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236 ATTO QUARTO

SCENA VII.

Talete, poi Zeontippo.

Talete. Qual mistero in que’ detti? Io non intendo

Della regina il ragionar confuso.
Scoperto ha forse in un pastor ignoto
Qualche arcano celato? Oh Dei! Sarebbe
Nicandro? il figlio suo? Ma se tal fosse,
Perchè scacciarlo crudelmente? Avrebbe
L’oracol forse paventato in esso?
Mille ho sospetti, e non ne abbraccio alcuno.
Ma il sol sen vola all’occidente in seno,
E la regina, or che la notte imbruna,
Tardar non deve ai sacrifizi usati.
Cercherò s’ella torna... Un vecchio parmi
Tentar dell’atrio penetrar le soglie.
Eccolo ch’ei s’avanza.
Zeontippo.   Oh provvidenza
Dell’eterno motor, fa ch’io rinvenga
Lo smarrito garzon.
Talete.   Sì tardo al tempio?
Zeontippo. Tardo non fora il mio venir, se i Numi
Han de’ miei voti e del mio duol pietade.
Talete. Qual sventura ti opprime? (a Zeontippo
Zeontippo.   Il caro figlio,
L’unico mio conforto, all’umil tetto
Volse rapido il tergo, e me infelice
E l’afflitta sua madre in pianto, in lutto,
Mesti lasciò del suo destino in forse.
Le prime traccie del garzon fuggiasco
Mi additar le seconde, e a passo a passo
Qua giunsi alfin, dove trovarlo io spero.
Vasta è l’ampia città, declina il giorno;
Al nuovo sole rintracciarlo aspetto,