Arcadia (Sannazaro)/Egloga IX
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EGLOGA NONA.
ofelia, elenco e montano.
Ofelia.
Dimmi, caprar novello, e non t’irascere.
Questa tua greggia ch’è cotanto strania,
Chi te la diè sì follemente a pascere?
Elenco.
Dimmi, bifolco antico, e quale insania
Ti risospinse a spezzar l’arco a Clonico,
Ponendo fra pastor tanta zizzania?
Ofelia.
Forse fu allor ch’io vidi malinconico
Selvaggio andar per la sampogna e i naccari,
Che gl’involasti tu, perverso erronico.
Elenco.
Ma con Uranio a te non valser baccari,
Che mala lingua non t’avesse a ledere;
Furasti il capro, ci ti conobbe ai zaccari.
Ofelia.
Anzi gliel vinsi, ed ei nol volea cedere
Al cantar mio, schernendo il buon giudicio
D’Ergasto, che mi ornò di mirti e d’edere.
Elenco.
Cantando tu ’l vincesti? or con Galicio
Non udi’ io già la tua sampogna stridere
Come agnel ch’è menato al sacrificio?
Ofelia.
Cantiamo a prova, e lascia a parte il ridere:
Pon quella lira tua fatta di giuggiola:
Montan potrà nostre question decidere.
Elenco.
Pon quella vacca che sovente muggiola;
Ecco una pelle, e due cerbiatti mascoli
Pasti di timo e d’acetosa luggiola.
Ofelia.
Pon pur la lira, ed io porrò duo vascoli
Di faggio, ove potrai le capre mungere;
Che questi armenti a mia matrigna pascoli.
Elenco.
Scuse non mi saprai cotante aggiungere,
Ch’io non ti scopra: or ecco il nostro Eugenio:
Far non potrai sì, ch’io non t’abbia a pungere.
Ofelia.
Io vo’ Montan, ch’è più vicino al senio;
Che questo tuo pastor par troppo ignobile,
Nè credo ch’abbia sì sublime ingenio.
Elenco.
Vienne all’ombra, Montan; che l’aura mobile
Ti freme fra le fronde, e fiume mormora:
Nota il nostro cantar qual è più nobile.
Ofelia.
Vienne, Montan, mentre le nostre tormora
Ruminan l’erbe, e i cacciator s’imboscano,
Mostrando ai cani le latebre e l’ormora.
Montano.
Cantate, acciocchè i monti omai conoscano,
Quanto ’l secol perduto in voi rinnovasi:
Cantate fin che i campi si rinfoscano.
Ofelia.
Montan, costui che meco a cantar provasi,
Guarda le capre d’un pastor erratico.
Misera mandra, che ’n tal guida trovasi!
Elenco.
Corbo malvagio, ursacchio aspro e salvatico,
Cotesta lingua velenosa mordila,
Che trasportar si fa dal cor fanatico.
Ofelia.
Misera selva, che coi gridi assordila:
Fuggito è dal romore Apollo e Delia.
Getta la lira omai, che indarno accordila.
Montano.
Oggi qui non si canta, anzi si prelia:
Cessate omai, per Dio, cessate alquanto:
Comincia, Elenco, e tu rispondi, Ofelia.
Elenco.
La santa Pale intenta ode il mio canto,
E di bei rami le mie chiome adorna,
Che nessun altro se ne può dar vanto.
Ofelia.
E ’l semicapro Pan alza le corna
Alla sampogna mia sonora e bella,
E corre e salta e fugge, e poi ritorna.
Elenco.
Quando talora alla stagion novella
Mugno le capre mie, mi scherne e ride
La mia soave e dolce pastorella.
Ofelia.
Tirrena mia col sospirar m’uccide,
Quando par che ver me con gli occhi dica;
Chi dal mio fido amante or mi divide?
Elenco.
Un bel colombo in una quercia antica
Vidi annidar poc’anzi; il qual riserbo
Per la crudele ed aspra mia nemica.
Ofelia.
Ed io nel bosco un bel giovenco aderbo
Per la mia donna; il qual fra tutti i tori
Incede con le corna alto e superbo.
Elenco.
Fresche ghirlande di novelli fiori
I vostri altari, o sante ninfe, avranno,
Se pietose sarete a’ nostri amori.
Ofelia.
E tu, Priapo, al rinnovar dell’anno
Onorato sarai di caldo latte,
Se porrai fine al mio amoroso affanno.
Elenco.
Quella che in mille selve e ’n mille fratte
Seguir mi face amor, so che si dole,
Benchè mi fugga ognor, benchè s’appialte.
Ofelia.
Ed Amarauta mia mi stringe, e vole
Ch’io pur le canti all’uscio; e mi risponde
Con le sue dolci angeliche parole.
Elenco.
Fillida ognor mi chiama, e poi s’asconde,
E getta un pomo, e ride, e vuol già ch’io
La veggia biancheggiar tra verdi fronde.
Ofelia.
Anzi Fillida mia m’aspetta al rio,
E poi m’accoglie sì soavemente,
Ch’io pongo il gregge e me stesso ’n obblio.
Elenco.
Il bosco ombreggia; e se ’l mio sol presente
Non vi fosse or, vedresti in nova foggia
Secchi i fioretti, e le fontane spente.
Ofelia.
Ignudo è il monte, e più non vi si poggia;
Ma se ’l mio sol vi appare, ancor vedrollo
D’erbette rivestirsi in lieta pioggia.
Elenco.
O casta Venatrice, o biondo Apollo,
Fate ch’io vinca questo alpestro Cacco,
Per la faretra che vi pende al collo.
Ofelia.
E tu, Minerva, e tu celeste Bacco,
Per l’alma vite, e per le sante olive,
Fate ch’io porti la sua lira al sacco.
Elenco.
O s’io vedessi un fiume in queste rive
Correr di latte; dolce il mio lavoro
In far sempre fiscelle all’ombre estive!
Ofelia.
O se queste tue corna fussen d’oro,
E ciascun pelo molle e ricca seta,
Quanto t’avrei più caro, o bianco toro!
Elenco.
O quante volte vien giojosa e lieta,
E stassi meco in mezzo ai greggi miei
Quella che mi diè in sorte il mio pianeta!
Ofelia.
O quai sospir ver me move colei
Ch’io sola adoro! o venti, alcuna parte
Portatene all’orecchie degli Dei.
Elenco.
A te la mano, a te l’ingegno e l’arte,
A te la lingua serva, o chiara istoria:
Già sarai letta in più di mille carte.
Ofelia.
Omai ti pregia, ornai ti esalta e gloria;
Ch’ancor dopo mill’anni in viva fama
Eterna fia di te qua giù memoria.
Elenco.
Qualunque per amor sospira e brama,
Leggendo i tronchi ove segnata stai,
Beata lei, dirà, che ’l ciel tant’ama.
Ofelia.
Beata te, che rinnovar vedrai
Dopo la morte il tuo bel nome in terra;
E dalle selve al ciel volando andrai.
Elenco.
Fauno ride di te dall’alta serra:
Taci, bifolco; che, s’io dritto estimo,
La capra col leon non può far guerra.
Ofelia.
Corri, cicala, in quel palustre limo,
E rappella a cantar di rana in rana;
Che fra la schiera sarai forse il primo.
Elenco.
Dimmi, qual fera è sì di mente umana,
Che s’inginocchia al raggio della luna,
E per purgarsi scende alla fontana?
Ofelia.
Dimmi, qua! è l’uccello il qual raguna
I legni in la sua morte, e poi s’accende,
E vive al mondo senza pare alcuna?
Montano.
Mal fa chi contra al ciel pugna o contende:
Tempo è già da por fine a vostre liti;
Che ’l saver pastoral più non si stende.
Taci, coppia gentil; che ben graditi
Son vostri accenti in ciascun sacro bosco;
Ma temo che da Pan non sian uditi.
Ecco, al mover de’ rami il riconosco,
Che torna all’ombra pien d’orgoglio e d’ira
Col naso adunco afflando amaro tosco.
Ma quel facondo Apollo, il qual v’aspira,
Abbia sol la vittoria; e tu, bifolco,
Prendi i tuo’ vasi; e tu, caprair, la lira:
Cheb ’l ciel v’accresca come erbetta in solco.
ANNOTAZIONI
all’Egloga Nona.
Dimmi, caprar novello, ec. Tutta quest’Egloga è fatta ad imitazione dell’Egl. iii. delta Buccolica di Virgilio, che anch’esso la prese dall’ Idilio iv. di Teocrito.
E tu, Priapo, ec. Fino da’ più antichi tempi Priapo fu creduto un Dio. Dai Moabiti e dai Madianiti, popoli dell’Arabia, fu onorato sotto il nome di Baal-Phegor. San Girolamo così scrive: Beelphegor, idolum Moabitarum, quem nos Priapum possumus appellare. Tnoltre fu adorato com’egli fosse lo stesso che il Soie. Perciò Orfeo, od Onomacrito ne’ suoi Inni, così dice rivolgendosi al sole:
Tu rechi a noi la fiammeggiante luce,
Ond’io Fane ti chiamo, o ’l re Priapo.
Per vie più confermare questa cosa, potrebbesi anche provare
ch’ ìegli era lo stesso che l’Oro degli Egizj, il quale altri
non era che il Sole, o ’l figliuolo del Sole, Che se si opponesse
essere stato detto da alcuni che Priapo fu creduto lo
stesso che Bacco, agevolmente si può rispondere, che appunto
anche Bacco spesso vien preso pel Sole. Laonde non
dee recare maraviglia il vedere che Priapo tiene con una
mano lo scettro, e coll’altra il pene. Essendo lo stesso che
il Sole, egli così indica la sua forza produttrice di tutte le
cose della natura. Quindi solevasi ergere negli orti il suo simulacro,
e far sedere le spose sovra il suo membro genitale,
sì perchè sembrasse ch’egli il primo ne delibasse la pudicizia,
come perchè le rendesse feconde. Del resto Priapo non
solo fu venerato nel modo che finora abbiamo detto, ma anco
qual Dio del mare; del che ne fa fede Leonida con quell’elegante
Epigramma riportato nell’Antologia, cui piacquemi
PRIAPO
AL NOCCHIERO
La primavera un facile
Già la vezzosa rondine
Tepido spira un zefiro,
Di nuovo il prato verdica,
Sorgi, o Nocchiero, e intrepido
A’ miei sovrani fidati
Col mio favor, che i turbini
Anzi Fillida mia ec. Ofelia più sopri chiamò la sua innamorata col nome di Amaranta, ed ora la chiama con quello di Fillida; ma ciò non deve punto scontentarci, poichè si come tutti questi son nomi finti, o per dir meglio nomi amorosi, che indistintamente si danno alle amate, non dee parere strano che alla stessa person or venga dato il nome di Silvia o di Clori, or quello di Filli o di Amaranta. Io però non consiglierei i giovani a scambiare sì facilmente cotesti medesimi nomi in uno stesso componimento; e massime se il discorso venisse diretto alla persona, il cui nome si volesse mutare; poiché non nominandosi allora cotale persona, che per renderla ognor più attenta al nostro discorso, la mutazione del nome richiamerebbe a se parte dell’attenzione. Questo riflesso può servire a difendere il nostro Sanazzaro, che cambia il nome della innamorata d’Ofelia, mentre questi non fa che una narrazione. O casta Venatrice, Diana Dea della caccia. Cacco, qui è detto per antonomasia e per disprezzo Ovidio nel Lib. i. de’ Fasti, ove narra come questo mostro fu ucciso da Ercole, così lo descrive:
Cacus Aventinae timor, atque infamia silvae,
Dimmi qual fera ec. Non cessando punto il nostro Sanazzaro d’imitar Virgilio nell’Egl. iii., fa che i due pastori in concorrenza propongano dubbj l’uno all’altro, senza farli risolvere. Onde Elenco domanda qual sia quell’animale che tanto s’avvicini d’intelletto all’uomo, che vedendo la luna, s’inginocchi, e scenda alla fontana per purgarsi. E questo animale deve intendersi essere l’elefante; della natura del quale si leggono cose maravigliose; ma fra l’altre dicono, per dichiarazione di questo luogo, che nelle campagne di Mauritania a un certo fiume che si chiama Amilo, quando la luna è nuova, scendono le mandre degli elefanti, e quivi solennemente purificandosi, si spruzzano d’acqua, e poi facendo riverenza alla luna, se ne ritornano alle selve. Il Porcacchi. Dimmi qual è l’uccello ec. Intendi la fenice, della quale Plinio nel Cap. ii. del Lib. x. scrive, ch’ella vive 660 anni, che fattosi un nido di cassia e d’incenso, e riempiutolo d’odori, vi muore sopra, e che delle ossa, e delle midolle sue nasce un vermicello, che poi diventa il medesimo uccello della fenice. Queste due domande sono adattatissime alle rozze persone de’ pastori. Poichè se cotali maraviglie dell’elefante, e della fenice narrate dai vecchi autori, e rigettate dai moderni, tuttora sbalordiscono le genti non del tutto incolte, quanto stupore non debbono generare nelle menti dei più semplici! Laonde assai giudiziosamente il Sannazzaro fa dire a Montano: Mal fa chi contra al ciel pugna e contende; quasi dicendo, che il parlare di quelle cose tanto alte è un volere penetrare troppo addentro negli arcani della natura, la cui cognizione solo a se medesimo il cielo ha riserbato. |