mio qualche consiglio,
E vuò meco condur anco mio figlio.
Menghina. Sì, sì, ne avrò piacer.
Erminio.   Via, su, venite, (a Menghina
Porgetemi la man.
Bertoldino.   Non ha bisogno;
Sa camminar da sè.
Menghina.   Vuol la creanza,
Che si vada all’usanza.
Benché tra boschi nata,
Del costume civil sono informata.

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  Io so quel che costumano

  Le donne in la città:
  Due cicisbei le servono
  Un qua, l’altro di là.
  La testa sempre in giro,
  Qua un vezzo, là un sospiro,
  Ma tutti due li mandano...
  Voi m’intendete già.
  I cicisbei si credono
  Di posseder quel core;
  Ma un giorno poi si avvedono
  Del concepito errore,
  E poscia se la battono
  Con tutta civiltà. (parte

SCENA X.

Bertoldino solo.

Ora son imbrogliato;

Vorrei andar, e non vorrei andare;
Partir vorrei... ma poi vorrei restare;
S’io vado innanzi al re, cosa farò?
Ei mi farà paura, io tremerò.
Ma se qui resto a far i (atti miei,
Senza di me cosa farà colei?
La mano in mia presenza
Gli diè senza licenza,
E parlare sarebbe una increanza...
Qualche più bella usanza
In Corte vi sarà su tal proposito.
Ma s’io vado... e se vedo... e se mi scotta...
Farò quel che da tanti a far io sento,
Soffrirò, tacerò per complimento.

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  Sento, ohimè, che il mio cervello

  Già mi sbalza in qua e in là;
  Io non vedo che mi faccio,
  Che mi dico, e dove sto.
  Il mio core poverello
  Pare un ferro già infocato;
  Tra l’incudine e il martello
  È battuto e martellato,
  E riposo più non ha.
  Tuppe tu, ta, ta, pa, ta.
  S’ha da dir per sto contorno,
  Che Menghina se ne va?
  Ma perchè? fammi capace,
  Bertoldino, non ri piace?
  E pur ella se n’andrà5.
  Ma c’è quest’altro imbarazzo,
  Che s’io parlo, sembro un pazzo,
  E dirà tutta la gente:
  Villanaccio, ben ti sta. (parte

SCENA XI.

Camera Reale.

La Regina, poi il Re e Servi.

Regina. Possibile che tanto

Possa lungi da me star il mio sposo?
Ahi, che meno amoroso io lo pavento.
Un solo, un sol momento,
Lasciar non mi solea. Pur troppo è vero,
Dopo quei giorni di primier diletto,
Si stanca l’uom del maritale affetto.
Re. Mia cara.
Regina.   Ah, se tal fossi,

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Men lontano da me trarresti l’ore.

Re. Io mi trattenni, o cara,
Con la nostra Lisaura,
Frutto de’ nostri coniugali amori;
Ella, ancorché bambina,
Mostra spirto reai ne’ suoi prim’anni.
Regina. De’ miei penosi affanni
Più non mi dolgo, se l’amata figlia,
Con innocente amore,
Gli amplessi mi usurpò del genitore.
Re. Lieto son io del vostro amor; conosco,
Cara, quanto mi amate, e quanta pena
Vi prendete per me. Grato ne sono;
Ma vorrei che l’affetto,
Disgiunto dal sospetto,
Vi lasciasse goder tutto il contento,
Senza provar di gelosia il tormento.
Regina. Impossibil mi fia
Amarvi, e non morir di gelosia.
  Teneri affetti miei.
  Vi sento, sì, vi sento,
  E in così fier momento
  Provar mi fate, oh Dei!
  La pena del morir.
  Ma voi tacete omai;
  Sarà più bella assai
  La gioia mia, se tanto
  È fiero il mio martir. (parte

SCENA XII.

Il Re, poi Menghina.

Re. Nuova specie di pena io provo al core

V’è chi langue d’amore,
Non trovando pietà nel caro oggetto;

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Io tormentato son dal troppo affetto.

Ma ecco a me sen viene
La vezzosa Menghina,
Tutta grazia e beltà.
Menghina. Fo riverenza a vostra Maestà...
Re. Siete molto graziosa!
Menghina. Vostra Maestà mi burla.
Re. No, cara, dico il vero,
Menghina. Io non vi credo un zero:
Quella parola “cara„
Mostra che voi di me prendete gioco,
Mentre cara, non son, ma vaglio poco.
Re. Bella vivacità! Dunque comprarvi
Posso sperare.
Menghina. Io non son qui venuta
Per vendermi, signor; son già venduta.
Re. Ma quel che v’ha comprato,
Non sembra di voi degno.
Meritereste un regno,
Cara la mia Menghina.
Menghina. Vostra non son, ma vostra è la regina.
Re. Se innalzarvi pretendo,
Nell’onor non v’offendo.
Menghina. Ed io, purché l’onor non abbia intoppi.
Mi lascierò innalzar fin sopra i coppi6.

SCENA XIII.

Bertoldino e detti.

Bertoldino. Bondì a vussignoria.

Chi siete voi? Che fate con mia moglie?
Re. Non vedi? Il re son io.
Bertoldino.   Voi siete il re?
Oh bella! oh bella, affé!
Sentendovi per grande

[p. 254 modifica]
Chiamar da genti tante,

Io credevo che foste un gran gigante.
Re. Grande è detto il monarca
Per il poter che sovra gli altri stende.
Bertoldino. Ho capito. S’intende,
Che vogliate il poter stender ancora
Sovra la moglie mia?
Con buona grazia di vussignoria.
(vuol condur via Menghina
Menghina. Dove mi vuoi condur?
Bertoldino.   Alla capanna,
Ove niun fuor di me
Stenderà il suo poter sovra di te.
Re. No, no, resta, e vedrai
Che contento sarai. Olà si porti
Al grazioso villano
Vesti da cortigiano.
Sia da tutti servito,
Rispettato, obbedito;
Ma se fa il pazzo, e al voler mio s’oppone,
Sopra di lui s’adoperi il bastone. (parte

SCENA XIV.

Bertoldino, Menghina, poi Servi con abiti di Bertoldino.

Bertoldino. Oh che bel complimento!

O cambiar il giubbone7,
O provar il bastone. Ah! moglie mia,
Questi son tanti pazzi: andiamo via.
Menghina. Pazzo sei tu...
Bertoldino.   Non voglio
Entrar in qualche imbroglio.
Andiamo, andiamo... Ohimè! chi son costoro?

[p. 255 modifica]
Che volete da me? Non vuò spogliarmi.

No, no, no; ri, sì, sì; come volete.
(I Servi vanno vestendo Bertoldino, ed egli si va lamentando
  Lasciate... non potete...
  Adagio... mi strozzate...
  Che diavolo mi fate?
  Non voglio, no, non voglio...
  Lasciatemi la testa...
  Che bricconata è questa?...
  Aiuto... son tradito.
  Aiuta tuo marito 8... (a Menghina
  Certo, se io vado in corso,
  Mi diranno le genti, guarda l’orso.
(i Servitori lo salutano, e partono
  Il malan che vi colga.
  Povero Bertoldino!

SCENA XV.

Bertoldo e detti.

Bertoldo. Oh che bella figura!

Che gran caricaturai
Bertoldino. Aiuto, padre mio; m’hanno tradito.
Menghinla. Anzi così vestito
Ei pare un amorino.
Bertoldo. Viva il buon gusto!
Menghina.   Evviva Bertoldino!
Bertoldo. Perchè piangi, babbion? di che ti lagni?
Bertoldino. Perchè tutta la gente
Di me si riderà.
Bertoldo.   Ciò non t’importi.
Si sa che nelle Corti,
Più assai che i dottoroni,

[p. 256 modifica]
Si stimano i buffoni.

Purché bolla il pignatto,
Che importa comparir buffone o matto?
Bertoldino. Vi dico, che non voglio.
Tutti, tutti vi mando, e qui mi spoglio.
Bertoldo. Ferma, (erma, non conviene.
Sei pur bello! stai pur bene!
Menghina. Col vestito alla francese
Tu mi sembri un gran marchese.
Bertoldino. Questo imbroglio - non lo voglio.
Bertoldo. Ferma, ferma, no, non far.
Menghina. Non sprezzar la nobiltà.
Bertoldino. Deh lasciate... in carità.
Menghina. Ti dirà tutta la gente,
Signor conte, a lei m’inchino.
Bertoldo. Tutto il mondo riverente
Farà inchino a Bertoldino.
Bertoldino. Non m’importa niente, niente.
Oh sgraziato, oh me meschino!

Bertoldo. a due Oh che vezzo! Oh che beltà!
Menghina.
Bertoldino. State zitti in carità.


Fine dell’Atto Primo.


s

  1. Nelle antiche stampe: gioch’innocenti.
  2. Nell’ed. Fenzo, 1749: per.
  3. Ed. Zitta: cuocono.
  4. Nelle stampe del Settecento: corteggiana.
  5. Ho cercato di correggere la punteggiatura che nell’ed. Fenzo è del tutto errata ma questo luogo non riesce chiaro.
  6. Voce dialettale, per tegole.
  7. Ed. Fenzo: giuppone.
  8. Zatta: Ajuto, tuo marito...