Arcadia (Sannazaro)/Prosa X
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ARGOMENTO
Descrive il bosco, la spelunca, e l’effigie di Pan Dio de’ pastori, con le leggi a loro prescritte, e parlando della sampogna d’esso, accenna il contenuto della Bucolica di Virgilio. Indi fa ragionare al sacerdote Enareto della forza degl’incanti per sanar la piaga amorosa dell’innamorato Clonico; e poi racconta quanto ben considerata ed adorna fosse la sepoltura di Massilia madre d’Ergasto.
prosa decima.
Le selve, che al cantar de’ duo pastori, mentre quello durato era, aveano dolcissimamente rimbombato, si tacevano già quasi contente, acquetandosi alla sentenzia di Montano; il quale ad Apollo, siccome ad aguzzatore de’ peregrini ingegni, donando l’onore, e la ghirlanda della vittoria, avea ad ambiduo i suoi pegni renduti. Per la qual cosa noi lasciando l’erbosa riva, lieti cominciammo per la falda del monte a poggiare, tuttavia ridendo, e ragionando delle contenzioni udite: e senza essere oltra a duo tratti di fionda andati, cominciammo appoco appoco da lunge a scoprire il reverendo e sacro bosco; nel quale mai nè con ferro, nè con scure alcuna si osava entrare; ma con religione grandissima per paura de’ vendicatori Dii fra’ paesani popoli si conservava inviolato per molti anni; e, se degno è di credersi, un tempo, quando il mondo non era sì colmo di vizj, tutti i pini, che vi erano, parlavano con argute note, rispondendo alle amorose canzoni de’ pastori. Al quale con lenti passi dal santo sacerdote guidati, siccome egli volle, in un picciolo fonticello di viva acqua, che nella entrata di quello sorgea, ne lavammo le mani; conciossiacosaché con peccati andare in cotal luogo non era da religione concesse. Indi adorato prima il santo Pan, dopo li non conosciuti Dii, se alcuno ve ne era, che per non mostrarsi agli occhi nostri nel latebroso bosco si nascondesse, passammo col destro piede avanti, in segno di felice augurio; ciascuno tacitamente in se pregandoli, gli fossero sempre propizj così in quel punto, come nelle occorrenti necessità future; ed entrati nel santo pineto, trovammo sotto una pendente ripa fra ruinati sassi una spelunca vecchissima, e grande, non so se naturalmente, o se da manuale artificio cavala nel duro monte; e dentro di quella, del medesimo sasso un bello altare, formato da rustiche mani di pastori; sovra al quale si vedeva di legno la grande effigie del salvatico Iddio, appoggiata ad un lungo bastone di una intera oliva, e sovra la testa avea due corna drittissime, ed elevate verso il cielo, con la faccia rubiconda come matura fragola; le gambe e i piedi irsuti, nè d’altra forma, che sono quelli delle capre; il suo manto era di una pelle grandissima, stellata di bianche macchie. Dall’un lato, e dall’altro del vecchio altare pendevano due grandi tavole di faggio, scritte di rusticane lettere: le quali successivamente di tempo in tempo per molti anni conservate dai passati pastori, contenevano in se le antiche leggi, e gli ammaestramenti della pastorale vita: dalle quali tutto quello, che fra le selve oggi si adopra, ebbe prima origine. Nell’una eran notati tutti i dì dell’anno, e i varj mutamenti delle stagioni, e la inequalità della notte e del giorno, insieme con la osservazione delle ore, non poco necessaria a’ viventi, e li non falsi pronostici delle tempestati: e quando il sole con suo nascimento denunzia serenità, e quando pioggia, e quando venti, e quando grandini; e quali giorni son della luna fortunati, e quali infelici alle opre de’ mortali: e che ciascuno in ciascuna ora dovesse fuggire, o seguitare, per non offendere le osservabili volontà degli Dii. Nell’altra si leggeva, quale dovesse essere la bella forma della vacca, e dei toro; e le età idonee al generare, ed al partorire; e le stagioni, e i tempi atti a castrare i vitelli, per poterli poi nel giogo usare alle robuste opre dell’agricoltura: similmente come la ferocità de’ montoni, forando loro il corno presso l’orecchia, si possa mitigare; e come legandogli il destro testicolo, genera femmine; e ’l sinistro, mascoli: ed in che modo gli agnelli vengano bianchi, o d’altri colori variati; e qual rimedio sia alle solitarie pecore, che per lo spavento de’ tuoni non si abortiscano: ed oltre a questo, che governo si convenga alle barbute capre: e quali, e di che forma, e di che etade, ed in che tempo dell’anno, ed in che paese quelle siano più fruttifere; e come i loro anni si possano ai segni delle noderose corna chiaramente conoscere: appresso vi erano scritte tutte le medicine appertinenti a’ morbi tanto de’ greggi, quanto de’ cani, e de’ pastori. Dinanzi alla spelunca porgeva ombra un pino altissimo e spazioso, ad un ramo del quale una grande e bella sampogna pendeva, fatta di sette voci, egualmente di sotto e di sopra congiunta con bianca cera; la cui simile forse mai non fu veduta a pastore in alcuna selva: della quale dimandando noi qual fosse stato l’autore (perchè da divine mani composta ed incerata la giudicavamo) il savio sacerdote così ne rispose: Questa canna fu quella, che ’l santo Iddio, che voi ora vedete, si trovò nelle mani, quando per queste selve da amore spronato seguitò la bella Siringa: ove, poi che per la subita trasformazione di lei si vide schernito, sospirando egli sovente per rimembranza delle antiche fiamme, i sospiri si convertirono in dolce suono: e così solo in questa sola grotta assiso presso alle pascenti capre, cominciò a congiungere con nova cera sette canne, l’ordine delle quali veniva successivamente mancando, in guisa che stanno i diti nelle nostre mani, siccome ora in essa medesima vedere potete: con la qual poi gran tempo pianse in questi monti le sue sventure. Indi pervenne, e non so come, nelle mani d’un pastore Siracusano; il quale prima che alcuno altro ebbe ardire di sonarla senza paura di Pan, o d’altro Iddio, sovra le chiare onde della compatriota Aretusa: ed è fama, che mentre costui cantava, i circonstanti pini movendo le loro sommità gli rispondeano; e le forestiere quercie dimenticate della propria salvatichezza abbandonavano i nativi monti per udirlo, porgendo sovente piacevoli ombre alle ascoltanti pecorelle: nè era Ninfa alcuna, nè Fauno in quelle selve, che di attrecciare ghirlande non si affaticasse, per ornargli di freschi fiori i giovenili capelli. Il quale poi da invidiosa morte sovraggiunto, fe’ di quella l’ultimo dono al Mantoano Titiro, e così col mancante spirto porgendogliela gli disse: Tu sarai ora di questa il secondo signore; con la quale potrai a tua posta riconciliare li discordevoli tauri, rendendo graziosissimo suono alli salvatichi Iddii. Per la qual cosa Titiro lieto di tanto onore, con questa medesima sampogna dilettandosi, insegnò primieramente le selve di risonare il nome della formosa Amarillida; e poi appresso lo ardere del rustico Coridone per Alessi; e la emula contenzione di Dameta, e di Menalca; e la dolcissima musa di Damone, e di Alfesibeo, facendo sovente per maraviglia dimenticare le vacche di pascere, e le stupefatte fiere fermare fra pastori, e i velocissimi fiumi arrestare dai corsi loro, poco curando di rendere al mare il solito tributo; aggiungendo a questo la morte di Dafni, la canzone di Sileuo, e ’l Gero amore di Gallo, con altre cose, di che le selve credo ancora si ricordino, e ricorderanno mentre nel mondo saranno pastori. Ma avendo costui dalla natura lo ingegno a più alte cose disposto, e non contentandosi di sì umile suono, vi cangiò quella canna, che voi ora vi vedete più grossa, e più che le altre nova, per poter meglio cantare le cose maggiori, e fare le selve degne degli altissimi Consoli di Roma: il quale poichè, abbandonate le capre, si diede ad ammaestrare i rustichi coltivatori della terra; forse con isperanza di cantare appresso con più sonora tromba le arme del Trojano Enea; l’appiccò quivi, ove ora la vedete, in onore di questo Iddio, che nel cantare gli avea prestato favore: appresso al quale non venne mai alcuno in queste selve, che quella sonare potuto avesse compitamente: posto che molti da volonteroso ardire spronati tentato lo abbiano più volte, e tentino tuttavia. Ma perchè il giorno tutto fra questi ragionamenti non trapassi, tornando omai a quello, per che venuti siete, dico, l’opra e ’l saper mio così a tutti vostri bisogni, come a questo un solo, essere sempre non men disposto, che apparecchiato: e conciossiacosachè ora per lo scemo della cornuta luna il tempo molto atto non sia; udirete nondimeno del luogo e del modo, che a tenere avremo, alquanto ragionare. E tu principalmente, innamorato pastore, a chi il fatto più tocca, porgi intentivamente le orecchie alle mie parole. Non molto lungo, di qui, fra deserti monti giace una profondissima valle, cinta d’ogn’intorno di solinghe solve, e risonanti di non udita salvatichezza; sì bella, sì maravigliosa e strana, che di primo aspetto spaventa cou inusitato terrore gli animi di coloro, che vi entrano: i quali, poi che in quella per alquanto spazio rassicurati si sono, non si possono saziare di contemplarla: ove per un solo luogo, e quello strettissimo ed aspro, si conviene passare; e quanto più basso si scende, tanto vi si trova la via più ampia, e la luce diventa minore: conciossiacosachè dalla sua sommità insino alla più infima parte è da opache ombre di giovani alberi quasi tutta occupala: ma poi che al fondo di quella si perviene, una grotta oscurissima e grande vi si vede incontanente aprire di sotto ai piedi; nella quale arrivando, si sentono subito strepiti orribilissimi, fatti divinamente in quel luogo da non veduti spirti, come se mille mila naccheri vi si sonassero. E quivi dentro in quella oscurità nasce un terribilissimo fiume, e per breve spazio contrastando nella gran voragine, e non possendo di fuora uscire, si mostra solamente al mondo, ed in quel medesimo luogo si sommerge; e così nascoso per occulta via corre nel mare, nè di lui più si sa novella alcuna sovra della terra: luogo veramente sacro, e degno, siccome è, di essere sempre abitato dagli Dii. Niuna cosa non venerabile, o santa vi si può giudicare; con tanta maestà e riverenza si offre agli occhi de’ riguardanti. Or quivi, come la candida luna con ritonda faccia apparirà a’ mortali sovra l’universa terra, ti menerò io primieramente a purgarti, se di venirvi ti darà il cuore, e bagnato che li avrò nove volte in quelle acque, farò di terra e di erbe un novo altare, ed in quello, circondato di tre veli di diversi colori, raccenderò la casta verbena, e maschj incensi, con altre erbe non divelte dalle radici, ma secate con acuta falce al lume della nova luna: dopo spargerò per tutto quel luogo acque tolte da tre fontane, e farotti poi discinto, e scalzo d’un piede sette volte attorniare il santo altare: dinanzi al quale io con la manca mano tenendo per le corna una nera agna, e con la destra lo acuto coltello, chiamerò ad alta voce trecento nomi di non conosciuti Dii; e con quelli la reverenda Notte accompagnata dalle sue tenebre, e le tacite Stelle consapevoli delle occulte cose, e la multiforme Luna polente nel cielo, e negli oscuri abissi, e la chiara faccia del Sole circondata di ardenti raggi; la quale continuamente discorrendo intorno al mondo, vede senza impedimento veruno tutte le opere de’ mortali. Appresso convocherò quanti Dii abitano nell’alto cielo, nell’ampia terra, e nell’ondoso mare; e ’l grandissimo Oceano padre universale di tutte le cose, e le vergini Ninfe generate da lui; cento, che ne vanno per le selve, e cento, che guardano i liquidi fiumi: ed oltra a questi, Fauni, Lari, Silvani, e Satiri, con tutta la frondosa schiera de’ Semidei, e ’l sommo aere, e ’l durissimo aspetto della brutta terra, gli stanti laghi, i correnti fiumi, e i sorgenti fonti: nè lascerò gli oscuri regni delli sotterranei Dii; ma convocando la tergemina Ecate, vi aggiungerò il profondo Caos, il grandissimo Erebo, e le infernali Eumenidi abitatrici delle Stigie acque, e se alcuna Deità è laggiù, che con degno supplicio punisca le scellerate colpe degli uomini; che siano tutte presenti al mio sacrificio: e così dicendo, prenderò un vaso di generoso vino, e verserollo nella fronte della dannata pecora, e disvellendole da mezzo le corna la fosca lana, la gitterò nel foco per primi libamenti: dopo aprendole la gola col destinato coltello, riceverò in una patera il caldo sangue, e quello con gli estremi labbri gustato verserò tutto in una fossa fatta dinanzi all’altare, con olio, e latte insieme, acciocchè ne goda la madre terra: e preparato che ti avrò in cotal modo, sovra la pelle di quella ti farò distendere; e di sangue di nottola ti ungerò gli occhi con tutto il viso; che le tenebre della notte al vedere non ti offendano, ma come chiaro giorno ti manifestino tutte le cose; ed acciocchè le strane, e diversissime figure de’ convocati Dii non ti spaventino, ti porrò in dosso una lingua, un occhio, ed una spoglia di Libiano serpente, con la destra parte del cuore d’un leone inveterato, e secco all’ombra solamente della piena luna. Appresso a questo, comanderò ai pesci, alle serpi, alle fiere, ed agli uccelli, dai quali quando mi piace intendo e le proprietà delle cose, e gli occulti secreti degli Dii, che vengano tutti a me di presente, senza fare dimora alcuna. Per la qual cosa, quelli solamente ritenendo meco, che mestiero mi faranno, gli altri rimanderò via nelle loro magioni: ed aperta la mia tasca, ne trarrò veleni potentissimi, coi quali a mia posta soglio io trasformarmi in lupo, e, lasciando i panni appiccati ad alcuna quercia, mescolarmi fra gli altri nelle deserte selve; non già per predare, come molti fanno, ma per intendere i loro secreti, e gl’inganni, che si apparecchiano a’ pastori di fare; i quali potranno ancora al tuo bisogno comodamente servire: e se uscire da amore totalmente vorrai, con acqua lustrale e benedetta t’innaffierò tutto, suffumicandoti con vergine solfo, con isopo, e con la casta ruta; dappoi ti spargerò sovra al capo della polvere, ove mula, o altro sterile animale involutato si sia; e sciogliendoti un per uno tutti i nodi, che indosso avrai, ti farò prendere la cenere dal sacro altare, ed a due mani per sovra ’l capo gettarlati dopo le spalle nel corrente fiume, senza voltare più gli occhi indietro: il quale subitamente con le sue acque ne porterà il tuo amore nell’alto mare, lasciandolo ai delfini, ed alle notanti balene. Ma se più tosto la tua nemica ad amarti di costringere tieni in desio, farò venire erbe da tutta Arcadia, e sugo di nero aconito, e la picciola carne rapita dal fronte del nascente cavallo prima che la madre d’inghiottirla si apparecchiasse. E fra queste cose, siccome io t’insegnerò, legherai una immagine di cera in tre nodi, con tre lacci di tre colori, e tre volle con quella in mano attorniando lo altare, altrettante le pungerai il cuore con punta di omicida spada, tacitamente dicendo queste parole:
Colei pungo ed astringo,
Che nel mio cor dipingo.
Appresso avrai alcuna parte del lembo della
sua gonna, e piegandola appoco appoco, e così
piegata sotterrandola nella cavata terra, dirai:
Tutte mie pene e doglie
Richiudo in queste spoglie.
Da poi ardendo un ramo di verde lauro, soggiungerai:
Così strida nel foco
Chi ’l mio mal prende in gioco.
Indi prendendo io una bianca colomba, e tu
tirandole una per una le penne, e gittandole
nelle fiamme, seguiterai:
Di chi il mio bene ha in possa
Spargo le carni, e l’ossa.
Al fine, poi che l’avrai tutta spogliata, lasciandola sola andare, l’arai così l’ultimo incanto:
Rimanti, iniqua e cruda,
D’ogni speranza ignuda.
Ed ogni fiata, che le dette cose farai, sputerai
tre volte; perocchè dell’impari numero godono
i magici Dii; nè dubitò punto, che saranno di
tanta eflicacia queste parole, che, senza repugnanza
alcuna fare, la vedrai a te venire, non
altrimenti che le furiose cavalle nelle ripe dello
estremo occidente sogliono i genitabili fiati
di Zeffiro aspettare; e questo ti affermo per la
Deità di questa selva, e per la potenzia di
quello Iddio, il quale ora presente standone,
ascolla il mio ragionare: e così detto, pose silenzio
alle sue parole. Le quali quanto diletto
porgessero a ciascuno, non è da dimandare:
ma parendone finalmente ora di ritornare alle
lasciale mandre, benchè il sole fosse ancora
molto allo, dopo molte grazie con parole rendutegli,
ne licenziammo da lui, e per una via
più breve postine a scendere il monte, andavamo
con non poca ammirazione commendando
lo udito pastore; tanto che quasi al piano
discesi, essendo il caldo grande, e veggendone
un boschetto fresco davanti, deliberammo di
volere udire alcuno della brigala cantare. Per
la qual cosa Opico a Selvaggio il carco ne impose,
dandogli per soggetto che lodasse il nobile
secolo, il quale di tanti e tali pastori si
vedeva copiosamente dotalo; conciofossecosachè
in nostra età ne era concesso vedere, ed udire pastori cantare fra gli armenti, che dopo mille
anni sarebbono desiati fra le selve: e stando
costui già per cominciare, rivolse, non so come,
gli occhi in un picciolo colle, che da man
destra gli stava, e vide l’alto sepolcro, ove le
reverende ossa di Massilia si riposano con eterna
quiete; Massilia madre di Ergasto, la quale
fu, mentre visse, da’ pastori quasi divina Sibilla
riputata. Onde drizzatosi in piedi disse: Andiamo
colà, pastori; che se dopo le esequie le felici anime
curano delle mondane cose, la nostra Massilia ne
avrà grazia nel cielo del nostro cantare; la quale sì
dolcemente soleva un tempo tra noi le contenzioni
decidere, dando modestamente ai vinti
animo, e commendando con maravigliose lodo
i vincitori. A tutti parve ragionevole quello,
che Selvaggio disse; e con espediti passi, l’un
dopo l’altro, molto con parole racconsolando
il piangente Ergasto, vi andammo. Ove giunti,
avemmo tanto da contemplare, e da pascere
gli occhi, quanto da’ pastori in alcuna selva si
avesse giammai; ed udite come. Era la bella
piramide in picciolo piano sovra una bassa
montagnetta posta fra due fontane di acque
chiarissime e dolci, con la punta elevata verso
il cielo, in forma di un dritto e folto cipresso;
per le cui latora, le quali quattro erano, si
potevano vedere molte istorie di figure bellissime;
le quali ella medesima, essendo già viva,
aveva in onore de’ suoi antichi avoli fatte dipingere,
e quanti pastori nella sua prosapia
erano in alcun tempo stati famosi e chiari per
li boschi, con tutto il numero de’ posseduti armenti:
e d’intorno a quella porgevano con
suoi rami ombra alberi giovanissimi e freschi, non ancora cresciuti a pare altezza della bianca
cima, perocchè di poco tempo avanti vi erano
dal pietoso Ergasto stati piantati. Per compassione
del quale, molli pastori ancora avevano
il luogo circondato di alte siepi, non di
pruni, o di rubi, ma di ginepri, di rose, e
di gelsomini; e formatovi con le zappe un seggio
pastorale, e di passo in passo alquante torri
di rosmarino, e di mirti, intessute con mirabilissimo
artificio. Incontro alle quali con gonfiate
vele veniva una nave fatta solamente di
vimini, e di fronde di viva edera, sì naturalmente,
che avresti detto: Questa solca il tranquillo mare:
per le sarte della quale, ora nel
timone, ed ora nell’alta gabbia andavano cantanti
uccelli, vagandosi in similitudine di esperti
e destrissimi naviganti. Così ancora per mezzo
degli alberi, e delle siepi si vedevano fiere bellissime
e snelle allegramente saltare, e scherzare
con varj giuochi, bagnandosi per le fredde
acque; credo forse per dare diletto alle piacevoli
Ninfe guardiane del luogo, e delle sepolte
ceneri. A queste bellezze se ne aggiungeva una
non meno da commendare, che qualsivoglia
delle altre; conciossiacosachè tutta la terra si
potea vedere coverta di fiori, anzi di terrene
stelle, e di tanti colori dipinta, quanti nella
pomposa coda del superbo pavone, o nel celestiale
arco, quando a’ mortali dinunzia pioggia,
se ne vedono variare. Quivi gigli, quivi ligustri,
quivi viole tinte di amorosa pallidezza, ed
in gran copia i sonnacchiosi papaveri con le
inchinate teste, e le rubiconde spighe dell’immortale
amaranto, graziosissime corone nell’orrido
verno. Finalmente quanti fanciulli, e magnanimi Re furono nel primo tempo pianti dagli
antichi pastori, tutti si vedevano quivi trasformati
fiorire, servando ancora gli avuti nomi;
Adone, Jaciuto, Ajace, e ’l giovane Croco,
con l’amata donzella; e fra questi il vano
Narciso si poteva ancora comprendere, che
contemplasse sopra quelle acque la dannosa bellezza,
che di farlo partire dai vivi gli fu cagione.
Le quali cose poi che di una in una
avemmo fra noi maravigliosamente commendate,
e letto nella bella sepoltura il degno epitafio,
e sovra quella offerte di molte corone; ne
ponemmo insieme con Ergasto in letti di alti
lentischi distesi a giacere, ove molti olmi, molte
quercie, e molti allori sibilando con le tremule
frondi ne si moveano per sovra al capo;
ai quali aggiungendosi ancora il mormorare delle
roche onde, le quali fuggendo velocissime
per le verdi erbe, andavano a cercare il piano,
rendevano insieme piacevolissimo suono ad
udire. E per gli ombrosi rami le argute cicale
cantando si affaticavano sotto al gran caldo; la
mesta Filomena da lunge tra folti spineti si lamentava;
cantavano le merole, le upupe, e le
calandre: piangeva la solitaria tortora per le
alte ripe: le sollicite api con soave susurro volavano
intorno ai fonti: ogni cosa redoliva della
fertile estate: redolivano i pomi per terra sparsi,
de’ quali tutto il suolo dinanzi a’ piedi, e
per ogni lato ne vedevamo in abbondanza coverto:
sovra ai quali i bassi alberi coi gravosi
rami stavano sì inchinati, che quasi viuti dal
mtturo peso parea che spezzare si volessero.
Onde Selvaggio, a cui sovra la imposta materia
il cantare toccava, facendo con gli occhi segnale a Fronimo che gli rispondesse, ruppe
finalmente il silenzio in queste voci.
ANNOTAZIONI
alla Prosa Decima.
Nell’una eran notati tutti i dì dell’anno, e i varj mutamenti delle stagioni ec. Qui è forse imitato Virgilio sul fine del Lib. i. dell’Eneide, ove si narra che Jopa tali cose appunto cantava:
Hic canit errantem lunam, solisque lahores:
Unde hominum genus, et pecudes; unde imber, et ignes;
Arcturum, pluviasque Hyadas, geminosque Triones:
Quid tantum Oceano properent se tingere soles
Hyberni, vel quae tardis mora noctibus obstet.
Nelle mani d’un pastore Siracusano ec. Ciò si riferisce a Teocrito poeta pastorale di Siracusa, il quale cantò i suoi bellissimi Idilli lungo l’Aretusa, fiume della Sicilia; del quale così i Poeti fingono l’origine. Aretusa fu una vergine cacciatrice, compagna di Diana, amata da Alfeo, fiume d’Elide. Non potendo ella dopo un lungo corso scampare dalla forza di Alfeo, venne per compassione convertita da Diana in un fonte, che per non essere corrotto dall’acque dell’amante, sotto terra fuggì in Ortigia, isola della Sicilia presso Siracusa, dove emerse con copiosissimo gorgo d’acque.
Al Mantovano Titiro, cioè a Virgilio, il quale così imitò Teocrito, che spesse volte pare che lo traduca dal Greco in Latino. Felici però quegli imitatori, o traduttori, che possono uguagliare Virgilio quando imita o traduce Teocrito! Con buona pace de’ lodevoli studiosi delle Greche lettere io direi, che, tratto il pregio dell’essere originale, pregio veramente grande, Teocrito è superato da Virgilio.
Insegnò primieramente le selve ec. Qui ’l Sanazzaro espone in breve gli argomenti delle dieci Egloghe Virgiliane, usando le stesse parole di Virgilio al principio di ciascuna Egloga.
E ’l grandissimo Oceano padre universale di tutte le cose ec. Ciò è tolto a Virgilio nel Lib. iv. della Georgica:
Oceanumque patrem rerum, nymphasque sorores,
Centum quae sylvas t centum quae flumina servant.
Tanto Virgilio prima, quanto il Sanazzaro poi chiamarono l’Oceano padre di tutte le cose giusta la sentenza di Talete
da Mileto, il quale, come scrive Diogene Laerzio nella vita
di lui, disse che ’l principio d’ogni cosa è l’acqua.
Ma convocando la tergemina Ecate ec. Virgilio nel Lib. iv. dell’ En.:
Stant arae circum; et crines effusa Sacerdos
Tercentum tonat ore Deos, Erebumque, Chaosque,
Tergeminamque Hecaten, etc.
Ecate viene chiamata tergemina, perchè ha tre nomi, essendo
Luna in cielo, Diana in terra, Proserpina nell’inferno.
Appellandosi anche Ecate sembra che ne abbia quattro; ma
non è questo che un cognome, proveniente da έκατòν,
che significa cento, perch’ella avea cento varj poteri, e con
cento vittime veniva placata.
Il profondo Caos. Secondo Esiodo il Caos è il più antico degli Dei, dal quale anzi tutti gli altri furono propagati. Qui però può esser preso anche per la prima indistinta mole di tutte le cose, dalla quale fu cavato l’orbe.
Il grandissimo Erebo. O l’Erebo è un Dio infernale nato dal Caos e dalla Caligine, e padre della Motte; o è la profondissima sede degli Dei infernali.
E le infernali Eumemdi. Queste sono le Furie infernali, le quali diconsi abitatrici delle onde di Stige, fiume dell’ Averno.
Dell’impari numero godono i magici Dii. Virgilio nell’Egl. viii. dice parimenti:
. . . . . . Numero Deus impare gaudet.
Meglio però di Virgilio parmi che abbia ciò detto il nostro
Sanazzaro aggiungendo agli Dei l’epiteto magici, perchè di
fatto quantunque sì i Greci che i Latini avessero per sacro il
numero impari, e spezialmente il tre, nondimeno se tutto ciò
che ha del misterioso, vien creduto più adatto alle magiche
cerimonie, è pur da credersi che gli Dei che appunto in tali
cerimonie s’invocano, debbano compiacersi più che gli altri
nel numero impari.
Adone, Jacinto, Ajace ec. Adone fu giovane bellissimo, amato da Venere. Essendo stato ammazzato da un cinghiale, Venere dopo d’averlo pianto lungo tempo, lo mutò nel fiore, che porta il suo nome. Jacinto fu un fanciullo parimente bellissimo, amato da Apollo. Essendo stato ucciso per disgrazia nel lanciare che fece Apollo d’un disco, fu mutato nel fiore del suo nome. Il disco o piastrella, come meglio si direbbe in italiano, era una macchinetta rotonda e piana o di sasso, o di ferro, o di piombo, che serviva di giuoco alla gioventù, a chi più lontano, o a chi più alto la spingeva. Ma al fiore di cui parliamo, si dà anche un’altra origine. Essendo egli distinto di certe vene nere, che figurano co’ loro andamenti le due lettere Greche α ed ι, alcuni dicono che quell’Α ι fosse un segno de’ lamenti d’Apollo, che uccise Jacinto nel modo che abbiamo detto; altri dicono, che significhi Ajace, cioè quell’Ajace Telamonio che per dolore d’aver perduto in contrasto con Ulisse l’armi d’Achille, si ammazzò da se stesso; e del suo sangue nacque il medesimo fiore Jacinto.
Croco con l’amata donzella. Croco amò così perdutamente la bellissima donzella Smilace, ed ella parimenti con tale violenza riamò lui, ch’egli per l’impazienza d’amore fu convertito nel fiore dello zafferano, ed ella per l’estenuazione fu cangiata nell’erba del suo nome.
Il vano Narciso. Questi mirandosi in una fonte s’invaghì talmente di se medesimo che per passione si consumò, e venne convertito nel fiore, che Narciso dal suo nome s’appella.